Fucili per tamburi di un’acuta melodia

Auld Lang Syne

Canta una canzone, gringo, oppure balla mentre svuoto il mio caricatore. Il sole allo zenith già denuncia la crudele situazione: siamo giunti all’ora e quel momento di riscossa, per cui sei proiettili fanno la differenza. Costruiscono barriere invalicabili, tra la vita e con la morte, col silenzio infranto da quel suono, BANG! La vendetta si è compiuta, BANG! BANG! My Baby, did he Shot Me…Up? Elation, dramatic jubilation, excitement and exhilaration. Quando sei molto bravo nel fare una cosa, la infondi inconsapevolmente di un’aura di beltà. Puoi connotarla di un valore aggiunto trascendente quanto effimero, suprema cognizione della mira che riesce nel colpire l’immateria. Così è la musica, se sai suonare. Come il flusso dei proiettili già esplosi. L’esecuzione in sequenza di una serie di precisi movimenti, ormai canonizzati e scritti sulla carta da un compositore, spesso d’altri tempi, ancora massimamente teso nel trasmettere un messaggio. Il che non è facile, senza usare le parole. Direi quasi, impossibile. Quante marce di battaglia, inni e liriche di una nazione, hanno condotto fino al fronte giovani soldati. Per accompagnare, con il rombo dei cannoni, l’arte alta musicata dall’attendente a un generale. Soltanto lui, convinto. Che chi da l’ordine, non debba premere il grilletto ed ascoltare!
Ma lo sai cosa ti dico, bandido, se un uomo con la pistola incontra un suonatore col fucile, l’uomo con la pistola è un uomo concentrato, intrappolato e avviluppato, nella percezione di un discorso fatto da lontano. E portato avanti con perizia ineccepibile, vedi il qui presente Patrick E. Kelley, tiratore sportivo statunitense e trick shooter di larga fama, che emette qualche colpo “a caso” contro un metallofono da lui appositamente costruito, una precisa fila, in pratica, di lamelle in ferro di variabile grandezza. Nonché tonalità. La qual cosa vuole dire che tu, sparando, puoi personalmente far le gesta di un addetto percussore, nell’orchestra di uno show del tutto sorprendente. Breve, memorabile, d’impatti che risuonano nell’aere. Eccolo, inizia che ha già quasi finito (chi ha l’arme, non aspetti tempo). In poche note ben mirate, tutte attentamente calibrate, ci dimostra quanto sia facile, far risuonare il cosiddetto Canto dell’Addio, o Valzer delle Candele, il vecchio brano musicale che gli anglofoni chiamano Auld Lang Syne, ovvero, nell’idioma scozzese: i bei tempi andati. Una sequenza subito riconoscibile nell’era post-moderna, soprattutto per la sua intramontabile associazione con il capodanno, oltre all’uso che ne fanno gli appartenenti all’organizzazione dei boy scout. Mai si è chiuso un vero jamboree, l’ordinato raduno della tradizione di quest’ultimi graziosi soldatini, senza che risuonasse la cadenza malinconica di questa nenia dispiaciuta. Eppure allegra, gioiosa! Perché la fine di qualcosa, da che un flauto ha emesso il primo fischio scoordinato, corrisponde col principio. Di una cosa, sorprendente? Certamente, buona. Oh, speriamo. Di Rivoluzioni, ne abbiamo già viste abbastanza…
La Scozia e gli Stati Uniti, fin dalla nascita di questi ultimi, si son guardati attraverso lo sconfinato Oceano con una particolare solidarietà. Forse per l’effetto dell’odio comune, ormai sepolto assieme all’ascia Tomahawk di tali usanze, verso l’imperialismo inarrestabile d’Albione, l’Inghilterra crudelmente espansionista. Che fu nemica prorompente di quei primi, come lo scalino coloniale sorpassato da quegli altri, nella marcia verso la modernità. Oppure, più semplicemente e assai probabilmente, per l’alto tasso di trasferimenti famigliari, dalla Vecchia al Nuovo Continente, verificatosi in massima parte nel diciottesimo secolo, verso il sogno e il bisogno di cambiare l’aria appesantita dalle vecchie usanze. Attualmente, in Scozia vivono circa 5 milioni di persone: non è un paese così popoloso, in termini assoluti. Ma figuratevi che al censo del 2000, 4,8 milioni di americani potevano dimostrarsi discendenti di quella remota terra d’oltremare! Quasi altrettanti. Non c’è dunque da meravigliarsi nel sentire tanto spesso quelle particolari note antiche, che furono scritte dal poeta nazionale Robert Burns (1759-1796) sull’onda del suo entusiasmo per le idee nate nella Francia della Prima Repubblica. Piuttosto comprensibile, furono in molti a crederci. Quando pareva, finalmente, che i popoli si fossero svegliati. E che la loro voce fosse scritta nelle note musicali di certe composizioni, già Romantiche d’intenti…

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Droni che sorvolano le terre di Faroe

Faroe Drone 1

Parlano, le genti. Come del resto l’hanno sempre fatto, di una terra mistica e incontaminata, ben oltre i flutti atlantici ed i flussi delle nebbie antiche. Leggendaria come Avalon, con una significativa differenza: questa, invece, fu trovata. Dagli uomini dell’Anno Domini 825, pressappoco, sotto la guida di un vichingo ruvido e selvaggio, lunga barba al vento, corna sopra l’elmo, spada ben puntata verso l’orizzonte, a far le veci di una bussola futura: Naddoddr, era il suo nome. Lui non conosceva aghi. Ma ne scoprì di molte, sia vicine che lontane: fu costui, secondo la leggenda, a partire un giorno dall’odierna Norvegia, per sbarcare, molte settimane dopo, presso una baia in mezzo al nulla, che oggi prende il nome di Reyðarfjörður. Cenere sotto i suoi piedi, emanazioni di distanti fumarole, roccia vulcanica perduta al tempo. Tanto che avrebbe potuto battezzare un tale luogo, facilmente, la terra dei fuochi senza fine. Ma una nevicata all’ultimo momento, quando già le prue delle sue navi si voltavano di nuovo verso levante, gli fece cambiare idea: quella sarebbe stata, dopo tutto, Snæland, la terra della neve, oppure Ísland, landa dei ghiacci. Da cui diciamo, infine, Islanda. Troppo fredda e cruda, allora, addirittura per i gusti di quell’uomo. Simili marine scorribande, è facile da immaginare, ben si abbinavano con l’entusiasmo della gioventù. Un eroe dei popoli del sale e del ferro insanguinato, formati da una differente civilizzazione, doveva essere forte, coraggioso. Privo di scrupoli e rimpianti, quando si lasciava indietro una scoperta. Finché un giorno, sopraggiunta la saggezza, decidesse di fermarsi e costruire. Dove di preciso, non si sa.
Il più delle volte. Perché Naddoddr invece, col suo seguito di avventurieri, fece qualcosa di mai visto prima, meritevole di lunga e intramontabile memoria: invece di tornare fino in patria, fra gli insediamenti delle coste norvegesi del tirannico re Harald I, navigò soltanto a metà strada. Proprio lì, lui trovò la nuova terra dei suoi discendenti, presso un gruppo di isole ben note nei racconti degli scaldi, protese come dita oltre il sensibile, 320 Km a nord del corpo longilineo e frastagliato di Britannia: Fær Øer, la Terra Lontana, o secondo altri linguisti invece, la Terra delle Pecore, semplicemente. Perché ce n’eran molte, abbastanza per addormentarsi. Perfettamente conduttive a un sogno tecnologico dei nostri giorni.
Immagina: librarsi sopra il verde di quei prati senza fine, punteggiati dalle rocce emerse di profonde vene sotterranee. Oltre i muri, sopra i tetti, dove stagni e laghi si susseguono sul territorio digradante verso il mare, dove faraglioni a strapiombo risuonano del vento e della voce del sensibile. Antiche rovine che parlano dei tempi antichi: forti e chiese, monasteri. Come quello di cui narrava San Brendano di Clonfert, che giunto fin qui tra il quarto e quinto secolo per osservar gli uccelli, fu stupito di trovare, già perfettamente a loro agio, un gruppo di monaci eremiti provenienti dall’Irlanda. Del tutto ignari dei vichinghi ancora da venire, poveri loro. Che mai avrebbero meditato su queste diverse ali futuribili, che piuttosto che battere, ruotano vorticosamente. Ronzando, fastidiose ma parecchio utili, in mezzo a tanto significativo e coinvolgente nulla.

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Affittansi conigli col caffè

Bunny Cafe

Dal punto di vista grammaticale, geisha – 芸者 non è un termine plurale o singolare, maschile o femminile e neppure, nella sua accezione post-moderna, bipede o quadrupede, con il trucco oppure con le orecchie, lunghe, morbide e setose, di un piccolo coniglio da nutrire e accarezzare, dentro a un locale di ristoro del quartiere Asakusa, nord-est di Tokyo, presso il fiume di Sumida. Dove sorge o per meglio dire occupa l’intero sesto piano di uno stabile, l’Usagi-san Theme Park, filiale della catena nazionale “With Bunny” Cafè, gestita, a quanto pare, da un gruppo di sinceri amanti dei conigli, con tutti i loro figli, nonché del guadagno, indubbio e dimostrabile, che ti può portare quella soffice, carezzevole e bonaria ingenuità.
La cultura giapponese, non a caso, supporta da secoli una particolare branca dell’intrattenimento, che consiste nel pagare per passare il tempo con una qualche personalità aggraziata, preferibilmente umana e praticante delle arti nobili, per godere della sua preziosa compagnia. E non c’è nulla di segretamente sessuale, nell’incontro con queste persone lungamente addestrate, tradizionalmente, né comparabili secondi fini. Figuratevi anzi, che nel 1770 a Yoshiwara, secondo il testo della scrittrice Lesley Downer, Geisha: The Secret History of a Vanishing World c’erano 16 geisha donne e 31 uomini. Cinque anni dopo, si era passati a 33 donne ma gli uomini erano ancora 31, un numero ben presto destinato a raddoppiare. E non si trattava certamente di una strana usanza, o di pari opportunità decadute dalle origini di questo campo artistico, visto che ancora nel 1800, ormai alle soglie dell’occidentalizzazione, il geisha uomo era ancora assai diffuso, e ricercato per la sua abilità nel canto, nella danza e nel servire il tè secondo le complesse regole cerimoniali del cha no yu. Poi, gradualmente, la metà femminile della professione prese il sopravvento su quell’altra, i cui esponenti presero a farsi chiamare collettivamente taikomochi, i “maestri delle cerimonie”. Finché non giunsero i conigli, a fargli concorrenza…
Ci sono molti preconcetti errati, nella concezione internazionale del/della geisha, un retaggio probabile di quella stanca epoca sulla prima metà del secolo scorso, quando la visione nipponica del mondo era un sinonimo di guerra senza quartiere, mentre i soldati in uniforme giapponese sul fronte del Pacifico, come è tristemente noto, si abbandonavano a barbarici comportamenti, enfatizzati dalla contrapposta propaganda (e non furono, del resto, gli unici, né i soli in quel teatro di battaglia). Da allora e per lungo tempo fu inconcepibile, per la nostra mentalità occidentale, immaginare una relazione di estrema purezza d’intenti ed eleganza, dalle splendide connotazioni estetiche e rituali, com’era invece stata quella della geisha e il samurai. Che a conti fatti, mai s’incontrarono all’epoca remota dell’unificazione del paese, quando i signori della guerra in armatura, con lancia ed elmo decorato, come narrato nei romanzi storici, combatterono ferocemente per il predominio militare dei diversi clan. Molte delle usanze che erroneamente si attribuiscono all’era Sengoku (1467 – c. 1603) in effetti, come anche il teatro del kabuki e la stessa cerimonia del tè, furono piuttosto il frutto dei due secoli di pace successivi, sotto l’egida dei forti shōgun Tokugawa, grandi patroni delle arti, sia marziali che d’altro tipo. Finché non venne Restaurata, sotto il suono dei fucili, l’antica visione nazionalista con l’Imperatore divino, al centro dell’intero universo dominabile dall’uomo!

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Questa volta è un firmamento di mattoni

Volta Catalana

Guardate palesarsi, dall’assoluto nulla pre-esistente, la struttura perfettamente geometrica di una tradizionale cupola abitativa messicana. Senza particolari impalcature, né soluzioni tecniche meccanizzate, l’operaio esperto dispone, l’uno dopo l’altro, i suoi mattoni a parallelepipedo. E non c’è nessun segreto, tranne l’uso di una calce a presa rapida particolarmente ben mescolata, in grado di sostenere tali oggetti dopo un paio di minuti dall’apposizione, e forse, dico forse, un certo grado di stregoneria. Che poi sarebbe la stessa cosa di anni ed anni di preciso lavorìo, meno la bacchetta magica, ed attento apprendistato, finché ad un certo punto, d’improvviso, si raggiunge uno stato superiore di coscienza. Chiamatelo pure, se volete, lo Zen del muratore? La perfetta via dell’adobo, quel mattone cotto da cui prende il nome la più celebre suite dei grafici, principali artisti del moderno…Quando qui, è davvero chiaro, di moderno resta poco. Tranne il desiderio, sempre forte e indubbiamente attuale, di far le cose bene, ovverosia, una volta solamente.
Questa particolare tecnica architettonica, definita in gergo volta catalana, trovò vasta applicazione in tutta la penisola Iberica del tardo Rinascimento, come ciliegina posta sulla cima delle ricche chiese e case nobiliari, sul modello fiorentino che il Brunelleschi seppe riproporre al mondo. Ma che veniva da millenni, oltre che chilometri di traslazione. L’elemento della cupola modulare, ovvero fatta di elementi ripetuti, è un simbolo potente della storia. Pensateci: tutti quei singoli agglomerati di materia, messi lì dall’uomo e che ci restano, per il suo imprescindibile volere; esattamente come le stelle dell’alto firmamento, per la volontà divina! E nei tempi precedenti all’invenzione del telescopio, del resto, non c’era certo questa concezione dello spazio siderale, vasto e variegato, con milioni di astri su di un piano tridimensionale. Ma la percezione, assunta per purissima evidenza, del concetto d’atmosfera: si, che il cielo fosse in qualche modo curvo. E che attraverso esso, per una misteriosa volontà, fossero stati praticati numerosi buchi, luminosi del baluginio del…Cosa c’è, al di là di tale cupola dell’universo? Ah, è una lunga storia. Che prende giunge intatta fino a noi, assai probabilmente, fin dal tempio di Adriano, Imperatore (regno: 117-138) colui che fece riparare la basilica di Marco Vipsanio Agrippa, già distrutta da un incendio. Un Pantheon dedicato a Giove e tutti gli altri, quella famiglia vagamente scapestrata. La cui abitazione era tutt’altro che simile alle altre a quanto dicono, tanto per cominciare, perché rotonda, invece che a navate. E poi per i cinque ordini di 28 cassettoni, posti a calotta con simmetria centrale, dalla pianta tonda e la parabola incipiente. Sotto questi, le divinità ritratte in statue. Sopra di essi, l’altro cielo, quello vero e sconfinato. Non per niente un buco sulla cima tende ad esso, l’Infinito. A sua volta costruito, nella mente di chi metteva assieme cattedrali, da un diverso tipo di onnipotente, come era l’Imperatore, per chi sposta i materiali inerti. Fino all’Oriente di Costantinopoli, giunse una simile visione costruttiva e poi da lì in Arabia, in India e fino in Cina, dove la cupola non è particolarmente diffusa, ma pur presente. Finché un giorno, guarda! Michelangelo ha fatto per Roma dei disegni, fra i molti altri, e l’architetto Giacomo della Porta, per volontà papale, ne ha tratto il suo capolavoro. San Pietro ha ricevuto il Simbolo, e noi con esso, affascinati.
Venne poi il Barocco, col tripudio di spirali e meraviglie, le alte mura decorate, i gran dipinti su di esse. Quando tutto era grandioso e straordinario, perché infuso del sentire mistico di un volto sacro e indefinibile, ma indubbiamente molto bello. E le volte si fecero maestose, giganteggianti. Son di quest’epoca le gran basiliche e stupende cattedrali, disseminate per la vasta Europa. Fino in Inghilterra, con la svettante St. Paul di Christopher Wren, già un razionalista del pensiero, quasi un costruttore tecnologico ante-litteram, questo elemento architettonico fu condotto alle sue estreme conseguenze. Impegnativo, complesso. Ingegneristicamente, quasi inaccessibile. Quando era tutt’altro, da principio. Chi non ci credessi guardi, per comparazione, ancora due minuti almeno… L’operaio messicano sa la verità…

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