L’esperienza di correre con 800 cani

Territorio de Zaguates

Tra gli alti alberi della Costa Rica, in mezzo all’erba rigogliosa, sotto un cielo azzurro in cui le nubi formano figure stranamente suggestive: uno tsunami. Fragoroso e multiforme, animato come una vecchia sequenza del cinema a cartoni animati, di occhi strabuzzati, code ritte, tra infiniti abbai stonati ed insistenti. C’è l’animale piccolo, che tenta in tutti i modi di farsi notare. Medi rapidi e scattanti. E grossi maschi alfa, pesanti e muscolosi, il cui muso si agita a puntare la pentola di ossa bovine *si spera* in fondo ad un arcobaleno in bianco e nero, che soltanto loro possono annusare a miglia di distanza. E dietro…La gente. Dozzine di persone, l’auto parcheggiata giù all’ingresso del Territorio Zaguates (la terra dei bastardi), ogni problema della vita custodito in quel portabagagli ormai distante. Una scena pienamente epica, che tuttavia riesce a ripetersi ogni fine settimana. Perché: “Venite!” Ripete spesso Lya Battle, cofondatrice e voce principale della strana istituzione: “Le nostre porte sono sempre aperte. Giocate con i cani. Fate amicizia. Ed alla fine, se ve la sentite, accoglietene uno sul sedile dell’auto e quindi dentro casa vostra, al termine del viaggio.”  Sarebbe questa non per niente una missione, o vocazione, che si è concretizzata nell’impegno quotidiano di questi ultimi 8 anni, di lei con il marito Alvaro Saumet, in un primo momento, poi assistiti dall’amica di vecchia data Marcela Castro e quindi da un nutrito gruppo di volontari, che da sempre hanno creduto nell’importanza della loro opera e del ruolo fondamentale di un luogo tanto ameno, in un paese dove i diritti degli animali non si trovano esattamente in cima alle preoccupazioni del governo e delle autorità. O se è per questo, del grosso della popolazione.
Lya Battle, nata in Canada da padre canadese e madre della Costa Rica, fece ritorno nel paese di lei all’età di 5 anni, sviluppando quasi immediatamente un forte amore per gli animali. Sentimento che la portò da adulta ad adottare una coppia di cani di strada assieme al marito, poiché come racconta: “Un tale luogo non può essere la casa di nessuno.” E tutto sarebbe proseguito per gradi, se non fosse che un terzo cane, affezionato agli altri due, non prese l’abitudine di visitarli e chiedere del cibo alla famiglia. Così, stando alle frammentarie narrazioni reperibili online (purtroppo al momento in cui scrivo il sito del Territorio non risulta accessibile) tutto andava per il meglio, finché un giorno infausto l’ultimo arrivato non sparì. Era finito, ahimé, sotto una macchina. L’esperienza fu devastante ma notevolmente significativa. Perché da quel momento Lya ed Alvaro, che avevano recentemente ereditato un’appezzamento di terra poco a nord di San Josè, decisero che non avrebbero più rifiutato di accogliere alcun animale. E che questi sarebbero vissuti liberi, all’interno di un vasto spazio recintato, ricevendo da loro tutte le cure ed il cibo necessari a fare un’ottima vita da cani. Ciò che nacque, da una tale visione apparentemente utopica ed impossibile, fu un impegno collettivo senza precedenti. Una locale fabbrica di cibo per cani prese a sponsorizzarli, fornendo all’incirca l’80% delle vivande necessarie al branco in crescita esponenziale, mentre alcuni veterinari, apprezzando l’occasione di aiutare, presero a visitare la fattoria pro-bono. La strana realtà operativa, giunta a un tale punto, non poteva che crescere. Ed appunto questo fece: superando ben presto i 100 cani, per poi raddoppiare quella cifra nel giro di un paio d’anni e quindi ancora. Tutti i cani qui accolti, naturalmente, vengono sterilizzati, ma il problema dei randagi nel Costa Rica è ormai a un livello critico, tale da garantire un continuo afflusso di nuovi ospiti nel Territorio de Zaguate. Essendo quest’ultimo, inoltre, formalmente contrario all’eutanasia, l’unico modo che ha per fare spazio è dare i cani in adozione. E questo non è sempre FACILE….

Leggi tutto

La capra che offese la regina Elisabetta II

Billy the Goat

Tutto accadde il 16 giugno del 2006, durante le celebrazioni tenutasi a Cipro per il suo ottantesimo compleanno. Lei, raggiante nel suo abito e copricapo rosa fuchsia, perfettamente abile nel suo ruolo di rappresentanza nonostante l’età avanzata, che incede maestosamente (come potrebbe mai essere altrimenti) dinnanzi alle truppe in rassegna. Tra le quali, come potrete a questo punto immaginare, c’era una rappresentante della tipica genìa quadrupede di montagna, ornata da magnifica coperta, cappucci d’argento per le corna, un emblema con lo stemma reale tra le corna. Mentre un fante, con il grado ufficiale di “maggiore della capra” la teneva saldamente al guinzaglio, mostrando un’espressione molto preoccupata. William Windsor, infatti (casuale omonimo del di lei nipote, il duca di Cambridge) si era dimostrato quel giorno come un animale piuttosto recalcitrante e riottoso, in perenne ricerca di un bersaglio contro cui far battere il suo cranio corazzato. La regina, nota amante degli animali, si avvicinò con fare cordiale. In quel momento, tutti compresero con orrore, ogni cosa poteva accadere…
Che tra gli americani ed inglesi non corra tradizionalmente del buon sangue è una questione molto nota; è in effetti, del tutto impossibile in determinati ambienti del mondo politico, nonché in altri del senso comune, dimenticare la Rivoluzione delle colonie iniziata nel 1775, che tante anime costò ad entrambe le parti, e che avrebbe condotto con certezza i primi all’indipendenza ed al diritto di essere considerati una nazione. Ma quale fu, in effetti, il punto di svolta dell’intera problematica faccenda? Se non il primo conflitto sanguinoso di quella dannata guerra, combattuto il 19 aprile di quell’anno, presso i due villaggi del Massachusetts, Lexington e Concord? Molte sono le storie collegate ad un tale evento, tra cui quella della folle cavalcata degli ufficiali della milizia Revere e Dawes, che corsero ad avvisare i miliziani dell’arrivo dei britannici e dell’imminente scontro a fuoco. E poi c’è l’intera, assolutamente fondamentale faccenda, di chi sia stato a sparare il primo colpo della guerra, contrariamente all’ordine dato dai generali britannici e coloniali. Dando inizio ad una situazione di conflitto che avrebbe portato, entro il termine della giornata, alla triste dipartita di un gran totale di 100-120 persone. Roba da nulla, essenzialmente. Sopratutto al confronto di quello che sarebbe capitato qualche mese dopo. 17 giugno: i miliziani delle colonie, che si facevano chiamare i minutemen per la loro capacità di “prepararsi alla battaglia in un minuto” imbaldanziti dalle prime facili vittorie, si uniscono alle forze assedianti la città strategicamente fondamentale di Boston. Silenziosamente occupano le colline circostanti il porto ed iniziano quindi un fragoroso bombardamento d’artiglieria, grazie ai cannoni che avevano sottratto dal forte di Ticonderoga. I britannici al di là del fronte di battaglia, che nelle settimane precedenti avevano ricevuto i rinforzi via mare di fino a 3.000 uomini perfettamente armati ed addestrati, inclusivi di interi reggimenti di fanti e marines, marciarono coraggiosamente sotto il comando del generale William Howe, con l’intenzione di riconquistare le posizioni elevate e spezzare l’assedio dell’esercito di irregolari. Si tentò l’aggiramento per ben tre volte, dando inizio ad una mischia selvaggia, durante la quale furono trafitti dalle baionette, o i pallini di fucile, una buona parte dei 1.000 soldati inglesi e circa 400 americani che sarebbero risultati al conto delle vittime, molti dei quali dipartiti immediatamente o poco dopo, per la relativa arretratezza della scienza medica in quegli anni. Gradualmente, tuttavia, la postazione dei cannoni venne sopraffatta, e la milizia fu costretta ad iniziare una difficoltosa manovra di ritirata. E fu allora, secondo la leggenda, che dinnanzi ai vessilli strappati dei britannici si presentò una scena totalmente inaspettata.
Manto bianco, corna ritorte e un fare stranamente disinteressato, nonostante il frastuono e i letterali cumuli di morti e feriti, un artiodattilo dall’andatura dinoccolata che si stagliava contro l’orizzonte, belando. Era una capra aegagrus hircus, ovvero della specie comunemente addomesticata dagli umani, la quale tuttavia si era ritrovata a vivere allo stato brado, forse a causa dell’abbandono delle fattorie durante i primi stadi della guerra. E che adesso si trovava, incredibilmente, in una posizione perfetta per venire crivellata dal fuoco incrociato dei due schieramenti. Se non che i coloniali gli voltavano la schiena, intenti com’erano a fuggire. E i soldati inglesi insanguinati, stanchi fino ormai allo stremo, quando videro l’innocente candore della bestia ne vennero in qualche maniera corroborati, tanto che i loro ufficiali provenienti in massima parte dal Galles, piuttosto che ordinare di far fuoco, decisero di correre avanti, per sovrastare con la mera forza bruta il nemico. O forse avevano semplicemente finito le munizioni, chissà. Il risultato… Beh! La visione di un’intera fila di soldati che sopraggiunge a perdifiato, con oggetti acuminati puntati in avanti, è più che sufficiente per indurre il puro terrore un qualsivoglia quadrupede, per quanto possa trattarsi di un coraggioso montanaro. Così la capra molto sfortunata prese a correre alla massima velocità consentita dalle sue zampette, nell’esatta direzione opposta, ovvero i coloniali. Una scena diversamente interpretabile, in cui molti avrebbero visto diverse cose. Mentre i superstiti testimoni inglesi, come un sol uomo, avrebbero commemorato un tale evento come segue: “La capra sta conducendo la carica verso le forze rivoluzionarie! La capra è in questo caso, il nostro VERO generale! Seguiamola fino all’inferno!” E così fu. Si trattò di un terribile massacro, tanto che il generale Clinton delle forze di Boston, citando l’infelice vicenda del re Pirro dell’Epiro (da cui la celebre vittoria-non-vittoria per antonomasia) scrisse nel suo diario: Pochi altri “trionfi” come questo metteranno presto fine al dominio britannico in America. Fu innegabile tuttavia come, al termine dell’intera triste vicenda, i britannici avessero trovato un’amico.

Leggi tutto

La terra TREMA quando questo uccello s’innamora

Flame Bowerbird

Perché nell’opinione della signora dell’uccello della pergola di fuoco, a quanto pare, non c’è niente di più attraente di un grazioso lui che si avvicina dondolandosi vistosamente, con la testa girata di lato, quindi si accovaccia e striscia sul tappeto di erbe, sterpaglia e licheni. Finché giunto nel punto determinato, egli non si trova tra due costruzioni artificiali di rametti, precedentemente predisposti per lo scopo, ove sollevarsi per dare princìpio allo spettacolo vero e proprio: con una postura curva, come il Fantasma dell’Opera, e pupille che si allargano e si stringono in maniera vagamente allarmante. L’ala sinistra che si agita, le piume rosse della gola che si gonfiano sempre di più, la coda usata come fosse l’approssimazione di un ventaglio. E il becco, spalancato. Per produrre un suono, oppure molti, scelti e riprodotti sulla base di quelli comunemente uditi in mezzo agli alberi della foresta della Papua: il grido delle scimmie? Un gorgoglìo di pappagalli? Il battito d’ali ritmico, in crescendo, di questi ultimi che lasciano il terreno verso mete inesplorate… Gutturale e melodioso, così lui continua, facendo su e giù, su e giù. Finché a un certo punto, rilevando che il suo pubblico è prossimo all’estasi, non solleva dal terreno un rotondissimo mirtillo. E quindi l’offre, o in altri termini lo mostra, a colei che attende concentrata l’attimo della perfetta ispirazione. A concedersi, o fuggire. Non è una scelta semplice, in determinati casi. Giacché la prassi evolutiva di questa famiglia dei ptilonorinchidi, altrimenti detti uccelli giardinieri, ha finito per attribuire soltanto alla femmina il dovere di scegliere un partner genitoriale degno di questo fondamentale nome. Il che diventerebbe all’apparenza tanto più irrilevante, quando si considera come nella maggior parte delle specie rilevanti il maschio non contribuisca in alcun modo a tirar su e nutrire i pulcini, preferendo continuare il suo tour artistico danzante per l’intera stagione primaverile ed estiva, tentando di guadagnarsi il maggior numero di conquiste amorose. Ma Cupido ed il suo arco, alla fin della fiera, hanno ben poco a che vedere coi successi conseguiti da una tale incostante meraviglia piumata. Tutto, nel suo destino, è piuttosto determinato dalla precisa scienza dei comportamenti e da una dote forse non immediatamente apparente in lui: una spiccata intelligenza. Che egli dovrà trasmettere per via genetica alla sua ridente prole.
Gli uccelli della pergola (letteralmente: Bowerbird) diffusi in tutta l’Oceania, incluse Australia, Indonesia e Papua Nuova Guinea, costituiscono in effetti alcuni degli esponenti più particolari e per certi versi avanzati dell’ordine dei Passeriformi, raggiungendo a tratti le complessità dello stile di vita dei corvi e degli uccelli della lira (Menura). Vivono inoltre molto a lungo, avendo raggiunto in almeno un caso documentato di un Ptilonorhynchus violaceus i venerandi 26 anni d’età. Il che gli consente di coltivare approfonditamente la loro incredibile arte della conquista passionale, fondata sulla più complessa combinazione di gesti, senso critico e persino architettura. La costruzione della struttura ad arco che da il nome al volatile, in effetti, non è il frutto di una capacità puramente istintuale, ma nasce piuttosto dalla pratica e dall’esperienza pregressa: nessun amatore, da princìpio, sa costruirla a regola d’arte, e originariamente deve accontentarsi di un accenno disordinato ed impreciso. Mentre le femmine, che tutto possono dirsi tranne che poco esigenti, scorgendo il risultato meno che perfetto scrollano l’ali e se ne vanno altrove. Così attraverso le cocenti delusioni, un anno dopo l’altro, gli sventurati artisti del rametto iniziano a capire cos’è che funziona, e cosa invece no. Giungendo, gradualmente, all’assoluta perfezione! Sarebbe in effetti un errore, ridurre il rituale di corteggiamento del “giardiniere” al mero intrattenimento danzante e canoro. Il suo stesso palcoscenico, tanto accuratamente messo assieme, è un concentrato di sapienza ed accorgimenti scenografici, arrivando ad essere abbellito, in determinate versioni, con pigmenti colorati che l’uccello ricava masticando delle bacche o foglie di vario tipo. Ed applicando quindi questo impasto risultante dall’incontro con la sua saliva, talvolta, mediante l’impiego di un vero e proprio pennello vegetale (generalmente un piccolo ramo) tenuto ben saldo nel suo becco. Gesto che costituisce, in effetti, uno dei pochi esempi dell’impiego di strumenti da parte di uccelli di qualsiasi tipo. Ma la bravura dell’aspirante Don Giovanni alato non finisce certamente qui…

Leggi tutto

Non fidatevi dei cervi che si inchinano tre volte a Nara

Cervi di Nara

Molti animali assumono significati differenti sulla base del luogo geografico in cui ci si trova e talvolta, non occorre neppure superare lo spazio di un intero continente, perché il concetto della sacralità finisca per imporsi su creature: il Cervus nippon o cervo maculato del Giappone, talvolta definito per antonomasia semplicemente sika (termine derivante da 鹿 – shika, la parola che vuole dire, per l’appunto, cervo) viene considerato in Hokkaido e nell’intero settentrione del suo paese d’appartenenza come una preda di caccia particolarmente pregiata e difficile da catturare, a causa della proverbiale “furbizia”, che lo porta a nascondersi invece di fuggire, evitando di lasciare tracce che possano tradire la sua presenza. Ma basta viaggiare per circa 1500 Km fino ai piedi del monte Wakakusa, ove la 43° regnante del Giappone, divina Imperatrice Genmei, fece fondare nel 710 d.C. la sua nuova capitale, per trovare un parco in cui questi artiodattili trascorrono giornate di serenità apparente, vagheggiando liberi tra la parte più storicamente rilevante dei celebrati e splendidi Sette Templi Buddhisti di Nanto, oltre ad un santuario shintoista che da sempre, in un certo senso, è come se fosse dedicato interamente a loro. Un luogo in cui naturalmente, come dettano le leggi del contemporaneo, i turisti si affollano in un fiume ininterrotto, che li porta inevitabilmente ad interagire con i cervi. Nell’unico modo che questi ultimi sono disposti a rispettare, ovvero offrendogli del cibo, o nello specifico alcuni particolari cracker di riso senbei, acquistabili a pacchi da 10 del costo unitario di 150 yen. Il che è gradevole per i quadrupedi, sicuramente, e divertente pure per gli umani, soprattutto in funzione dell’abitudine di questi animali ad inchinarsi ogniqualvolta una persona si avvicina con il pegno del suo affetto alimentare, esattamente come fanno in segno di rispetto i giapponesi, nelle circostanze sociali spesso (ma non sempre) corrispondenti al nostri stringerci la mano. Mentre la tradizione vuole, in questo caso, che i cervi in questione siano talmente “educati” da effettuare il gesto per ben tre volte prima di ricevere il boccone prelibato, principalmente in funzione della serie di mosse che il turista dovrebbe compiere prima di cedere al suo ospite cornuto: punto primo, mostrargli il cracker sopra la testa. Allora lui la punta verso il basso. Poi metterlo dietro la schiena, per ottenere il secondo convenevole richiesto dalla prassi. Quindi riportare lo snack nella posizione originaria perché lui/lei produca il terzo inchino, poco prima di ricevere la ricompensa meritata. Benché sia consigliabile, prima di procedere, dividere i senbei per lo meno a metà, onde massimizzare il numero d’inchini che si possono ottenere con una singola spesa dei fatidici 150 yen.
Fine della storia? Volendo. Ma se qualcuno avesse il desiderio di conoscere l’origine remota di una tale tradizione, e sopratutto il motivo segreto, nonché vagamente preoccupante, per cui i cervi sika effettuano l’inchino di fronte ai visitatori dei templi di Nara, credo di poter fornire alcuni dati a margine che troverete sorprendenti. Tutto ebbe inizio, secondo la leggenda, in un’epoca di molto anteriore a quella della fondazione di Nara (VIII secolo) quando le vicende mitologiche all’origine del Giappone stesso furono raccolte ed iscritte, su ordine della stessa Imperatrice, in un libro di cronache intitolato Kojiki, ovvero “Le cronache delle vicende antiche”. Ove si parlò della cosiddetta Nippogonia, ovvero la procedura magica attraverso la quale il padre degli Dei, Izanagi, assistito dalla sua consorte Izanami, infisse la lancia nell’Oceano sconfinato, dando l’origine alla terra del Sol Levante e dei samurai. Una storia certamente nota a qualunque nerd/otaku appassionato di manga che si rispetti. Mentre meno conosciuto è il fatto che un simile testo, in effetti, fosse stato scritto da Ō no Yasumaro, un burocrate dello stato appartenente, per l’appunto al clan con forti interessi mercantili degli Ō, famiglia da sempre devota ad una particolare divinità, ovvero il nume tutelare dei viaggi marittimi, associato per qualche ragione ai cervi: Takemikazuchi-no-mikoto, “colui che infonde il coraggio e la dannazione”. Ora come è noto, purtroppo la madre degli dei Izanami morì di parto, quando per un fato inevitabile si ritrovò a dover dare i natali, assieme a tutti gli altri esseri sovrannaturali di questo mondo, anche a Kagutsuchi il maledetto, nume incandescente del fuoco stesso. Venuto a sapere della terribile notizia, quindi, suo marito Izanagi fu pervaso da una furia incontenibile, ed impugnata la spada Ame-no-ohabari decapitò immediatamente il figlio indesiderato. Ma poiché la Terra non ha aveva ancora ricevuto tutti gli Dei di cui aveva bisogno, dal sangue del malcapitato, per un prodigio straordinario, nacquero  altri 16 kami (spiriti del mondo) tra cui, guarda caso, Takemikazuchi-no-mikoto. Un essere dal futuro fulgido, che avrebbe partecipato alla conquista delle Terre di Mezzo dal parte del clan regnante di Yamato, sconfiggendo la divinità locale Takeminakata in quello che sarebbe stato poi considerato il primo incontro di sumo della storia. E che avrebbe ricevuto un grande tempio a Kashima, nell’odierna prefettura di Ibaraki. Gli Dei tuttavia, come è loro prerogativa, sono grandi viaggiatori, e si dice che in un giorno imprecisato questo sovrano del cielo fosse salito in groppa al suo cervo bianco gigante, per recarsi presso la capitale meridionale di Nanto (l’odierna Nara) al fine di recare la buona notizia agli uomini rispettosi di quelle terre: proprio lì sarebbe sorto un altro santuario, il Kasuga-taisha, dedicato a lui ed a tutti i suoi divini fratelli. Quindi se ne andò, volando via. Mentre la sua mitica cavalcatura dalle corna ramificate, accoppiandosi coi cervi locali, diede l’origine ad un immortale progenie…

Leggi tutto