L’apprezzabile correlazione tecnologica tra la ruota del criceto e la cattedrale

C’è della vera forza, in questo pelo dorato. Gran possanza nelle sue vibrisse, gli occhi vispi, le zampette stabili e convinte. Per un lungo tempo l’essere venuto dalla Siria, singolo animale che possa dirsi più rassomigliante a un “roditore addomesticato” ha coinvolto ed affascinato gli appassionati etologi di tutto il mondo, per la sua capacità di trasformare la prigionia in una valida opportunità. Mentre corre, corre e impegna le considerevoli energie dentro la piccola gabbietta, che nella sua mente non è piccola ma un campo vasto e ingombro di splendenti margherite, entro cui esplorare un longilineo itinerario alla ricerca metaforica dell’orizzonte. Visione fantastica ma in qualche modo realizzabile, grazie al sapiente impiego di un utile attrezzo per l’iniziativa dei suoi carcerieri: Magna Rota, la grande macina posizionata in verticale, fatta girare dal roditore occupante del suo accogliente spazio cavo. La cui ispirazione storica, in maniera alquanto inaspettata, possiamo facilmente individuare nei manoscritti e le altre opere di un tempo assai remoto, centrate attorno all’epoca del Medioevo ma risalenti anche, come acclarato dai filologi, al Mondo Antico ed in particolare l’Antica Roma. Certo, all’epoca nessuno avrebbe avuto l’occasione o il desiderio di tenere in casa un’intera famiglia di Mesocricetus auratus. Ed è per questo che a mettere in moto l’ingranaggio, a quei tempi, dovevano pensarci le persone.
Certo è che quando si sceglie di utilizzare l’aggettivo magna (latino per “[cosa] grande”) tutto è chiaramente relativo, così traslando la questione fino alle effettive proporzioni di uno o più umani, è inevitabile che la circonferenza intorno al mozzo e nesso delle situazione finisca per misurare un minimo di 3 metri e mezzo, fino a un massimo di 5 o 6. Il che valeva a dargli una funzione d’importanza tanto primaria che in effetti, potremmo giungere a considerarla l’obiettivo per cui veniva abitualmente posta in opera, in una crescente varietà di situazioni. Immaginate a tal proposito una squadra di operai e schiavi impegnata presso il territorio dell’Urbe, che su indicazione dell’Imperatore in persona avesse ricevuto il mandato di costruire l’ennesima diramazione dell’acquedotto cittadino, un’importante segno di riconoscimento del notevole ingegno civile dei nostri antenati. Struttura la quale, come ben sappiamo dagli esempi rimasti ancora in piedi, non viaggiava sotto terra come all’epoca corrente bensì sul “viadotto acquatico” di una lunga serie di archi, sostenuti all’altezza approssimativa di 10 metri. Fino alla quale, prevedibilmente, risultava necessario sollevare una grande quantità di materiali, al punto che la sola forza muscolare, di per se, non avrebbe potuto dimostrarsi altro che insufficiente. Ora se guardiamo ancora più indietro, nella lunga cronologia delle civiltà pregresse, fino alle piramidi egizie, possiamo dire che la soluzione per sfidare i cieli con le proprie costruzioni sia apparente nella forma stessa di quest’ultime, le cui pareti digradanti erano la rampa stessa, per cui uno spazio orizzontale maggiore potesse corrispondere allo sforzo comparativamente ridotto, al fine di sollevare le grandi e pesanti pietre dell’edificio. Ma poiché per i Romani, che costruivano direttamente in verticale, un tale approccio non sarebbe stato applicabile, è palese che dovesse esistere a quel punto un metodo migliore. Come allungare, quindi, lo spazio percorso più e più volte con le pietre da costruzione, riducendo conseguentemente lo sforzo necessario al sollevamento, senza per questo dover costruire l’approssimazione antropogenica di una montagna? La risposta è quella semplice, di usare una carrucola, ma non poi tanto semplice, se si considera l’implicito bisogno di ottimizzare. Così che celebre trattato De architectura  di Vitruvio (15 a.C.) allude nel suo decimo e ultimo libro ai diversi metodi per il sollevamento di carichi pesanti in uso in tutto il territorio civilizzato, tra cui possiamo individuare l’insieme di tre carrucole in un singolo sistema interconnesso, chiamato trispastios (rapporto di potenza 3 a 1) e quello ancor più efficace del pentaspostos (cinque carrucole) per cui uno sforzo pari all’entità di 50 Kg poteva corrispondere all’agevole sollevamento di un carico di 250. Ma il più impressionante degli approcci era senz’altro il polyspaston, in cui una pluralità di questi metodi venivano associati in serie, e fatti funzionare mediante l’uso di un argano o cabestano, ruota spinta innanzi dalla forza di uomini o animali, incrementando ulteriormente il vantaggio operativo degli utilizzatori. Finché in un giorno a cui è impossibile risalire, a qualcuno non venne in mente di mettere i muscoli dentro la ruota stessa…

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Le solidissime pareti di un palazzo fatto a mano in Bangladesh

Centinaia di migliaia di tonnellate in ferro, vetro e cemento, impilate con la logica ingegneristica pensata per portare a coronamento la pubblica risposta ad un bisogno: abitativo, lavorativo, produttivo o una combinazione delle tre finalità quasi indistinte, nella vasta tempesta quotidiana del rapido mondo moderno. E noi che lo guardiamo, dal livello della strada, sempre pronti ad affermare: “Magnifico. Non ci sono dubbi che un simile grattacielo cambierà il mondo.” Strano, se ci pensi: perché di edifici quasi esattamente identici, ve ne sono letteralmente milioni. E non si capisce esattamente come aggiungerne l’ennesimo, possa cambiare in alcun modo le regole del gioco. É dal 21 ottobre scorso, nel frattempo, successivamente all’inaugurazione, che la gente di Rudrapur nel nord del Bangladesh osserva un qualche cosa non potendo fare a meno di chiedersi, esattamente, quale sia la funzione. Sto parlando della lunga rampa, con inclinazione controllata, che danzando gira tutto attorno a un’edificio curvilineo di 250 metri quadri fatto di bambù e uno strano materiale color marrone, per il resto indistinguibile dal cemento usato normalmente per i luoghi architettonici d’uso comune. Il suo nome è Anandaloy (“Luogo della Grande Gioia” in lingua Bangla) come scelto dall’autrice tedesca e vincitrice con esso dell’annuale premio Obel, Anna Heringer, mentre le pareti sono fatte di un qualcosa di economico, resistente, totalmente funzionale allo scopo: terra mista ad acqua che poi sarebbe in altri termini, fango compattato a mano. Lo scopo della rampa è presto detto: permettere ai disabili in sedia a rotelle, ogni qualvolta ne sentissero il bisogno, di raggiungere agevolmente il secondo piano. Una finalità a tal punto dirompente, nella cultura indigena di questi luoghi, da aprire la strada ad un’intera nuova classe di questioni sociali, precedentemente delegate al reame indegno di essere discusso di “punizioni del karma” dovute a comportamenti impropri attraverso il ciclo delle reincarnazioni passate. Ma pensare che il dialogo del nuovo centro di riabilitazione, ed opificio autogestito a conduzione femminile nei locali del secondo piano, abbia qualcosa da insegnare soltanto ai suoi utilizzatori quotidiani, sarebbe tanto riduttivo e controproducente quanto scegliere di chiudere gli occhi di fronte alla ciclopica magnificenza del grattacielo. Poiché Anandaloy costituisce soprattutto la dimostrazione del modo in cui, oggi più che mai, l’impiego di soluzioni tradizionali ai problemi dei nostri tempi possa condurre a un tipo di risoluzione non meno efficiente, pur restando prossimi all’auspicabile, spesso ineffabile misura d’uomo. Ed ogni aspetto, in questo essenziale coronamento dei trascorsi progetti condotti dall’autrice in Bangladesh, sembrerebbe parlare il linguaggio di un quel dialogo, a partire dalla scelta di far costruire l’edificio questa volta esclusivamente a maestranze locali, tra cui l’impresa Montu Ram Shaw e persone reclutate appositamente allo scopo, alcune delle quali affette dalle stesse disabilità che oggi vengono curate tra queste notevoli mura. Fino alla dimostrazione che non c’è niente d’irraggiungibile o irrealizzabile, nell’affrontare il problema degli spazi abitativi mediante soluzioni che appaiono del tutto nuove. Soprattutto quando esse derivano, nei fatti, dalla tradizione ancestrale dei nostri popoli predecessori…

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Lo sguardo severo della statua che influenza i successi sportivi di Philadelphia

Abolizionista, politologo del concetto di Unione (al punto di teorizzare, per primo, il concetto di un Parlamento Europeo) pacificatore di accordi con le popolazioni dei Nativi Americani. Gli unici scritti destinati, tra l’altro, ad essere rispettati dall’uomo bianco! Per essere stato un soldato nella marina del Commonwealth sotto il comando del generale rivoluzionario Oliver Cromwell, contribuendo perciò in maniera indiretta alla sconfitta militare, la cattura e infine la decapitazione nel 1649 del sovrano protestante Carlo I, si trattava di una persona piuttosto placida e bonaria. Sto parlando del figlio dell’ammiraglio e politico William Penn, destinato ad ereditare il suo nome, cognome e la fortuna di una famiglia inglese dalle ascendenze nobili, pur scegliendo di condurre la propria vita secondo i precetti di una particolare visione del mondo. E letteralmente all’altro capo dello stesso! A seguito dell’acquisto dei terreni per la fondazione in America della colonia denominata, non a caso, bosco di Penn (Pennsylvania). Egli aveva esattamente 23 anni infatti quando, sei anni dopo la guerra e nel corso di una missione nei Caraibi, entrò per la seconda volta in contatto con il missionario ed amico Thomas Loe, devoto appartenente a una particolare comunità religiosa, egualmente invisa ai cattolici e i puritani protestanti. Quella degli Amici o Quaccheri, ferventi pacifisti, praticanti dell’astinenza dalle pulsioni più basse dell’animo umano incluso il conflitto armato, mediante l’accesso immediato al sacerdozio di tutti i credenti e proprio in funzione di ciò il rifiuto di ogni forma di gerarchia ecclesiastica. Potrebbe per questo sembrare piuttosto strano, oltre quattro secoli dopo quegli eventi, che gli eredi di una lunga linea di sangue che può condurci fino alle attuali luci e colori della città di Philadelphia, gli abitanti di un tale luogo possano credere in una sua ferma & fondamentale assenza di comprensione rispetto ai crismi della modernità architettonica, tale da far abbattere la furia degli antenati nei confronti di una delle massime aspirazioni, e più importanti lussi di qualsivoglia comunità statunitense.
Potremmo perciò affermare, nell’America (crudele antonomasia) dedita alle venerazioni quotidiane del canale sportivo ESPN, che al giorno d’oggi esistano quattro pilastri: il football, il baseball, il basket e l’hockey su ghiaccio. Così volgendo lo sguardo all’amena città sul corso del fiume Delaware nell’anno di nostro Signore 1987, non potremmo rivelare null’altro che le auspicate grazie della sua Divina Provvidenza, per le rispettive gesta degli Eagles, partecipanti sconfitti soltanto al XV Superbowl (1980), i Phillies vincitori delle World Series di mazza e palla del 1980 ed ’83, mentre sul fronte del pattinaggio su ghiaccio anche i Flyers potevano vantare un duplice trionfo, quello delle Stanley Cup del ’74 e ’75. Mentre sul fronte dell’NBA, i 76ers avevano vinto le finali del 1983, arrivando più volte a disputarle di nuovo nel corso di quell’epico decennio. Una scia di trionfi destinati tuttavia a interrompersi, come avrete a questo punto potuto immaginare, proprio in funzione di uno specifico momento di svolta per quella che i razionali definiscono “Preparazione sportiva e tattica delle squadre” e molti altri, invece, “Volubile natura del crudele Dio dello sport”. Benché in molti pensarono, fin da subito, che in tutto questo potesse esserci lo zampino di un uomo. O per meglio dire, quello della sua più famosa e svettante statua bronzea, posta all’altezza di 167 metri sulla vetta di uno dei primi grattacieli della Terra: la notevole torre in muratura, mattoni d’arenaria e marmo, del glorioso municipio di Philadelphia, oggi il più grande edificio governativo degli Stati Uniti.

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Tra valli cinesi, la stabilità di un condominio custodito dagli spiriti degli antenati

Tra gli alti edifici della vasta Canton, nei pressi di una trafficata strada di scorrimento, sorge una particolare forma di edificio: moderno e funzionale, il tulou (土楼) moderno ha l’evidente aspetto di un’imponente, ponderosa fortezza dedicata al popolo bisognoso di spazi rispondenti al suo bisogno abitativo. Tonda e con pareti spesse, alte a sufficienza da ospitare un totale di ben sei piani. Ed occupata, nella sua parte centrale, dall’ampio spazio di un cortile interno simile a un anfiteatro, dove si affacciano le finestre di un totale di 360 appartamenti, conformi alle caratteristiche di una vasta residenza popolare. Qualifica, quest’ultima, senz’altro necessaria a definire ulteriormente l’oggetto di una simile descrizione, visto il significato letterale del resto del suo nome principale, usato normalmente per riferirsi al concetto di una “casa di terra” costruita in specifiche circostanze territoriali. E sebbene di quest’ultimo materiale non ve ne sia alcuna traccia, nei 13.771 metri quadri della struttura progettata dallo studio Urbanus, essa è in ogni aspetto rilevante simile a qualcosa che potrebbe rientrare a titolo dimostrativo nell’elenco architettonico dell’UNESCO. Perché di tulou cinesi, potreste averne visto uno in epoca recente; all’interno del film live-action della Disney tratto dal racconto popolare della donna-guerriero Mulan, dove ne compariva un valido esempio, collocato tuttavia in maniera non eccessivamente storica in un’epoca riconducibile grosso modo alla dinastia degli Wei (534-550 d.C.) Senza contare come le scene rilevanti, in cui la protagonista veniva mostrata nel contesto abitativo del suo clan, erano state effettivamente girate presso il gruppo di 46 edifici nella regione di Fujian, situati all’opposto lato della mappa rispetto alla supposta ambientazione settentrionale del racconto. Dimostrando tutte le caratteristiche, per gli spettatori più attenti, di una dimora tradizionale dell’etnia degli Hakka (客家 – Popolo Esterno) destinati a costruirli soltanto a partire dal XII secolo e fino al confine dell’epoca contemporanea. Poiché non c’è niente, nel suo originale contesto d’appartenenza, di più efficiente e pratico di un palazzo fortificato: dove tutti ricevono gli stessi spazi, la comunità è protetta da eventuali banditi o intrusi e la vasta area centrale permette di disporre di un luogo d’incontro, utile a pianificare e coordinare le attività del clan. Inteso come “Gruppo familiare in grado di vantare un antenato in comune” quello, per l’appunto, che si riteneva avesse costruito il tulou. Tanto che a voler approfondire l’argomento, gli studiosi non sono neanche d’accordo sulla definizione di cosa, esattamente, indichi quel termine antico, data l’ampia varietà di forme, aspetti e dimensioni. Il tipico “villaggio in scatola” occupato da fino ad 800 persone poteva infatti avere una forma circolare o quadrata, un numero variabile tra i tre ed i cinque piani, sorgere in montagna o in pianura, isolato o circondato da strutture simili e reciprocamente solidale. Questo poiché secondo la tradizione, ogni esempio andava prima valutato con l’attento studio da parte di un filosofo del Feng Shui (風水) l’arte consistente nello studio degli influssi naturali ed elementali sulle scelte abitative del consorzio umano. Così che, integrando in qualche modo mistico la natura stessa del paesaggio circostante, i tulou diventarono un eccellente esempio di coabitazione tra l’uomo e il suo contesto geografico, l’impianto dei propri bisogni, le più valide speranze del suo domani…

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