Disse il filosofo Friedrich Nietzsche che non è possibile scrutare a lungo nell’abisso, senza che l’abisso sollevi lentamente le sue palpebre, approfondendo con lo sguardo le tue stesse forme interessate all’ignoto. Ciò che tutti avevano pensato normalmente, in merito a un così famoso aforisma, è che fosse un tipo di concetto per lo più figurativo, parte di una specifica visione del mondo e le primarie conseguenze di un determinato stile di vita. E non che mentre stai nuotando in condizioni di assoluta serenità, a circa 1000-1200 metri di profondità a largo dell’arcipelago di Revillagigedo, un letterale bulbo potesse spalancarsi all’improvviso, l’iride brillante di un acceso color fuchsia-con-strisce-viola. Poste a dipanarsi tutto attorno ad uno spazio simile ad un vetro coperto dall’eponimo ed essenziale vellum, come se lì al centro fosse una pupilla, invece che il sistema digerente di un’inconoscibile creatura. Bestia monocola magari, oppure, perché no: di occhi possono essercene anche due. Intenti a galleggiare con chiaro intento attraverso l’acqua, sfruttando l’utile funzione di dozzine di tentacoli, ciascuno luminoso solamente nella sua parte terminale. In modo tale da accentuare l’impressione di un qualcosa di gigantesco ed al tempo stesso privo di forma definita, l’ostile Shoggoth lovecraftiano delle oscure profondità.
E sia chiaro che col termine “nuotare” intendo comandare a distanza (avreste immaginato altrimenti?) quello che potrebbe essere il singolo youtuber robotico più produttivo e celebre di Internet, chiaramente identificabile come il ROV Hercules, fondamentale membro dell’equipaggio del vascello oceanografico EV Nautilus, già famoso per aver trovato sotto la guida del Prof. statunitense Robert Ballard, i relitti marini del transatlantico Titanic e della nave da guerra Bismarck. Prima di dedicare la sua esistenza in quest’epoca digitale alla divulgazione di una quantità spropositata di materiali, raccolti nel corso dei suoi molti vagabondaggi oceanici ed accompagnati dalle entusiastiche voci fuoricampo dei ricercatori presenti a bordo, capaci di anticipare il senso di spontanea meraviglia e stupore percepiti dal pubblico di fronte alla tastiera dei propri PC. Con la solita serie d’esclamazioni e moìne rivolte, in questo particolare caso risalente a gennaio del 2018, durante le operazioni per la raccolta di un granchio vivo e all’indirizzo di un qualcosa che potremmo definire a pieno titolo spettacolare, anche per i non particolarmente inclini ad apprezzare le più bizzarre forme di vita abissali. Niente meno che un esemplare in età riproduttiva di Halitrephes maasi, la medusa “fuoco d’artificio” descritta per la prima volta nel corso di una spedizione artica risalente al 1909, e poi osservata lungo il proseguire dello scorso secolo in molti mari ed oceani, tra cui l’Indo-Pacifico, il Pacifico Orientale e persino il Mediterraneo. Viola e almeno in apparenza dotata di un qualche tipo di bioluminescenza spontanea, sebbene la (limitata) letteratura scientifica sull’argomento parli di una creatura normalmente priva di lucòre ma in grado di riflettere potentemente la luce prodotta dal faro del sottomarino a controllo remoto propriamente detto, producendo la tonalità e il disegno ad asterisco che caratterizza questa memorabile scenografia sottomarina, per di più capace d’interrompersi lungo l’estensione mediana dei tentacoli, accentuando l’impressione che una serie di scintille seguano in modo magnetico l’esplosione centrale. Laddove “medusa” è a dire il vero un termine ad ombrello (!) che include un’elevata quantità di appartenenti al phylum Cnidaria, necessitando d’ulteriore indicazione come appartenente alla classe degli idrozoi, ovvero creature capaci di formare colonie sessili monoclonali, fino all’emanazione di un certo numero d’entità tentacolari e totalmente indipendenti. Veri e propri fiori volanti, capaci di trovarsi e fecondarsi a vicenda, al fine di poter dare inizio nuovamente al ciclo che preserva la loro esistenza continuativa nel tempo…
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La rara “pietra danzante” che si piega come fosse una piadina romagnola
In molti ricorderanno attraverso il corso delle proprie esperienze cinematografiche degli anni ’80 il personaggio del Mordiroccia, descritto dallo scrittore originale del romanzo Michael Ende come un gigante dalla pelle coriacea, capace di trarre sostentamento tramite il consumo di materia non organica, frantumata entusiasticamente tra i suoi denti simili a possenti mole. Ultimo della sua specie (come potrebbe essere altrimenti) l’essere descrive quindi all’eroe protagonista della narrazione il gusto posseduto dai diversi minerali: la spontanea dolcezza dello zinco, il sapore salato del rame, l’intenso umami posseduto dal ferro. E le consistenze tanto varie e sconosciute agli uomini, numerose quanto quelle di pietanze distribuite sulle nostre tavole dell’ora di cena. Ma se quel titano gentile, ci viene dato ad intendere, avesse mai voluto masticare, masticare qualche cosa per un tempo superiore al singolo minuto, si sarebbe ritrovato a fare i conti con un grave ostacolo procedurale: l’effettiva mancanza, a beneficio delle proprie proporzioni e preferenze alimentari, di un qualcosa che potesse fungere in maniera simile ad un chewing gum. Un gran peccato, per il regno di Fantàsia, quando si considera come la nostra prevedibile e familiare Terra ospiti tra i suoi depositi geologici qualcosa in grado di servire esattamente a tale scopo. Una cosa che parrebbe sfuggire alla definizione stesso del concetto espresso da tale parola, eppure per sua formazione, provenienza e composizione, giammai potrebbe essere null’altro di apprezzabile dall’esperienza sensibile di chi usa gli strumenti della ragione. “A-arenaria?” Pare quasi di sentire il rombo che riecheggia in mezzo alla palude, mentre mette in bocca il singolare dono proveniente dall’altro lato del portale: “Quanto dura il suo sapore, oh, quanto dura!”
Più che dura ed abbastanza, potremmo affermare con particolare presenza di spirito e d’intenti. Poiché qui di effettivamente durevole, c’è soltanto quello; mentre il pegno mineralogico del nostro affetto, con tanta magniloquenza offerta all’imponente ospite della serata, oscilla a trema, si piega e non mantiene la sua forma. Ovvero tutto quello che ti aspetteresti da un qualcosa di derivazione vivente, ovvero scheletro o residuo di esseri già fagocitati dal furioso Nulla delle circostanze. Niente di più sbagliato… Di questo! Griderebbe al nostro indirizzo il Marchese di Lavradio, vicerè di Rio de Janeiro, che per primo nel 1780 scoprì e descrisse le notevoli caratteristiche di un tale materiale ritrovato presso il monte Itacolumi, nella porzione meridionale della regione sudamericana di Minas Gerais. Mancando di assegnarli un nome ma annotando la presenza di una certa quantità di talco, clorite e mica, all’interno di un corpo mineralogico a base di arenaria fissile trovata nel sostrato coloniale. E soprattutto la capacità niente meno che sorprendente, da parte di un simile soggetto sperimentale, di piegarsi per l’effetto di una sollecitazione ragionevole, o persino sotto il suo stesso peso, una volta tagliata in strisce abbastanza sottili. Una dote per di più isotropica, ovvero indipendente da una singola direzione della grana, bensì in grado di verificarsi lungo l’estendersi dell’oggetto in qualsivoglia senso, proprio come si trattasse di un foglio di carta o tappetino per il bagno ammorbidito dall’acqua furiouscita da una vasca eccessivamente piena. Pur mancando dei moderni metodi d’analisi petrologica, e mancando di assegnargli un nome più specifico di quello di “arenaria flessibile” il Marchese avrebbe quindi trovato una conferma delle sue ricerche nei rapporti di Mr R.D. Oldham, direttore dell’Istituto Geologico dell’India, capace di trovare un tipo di pietra molto simile presso le pendici del monte Kaliana, vicino Dadri a Jhind. Con la sola significativa differenza di una grande quantità osservabile di quarzite nella sua composizione, tuttavia capace di accrescere, piuttosto che diminuire, le sue implicite capacità di flessione. Un effettivo appellativo utilizzabile per il concetto di tale misteriosa materia sarebbe quindi giunto dal mondo accademico europeo, alla consegna dei campioni in sede al geologo Von Eschwege, che scelse di chiamarla semplicemente itacolumite, dal suo luogo di provenienza originale in Brasile. Fu questo l’inizio, di un lungo periodo d’approfondimento ed introspezione…
Consigli dall’esperto: mai pensato di adottare un vero nido di vespe?
Difficile negare come nella maggior parte delle circostanze, Internet possa rappresentare l’effettiva via d’accesso ad una serie di conoscenze che potrebbero risultare spaventose, inutili, sconcertanti o semplicemente… Innaturali. Ogni potenziale via d’accesso sperimentale alla sapienza, tuttavia, tende a dimostrare nella maggior parte delle circostanze la propria validità nel tempo; e guadagnarsi, presto o tardi, il merito opportuno al fine di essere tramandata. Jesse_Etk, alias Robybar, alias Wasp Journals è il giovane entomologo di Catanzaro che racconta, con orgoglio e dovizia dei particolari, gli entusiasmanti risultati ottenuti mediante l’utilizzo continuativo nel tempo di un particolare Metodo acquisito da parecchi anni, mediante discussione su di un forum Web coi sui colleghi e amici americani. La stessa nazionalità del gruppo di utenti su Reddit (forse il vero erede Social degli antichi siti di confronto e discussione) che l’altro ieri chiedevano come mai le vespe fossero solite radunarsi nei mesi autunnali attorno alle antenne per le telecomunicazioni ed altre alte strutture costruite dall’uomo: “Oh, io posso aiutarvi: sapete, tengo le vespe. [Segue breve spiegazione dell’impiego da parte dell’imenottero striato di simili punti di riferimento al fine di trovare partner riproduttivi.].” Una di quelle affermazioni del tipo che, nella maggior parte delle circostanze, difficilmente potrebbe passare inosservate, soprattutto negli ambienti digitalizzati d’Oltreoceano, dove il concetto stesso di questo particolare insetto suscita immediate immagini memetiche di spietati persecutori della razza umana, pericolosi approssimativamente quanto il leggendario morso del koala trasformatasi in drop bear mannaro. Questo perché l’associazione inflazionata statunitense della vespa è con il gruppo informale di specie definite collettivamente yellowjacket, inclusive di una vasta varietà di appartenenti ai generi Vespula e Dolichovespula dal tipico comportamento invadente ed aggressivo, del tutto paragonabile alle nostrane V. germanica che fanno il nido sottoterra, responsabili della più alta percentuale di punture che subiamo nei contesti europei. “Tutt’altra storia” spiega Jesse con il consueto linguaggio accattivante e l’ottimo inglese “Rispetto alle amichevoli vespe del genere Polistes, più comunemente detto delle vespe cartonaie”.
Ape. Il problema resta quello, ovviamente: perché paragonato all’essenziale insetto sostenitore di una significativa parte dell’impollinamento terrestre, nonché produttore di uno degli alimenti più apprezzati sulle nostre tavole, ogni altro insetto eusociale appare indesiderabile o superfluo, quando non addirittura dannoso in forza del suo acuminato e sempre pronto pungiglione, più che abile nell’impresa di riuscire a perforare da parte a parte la pelle umana. Laddove la cognizione generica di “vespa” può tranquillamente essere avvicinata ad una pluralità di funzioni utili, prima tra tutte la predazione di una significativa quantità d’insetti, e il conseguente mantenimento dell’equilibrio nei delicati ecosistemi della Terra. Cui si aggiunge la mansione d’impollinatrici primarie per piante come l’euforbia, l’edera e svariate tipologie d’ombrellifere, normalmente disdegnate dalle più apprezzate primedonne mellifere dei cartoon a tema animale. E ciò senza considerare la primaria ragione, tra tutte, per cui potrebbe risultare opportuno mettersi ad allevar le vespe: il loro essere così dannatamente, diabolicamente, straordinariamente Interessanti…
L’elusiva leggenda gastronomica del quasi-sciroppo d’acero giapponese
Nel Giappone dell’epoca pre-moderna, non sempre per essere rispettati bastava possedere la qualifica di samurai. Uno dei più famosi tradimenti della storia, quello commesso dal generale di Oda Nobunaga, Akechi Mitsuhide e che avrebbe cambiato sostanzialmente il corso della storia, fu motivato secondo alcuni storiografi ed almeno un autore di romanzi (Eiji Yoshikawa) proprio dai ripetuti maltrattamenti in situazioni pubbliche subìti dal militare ad opera del suo signore. Poiché al potere assoluto non sempre sia accompagnava un profondo senso d’empatia, sebbene raramente la posta in gioco arrivasse ad essere tanto elevata. Un altro famoso esempio letterario di questo problema può essere tratto dal racconto breve degli anni ’20 del Novecento dalle profonde implicazioni psicoanalitiche di Ryūnosuke Akutagawa, intitolato imogayu (芋粥 – un termine spesso tradotto con “puré di patate”) in cui il protagonista Goi, assolutamente ghiotto di tale pietanza, è un portatore di spada delle tipiche corti dei signori della guerra medievali, tuttavia spesso deriso a causa dei suoi modi timidi, la povertà materiale, i lineamenti poco avvenenti ed il grosso naso perennemente arrossato. La cui quotidiana sofferenza ad opera dei suoi pari avrebbe portato, un giorno, alla ricompensa karmica di essere invitato dal ricco Ministro delle Finanze Toshihito presso la sua residenza privata, dove a suo dire “Avrebbe potuto mangiare imogayu fino alla fine dei suoi giorni. Promessa destinata ad essere assolutamente sincera, come l’eroe avrebbe scoperto conoscendo la moglie del suo nuovo amico, nient’altro che una volpe magica trasformata in forma umana, capace di tornare giù dalle montagne con quantità letteralmente spropositate di patate dolci igname anche dette yam (ヤム) perfette per la preparazione del piatto tanto amato. Ma che cos’era, esattamente, l’imogayu e perché una persona di bassa levatura economica avrebbe dovuto restare colpita dal suo sapore? Dopo tutto, non ci vogliono grandi mezzi a coltivare o procacciarsi tale classe di tuberi, anche potendo contare solamente sul terreno di una piccola fattoria. La vera ragione della stravaganza associato a una pietanza simile, d’altra parte, va rintracciata nelle sue specifiche modalità di condimento, particolarmente quella finalizzata a valorizzare al massimo la sua inerente dolcezza, sapore che potremmo considerare diametralmente all’opposto rispetto all’umami (旨み – gusto di glutammato) cardine fondamentale della cucina giapponese. Ora non tutti sono pienamente coscienti di quanto straordinariamente complessa possa risultare, in una società pre-industriale, la raffinazione chimica dello zucchero, senza considerare la difficile reperibilità delle piante necessarie disponibile al di fuori di alcuni ambienti geografici chiaramente definiti. Così benché scoperta per la prima volta in India ben 2.500 anni fa, tale sostanza avrebbe impiegato fino al XIII secolo d.C. a giungere fino in Europa ed una tempistica potenzialmente ancor più lunga verso il remoto arcipelago più ad Est di tutta l’Asia. Così tutto ciò che i giapponesi possedevano per allietare in tal senso le proprie papille gustative prima del contatto con l’Occidente, in aggiunta ovviamente al miele, era un misterioso dolcificante, chiamato dalle fonti contemporanee amazura (甘葛 – letteralmente: “edera dolce”). Il che purtroppo ci dice ben poco sulla sua effettiva preparazione, vista l’assenza di una singola pianta identificata localmente con tale appellativo. Senza neppure entrare nel merito di quale fosse l’effettiva ricetta utilizzata per la preparazione di questo fluido semi-denso dal gusto prossimo al divino, soprattutto quando confrontato con la ben più diffusa, salatissima e saporita shoyu (醤油) o salsa di soia. Non c’è quindi alcunché da sorprendersi se l’effettiva preparazione dell’amazura è rimasta, attraverso i secoli, una dei misteri maggiormente agognati dai molti gastronomi sperimentali di quel paese di buongustai.
Almeno fino alla recenti e reiterate ricerche in materia operate, tra gli altri, dal professore dell’Università Ritsumeikan di Kyoto, Yukihiro Komatsu, che a partire dall’inizio dell’anno e perseguendo la moderna strada del crowd funding digitalizzato si è procurato gli strumenti finanziari per perseguire un nuovo e complesso progetto, consistente nella declinazione di oltre 20 varietà di piante attraverso una serie di diversi processi culinari, nell’auspicabile speranza di riuscire a ritrovare il “gusto perduto” di un così dolce, ed almeno in apparenza irrisolvibile mistero…