La polizia antisommossa e l’arte coreana della guerra

Korean Riot Police

A volte una formazione a testuggine è solo un guscio protettivo di scudi e punte acuminate, altre nasconde al suo interno il drago agile e splendente dei cieli taoisti dell’Estremo Oriente: una sorta di chimera militare. Le ali della gru si spalancano, il cuneo dei soldati s’insinua serpentino tra i reparti avversari, la carpa determinata risale un fiume ostile, si trasforma in tigre e aggredisce il gruppo infiltrato dei fomentatori. Questo reparto della polizia sud-coreana in addestramento, registrato da Infinitychallenger nel 2011, dimostra capacita straordinarie nell’applicazione dell’antica filosofia guerresca di Sun Tzu, forse il più famoso stratega al mondo. Oggi il campo di battaglia, in senso tradizionale, ha lasciato il posto alle nuove tecnologie e del resto non potrebbe realmente esistere in presenza dell’artiglieria moderna. Ma c’è un settore in cui i generali di un tempo potrebbero ancora trovare un impiego: l’intervento antisommossa. Come le storiche legioni, gli addetti a questo compito si vestono in varie circostanze di pesanti armature e impugnano scudi e manganelli, armi non dissimili per portata e ingombro da quelle dei loro antesignani dell’Impero Romano, i dominatori delle orde barbariche disorganizzate. Qui solo, probabilmente, è ancora possibile applicare in senso letterale le regole ancestrali dell’Arte della Guerra.

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Le due viti infinite che nel ’26 viaggiarono oltre la neve

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E’ tutta una questione di superfici. Puoi avere il motore più potente, il battistrada termico di gomme specializzate di ogni marca o le migliori catene d’importazione, ma se il bianco manto invernale è davvero profondo dovrai restare lo stesso a casa. La tecnologia motoristica che sfruttiamo per muoverci ha il suo inevitabile peso, mentre la neve è per sua natura friabile e traditrice. Quante buche si sono aperte a sorpresa sotto i capaci pneumatici di un automobilista determinato a raggiungere il posto di lavoro a gennaio? Quante motoslitte artiche, con tanto di cingoli, sono scivolate in invisibili crepacci ghiacciati, rivelati all’improvviso da un sottile e rassicurante manto nevoso? I veicoli di terra convenzionali non sono in grado, come le imbarcazioni o gli aerei, di sfruttare a loro vantaggio i complessi equilibri fisici delle sostanze che compongono il loro ambiente, galleggiando tranquillamente sopra i pericoli nascosti dalle strade ricoperte di neve profonda e ghiaccio. C’è stata però un’epoca in cui il problema era stato risolto, sembrava, per tutte le epoche a venire. Un anno lontano, a cavallo tra le due guerre, in cui i trattori americani viaggiavano non più su ruote ma impiegando l’energia dinamica di una coppia di viti di Archimede, simili a trivelle. Questo è il Fordson “Snow Devil” uno dei mezzi di trasporto più rivoluzionari del secolo scorso, un’invenzione geniale che, per un capriccio della storia, non diede inizio ad alcun tipo di rivoluzione.

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Fairchild Packplane: lo strano camion volante dei primi anni ’50

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Benchè il concetto di un aereo impiegato per il trasporto di merci, posta e materiali risalga inizi del XX secolo, il primo velivolo creato per questo specifico compito non solcò i cieli fino a tempi ben più recenti. Stiamo parlando degli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, l’epoca in cui due grandi compagnie americane si contendevano il nuovo settore commerciale dell’aviazione civile, impiegando incredibili colpi di genio ingegneristici e progetti innovativi. La Fairchild Aviation, azienda texana oggi famosa per il riconoscibile cacciabombardiere A-10 Thunderbolt, partiva con un significativo vantaggio: l’affidabile benchè poco potente C-82 Packet, un panciuto trasporto truppe, ospedale da campo volante e traino preferito per gli alianti usati dai paracadutisti nelle operazioni speciali. Dall’altra parte c’era il colosso aerospaziale Lockheed, fondato nel 1912 in California, creatore tra gli altri degli iconici caccia bimotore P-38 Lightning, imbattibili re dei cieli sul finire della guerra nel Pacifico. Come spesso capita nel campo delle innovazioni tecnologiche, tuttavia, la competizione del libero mercato si trasformerà presto in conflitto, finendo per mietere vittime inconsapevoli tra le più brillanti idee delle due parti contrapposte.

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L’antica scrivania robotica del re di Prussia

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Non dev’essere stato facile succedere agli oltre 40 anni di regno di uno dei più grandi condottieri militari della storia, antonomasia stessa del concetto di monarca illuminato nella turbolenta Europa del XVIII secolo. Eppure questo fu il destino imprevisto di Federico Guglielmo II di Prussia (anni di regno 1786-1797) detto dai suoi contemporanei der dicke Lüderjahn (grassone buono a nulla) il nipote di Federico il Grande e che era diventato improvvisamente erede al trono in seguito alla morte di suo padre, un generale della guerra dei sette anni. Questo corpulento sovrano, elogiato in giovane età dal celebre zio per il suo comportamento esemplare durante l’assedio di Schweidnitz, passò alla storia come dongiovanni intemperante e sfrenato festaiolo, più appassionato al godersi la vita che nel gestire le complesse vicende storiche della sua nazione, minacciata in quegli anni dalle nuove forze politiche nate a seguito della Rivoluzione Francese. Appassionato di occultismo, legato a mistici e società segrete, si trovò a gestire una corte ricca di intrighi ed amanti, sempre condizionato dai vecchi e ostinati amministratori che erano rimasti in carica dai tempi dello zio. Ma una cosa e certa: Federico Guglielmo sapeva apprezzare l’arte. Ne è una prova la sua scrivania più famosa, detta scrittoio di Berlino, un capolavoro d’ebano meccanizzato con tanto di orologio prodotto dai fratelli Roentgen, costruttori di mobili tra i più importanti della loro epoca.

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