L’oscuro scultore dell’oceano e del mondo imperscrutabile delle backrooms

Il mondo di Internet è spesso il luogo collettivo della mente dove vaghe idee o pensieri transitori si trasformano in intere discussioni lunghe molte pagine, ininterrotte nonostante l’alta quantità di tentativi di portare il treno a deragliare tra gli spazi inesplorati di possibili divagazioni alternative. Una progressione logica, o del tutto priva di questa particolare qualità, che conduce sulla strada di un latente senso d’ottimismo valido a risolvere qualsiasi problema, chiarire ogni dubbio che tormenta le nostre prevedibili esistenze. Almeno finché non ci si è trovati, dopo un passo falso concettuale ed imprevisto, nel puro regno dell’inconscio e tutto quello che questo comporta. Terra senza nome di un pianeta alieno, spazio imponderabile dalle funzioni e regole tuttora sconosciute alla stragrande maggioranza delle persone. Ed è precisamente a questo punto che riemerge, persino nella nostra epoca di pixel, post e intelligenza artificiale, la figura senza tempo dell’artista, in grado di dar forma manifesta a tutto ciò quello che, volenti o nolenti, ci eravamo ritrovati ad immaginare. Il creativo che nel XXI secolo parrebbe essersi trasformato in un performer della serie dei suoi gesti ben collaudati, per la maniera in cui sempre più spesso viene mostrato il suo processo passo dopo passo, quasi come se lo spettatore occasionale volesse apprendere segreti della sua tecnica, o in qualche modo immedesimarsi nei gesti così mostrati. Un sentimento che pare raggiungere le sue conseguenze più emblematiche e finali in quel particolare gesto, ormai simbolico di un’ampia categoria di opere del fai-da-te, che consiste nel versare il fluido trasparente della resina epossidica, lasciando che ricopra e renda irraggiungibile il significato che ne viene incapsulato a sempiterna memoria. Un’ampia gamma di prodotti dell’industria petrolchimica, dichiaratamente rivolti alla fabbricazione di componenti per l’uso in ambienti marini, aerospaziali e di consumo. Ma che soprattutto negli ultimi anni ha saputo trasformarsi nella tipologia di strumento maggiormente funzionale al miglioramento dell’effetto finale in una particolare tipologia di sculture. Tanto efficientemente utilizzato, nella maniera che veniamo invitati ad apprezzare, nell’opera documentata di Thalasso hobbyer (たらそほびや) il giapponese diventato famoso su YouTube, e soprattutto all’estero, per la sua affascinante collezione d’insoliti e inquietanti diorami: piccole finestre virtuali su di un mondo sommerso popolato da mostruosi leviatani, polipi giganti ed altre misteriose presenze che derivano dalle creature situate negli abissi soltanto parzialmente esplorati del nostro azzurro pianeta. Con un intento dichiarato che può essere desunto dall’allusione del suo stesso nome, adattamento dei due termini in lingua greca θάλασσα (mare) e φόβος (paura) nel binomio riferito scientificamente al timore clinico nei confronti di vasti e profondi spazi acquatici. Tanto raramente diagnosticato in effettive circostanze quanto diffuso per lo meno a parole, tra la moltitudini perennemente in cerca di nuovi stilemi o percorsi critici a cui dar fondo nelle suddette elucubrazioni collettive…

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Video appassionante mostra la perizia coreana nel far progredire le ceramiche a sbalzo

In questa sequenza pubblicata sul canale d’approfondimento artistico Process K, l’artista coreano Tag Weondae, dello studio di produzione Woorimdoe, si mostra profondamente concentrato nell’apposizione di uno strato decorativo sulla superficie di un vaso dalle dimensioni alquanto significative. In quella che la didascalia di YouTube definisce come una tecnica affine al concetto di buncheong, apparentemente simile al sistema occidentale dello “sgraffito” un approccio pratico consistente nell’ottenimento di un immagine incidendola direttamente in uno strato monocromatico, in questo caso la vetrinatura stessa dell’oggetto di una simile capacità manuale. Un tratto dopo l’altro, come se fosse la cosa più facile del mondo, l’artista tratteggia le forme riconoscibili di un albero contorto dai molteplici rami, alcuni pescatori, le gru in volo e dei bambini che procedono in groppa ad un bue. Quindi, in un impulso dinamico ma attentamente calibrato, inizia a circondare i suoi disegni con tratti grossolani e nebulosi, apparentemente privi di una logica del tutto evidente. Ma l’immagine, a poco a poco, inizia ad assumere un significato maggiormente profondo…
Ogni opera creativa prodotta nel corso dei secoli tende in modo implicito alla perfezione, ma siamo assolutamente certi, in fin dei conti, che si tratti di un concetto totalmente oggettivo? Se il principio di partenza delle arti, a seconda dei secoli, varia in maniera progressiva e qualche volta imprevedibile, cosí dovrebbe essere anche nel caso dei valori perseguibili attraverso il suo sentiero verso la tangibile presenza generativa. E non è certo la raffinatezza, di suo conto, a dover costituire in modo imprescindibile un sinonimo di tale persistente aspirazione umana. O almeno ciò si evince, in modo alquanto pratico, dal prendere atto delle caratteristiche fondamentali dell’attività ceramica della penisola coreana, un ambito talmente distintivo e interessante, da aver costituito per secoli una delle principali esportazioni di questo paese. Fino ai confini dell’epoca moderna ed oltre, in modo tale da trascendere il mero concetto di una prassi dall’interesse nazionale diventando un punto di riferimento per culture altrettanto attente ai fattori tecnologici delle cose quotidiane, quali potremmo essere inclini a definire quelle del Giappone e della Cina. Ed è perciò diffuso ancora oggi, il commento storiografico basandosi sul quale nulla di più bello ed universalmente apprezzabile in quanto tale sia effettivamente rintracciabile in tale ambito del cosiddetto celadon, dal termine francese usato in qualità di sinonimo del personaggio letterario dell’Astrea, un pastore dal costume ornato di nastri di un colore verde chiaro. Lo stesso caratterizzante, in base al novero dell’esperienza dei collezionisti, il tipico vaso proveniente dal paese di Goryeo, originariamente traslitterato dal viaggiatore Marco Polo mediante l’espressione fonetica di Cauli. Una scelta di termini che ci pone, cronologicamente, nella seconda metà del XII secolo, quando tale forma d’arte fu capace di raggiungere una vetta destinata a rimanere insuperata nei secoli successivi. Con una pletora di meriti talmente lunga e significativa, da indurre lo stato centralizzato del paese all’implementazione di un sistema di meriti e regolamenti, per cui giammai un artista produttore di cheongja (청자) avrebbe potuto avere l’iniziativa d’insegnare la sua arte all’estero, o in alternativa importare termini creativi da tale misterioso ed altrettanto proibito ambiente. Il che diede inizio a quella che potremmo definire come l’arte senza tempo del buncheong…

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Come sorge magnifica, prima di crollare nella polvere, la torre dell’artista delle tessere di pino

Nella scena culmine del film, un gruppo di persone impara a conoscere se stesso e il proprio rapporto con l’arte, osservando attraverso una drammatica sequenza in time-lapse l’articolata creazione di un qualcosa d’eccezionale. Mentre il creatore opera, un singolo mattone alla volta, in base a calcoli precisi e iniziative del momento, in egual modo utili a dar forma alla propria idea. Una visione che parrebbe includere, sotto l’immaginaria volta celeste di un antico soffitto, l’erezione di una piccola ma dettagliata torre di Babilonese memoria. Ed è proprio l’indiretto paragone con il più problematico degli edifici della Bibbia, che ora emerge nei pensieri degli spettatori e a volta quelli che ne osservano le immateriali peregrinazioni filosofiche, mentre Raffaele Salvoldi (alias WoodArc) scende dalla scala usata come impalcatura temporanea e dopo aver scattato qualche foto come sua legittima prerogativa prende in mano l’unità più piccola del mondo ideale per il quale ha lungamente, intensamente faticato fino ad ottenere la struttura onirica del proprio singolare exploit di turno. Si tratta, niente colla, nessun trucco ed altrettanti inganni, di una semplice tavoletta rettangolare in legno di pino, simile ad un pezzo del domino ma in realtà facente parte del famoso kit di costruzioni olandese “Kabouter plankjes” (le Tavolette degli gnomi) nome trasformato per il marketing nell’acronimo KAPLA. Ecco, allora, quello che succede: ogni singola persona ne riceve una identica. E con un’energica esortazione, invitata a seguire l’esempio dell’autore, che lancia la propria proprio nel bel mezzo delle straordinarie architetture immaginifiche da lui create. Che un poco alla volta vengono smontate un pezzo dopo l’altro. Ed infine crollano, in maniera rovinosa, come un cumulo d’indifferenti macerie.
Creazione ed Apocalisse, intento e nichilismo, magnificenza e devastazione. Opposti che sembrano avvicinarsi, in molteplici occasioni operative, nell’esperienza di coloro che amano le Costruzioni, ovvero il tipo di divertimento che si basa e in qualche modo agevola l’innato intento creativo di chi dimostra un sufficiente grado di passione in materia. Nella maniera facilmente confermata, oggi giorno, da una frequentazione meramente occasionale dei canali social digitalizzati, entro cui figurano i molteplici utilizzatori di LEGO ed altri simili implementi, egualmente produttivi di molteplici imponenti meraviglie al giro di ogni singola settimana. Obiettivo chiaramente perseguibile, di volta in volta, soltanto tramite lo smontamento dell’opera mostrata nel servizio videografico antecedente. Eppure anche in questo, il nostro artista di Grignasco (NO) riesce ad essere originale, poiché riesce a esprimersi mediante il complicato linguaggio dell’architettura, che sembra sottintendere solidità e definizione degli ambienti incline a tendere verso tempistiche concettualmente imperiture. Finché fattori esterni, lungamente parte del progetto, non raggiungono il momento di manifestarsi…

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L’arduo viaggio di ritorno delle insegne totemiche intagliate dalle tribù canadesi

Nel 1790 il colono del Nuovo Mondo John Bartlett, sbarcando presso il villaggio di Daidans sull’isola di Landara, vide qualcosa che l’avrebbe lasciato profondamente colpito. Una serie di case dei nativi costruite in legno di fronte alla spiaggia, ciascuna della quale presentava un ingresso ricavato da un ponderoso tronco di cedro rosso, intagliato per rappresentare il volto distorto di una persona. Invitando gli abitanti ed eventuali ospiti a fare il proprio ingresso tra le fauci di simili creature o ponderose entità sovrannaturali. Perché sembrava del tutto impossibile, in quell’epoca appesantita dai pregiudizi, che “popoli selvaggi” potessero essere in grado di costruire opere ed architettoniche tanto complesse, senza aver ancora ricevuto nessun tipo di aiuto da parte dell’uomo bianco. Una situazione, d’altra parte, molto presto destinata a cambiare, all’apertura dei commerci con le Prime Nazioni o popoli indigenti dell’attuale territorio canadese, i quali avrebbero acquistato con notevole trasporto ogni attrezzo metallico per la cesellatura del legno, atto a sostituire quelli precedentemente posseduti e costituiti in pietra, osso e affilatissimi denti di castoro. Così che entro l’inizio del XIX secolo, l’antica arte della costruzione di pali totemici, eretti da queste genti con un’ampia varietà di scopi non soltanto, né primariamente di natura religiosa, fiorì più che mai in precedenza, portando alla creazione seriale di eccezionali meraviglie artistiche capaci di mostrare una vena creativa “Paragonabile a quella dei nostri Turner e Gaugin, Van Gogh, e Cézanne.” Benché il testo rilevante del 1950 dell’etnografo Marius Barbeau, intitolato per l’appunto Totem Poles, non mancasse di notare all’interno dello stesso capitolo come si trattasse di “Un’arte ormai legata ad un passato che è scomparso da tempo, mentre l’energia culturale delle antiche tribù sta scomparendo da questa e tutte le altre regioni del mondo.” Un’affermazione ironica, tutto sommato, se si considerano i fatti storici intercorsi tra i due momenti: le dure e repressive leggi, tra cui la più famosa resta quella contro i potlach (celebrazioni collettive spesso culminanti con l’erezione di un totem) del 1867, sottoscritte entusiasticamente da parte del Parlamento Canadese con la ferma intenzione di accelerare “l’integrazione” e generosa “conversione etica” delle genti native, così da farne membri produttivi e pienamente sottomessi ai crismi della cosiddetta società contemporanea. Una vera e propria aberrazione in tal senso, forse tra le malefatte peggiori commesse durante la colonizzazione dell’America settentrionale, che avrebbe portato all’eccesso surreale delle scuole aborigene residenziali, luoghi presso cui venivano introdotte e segregate dai loro cari le nuove generazioni dei cosiddetti indiani per imporgli un’educazione cristiana e l’assoluta proibizione di dare continuità alle proprie tradizioni ancestrali. Con i trascurabili effetti collaterali di subire occasionali molestie di natura pedofila e/o perire in massa a seguito d’epidemie di tifo e vaiolo importate dalla buona, vecchia Europa. Mentre di pari passo, nei terreni di caccia, cimiteri, luoghi sacri e villaggi dei loro genitori, qualcosa di altrettanto iniquo stava portando all’innegabile furto del più prezioso avere di queste genti: gli alti pali totemici ricavati da un singolo tronco di cedro nel corso degli ultimi due secoli, nell’idea dichiarata di preservare e proteggere la loro storia “inspiegabilmente” avviata all’auto-annientamento. Così che la gente nativa di quei luoghi aveva modo di vedere con i propri stessi occhi increduli la loro storia abbattuta a colpi d’ascia, e trasportata via senza troppe cerimonie lungo il corso dei fiumi fino alle imponenti città portuali dei propri aguzzini. Sotto ogni punto di vista, l’insulto finale…

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