Quando si osserva la serie di fattori che avrebbero permesso, tra il XII e il XVI secolo, alla civiltà degli Incas di emergere come principale dominatrice della sua area geografica nell’Età Precolombiana, giungendo a stabilire un predominio pari o superiore a quello di un antico impero di matrice indoeuropea, è semplice individuare l’importanza di poter portare sostentamento, e prosperità, mediante l’applicazione di una serie di sistemi e metodologie agricole particolarmente distintive. Distribuiti attraverso un paesaggio molto vario e non particolarmente accogliente o fertile, al punto da costituire secondo la definizione dell’antropologo John Victor Murra un “arcipelago verticale” essi riuscirono a creare un metodo di organizzazione del lavoro in cui l’economia del baratto, comunque presente, era subordinata alla concessione e conduzione di corvèe, nei confronti degli ayllu o clan familiari e sempre in base alla fondamentale regola della reciprocità. Questo perché una costante, più di qualsiasi altra, accomunava i diversi recessi comunitari delle diverse istituzioni amministrative: la necessità di lavorare molto duramente, trasformando in modo significativo la natura, affinché potesse anche soltanto iniziare a piegarsi alle necessità della gente. Immaginate dunque un mondo in cui non esistevano bovini, né cavalli o altri animali capaci di assolvere a mansioni pesanti. Né d’altra parte, i remoti recessi montani ove trovava collocazione il terreno fertile sarebbero stati raggiungibili da altri che i singoli esseri umani. Come avreste proceduto voi, verso l’obiettivo di smuovere la terra compattata da solide radici erbose, al fine di prepararla per piantare gli imprescindibili semi di patata, quinoa, pomodori, peperoni e mais? La risposta a questa specifica domanda, lungo le catene montuose che seguivano la costa pacifica del Sudamerica, avrebbe dunque assunto la forma di un riconoscibile strumento, che forse ai conquistadores provenienti dall’Europa avrebbe potuto apparire con l’aspetto di un’alabarda o altro tipo di rudimentale arma inastata, finché non avessero notato la maniera in cui veniva sfruttato nel contesto per il quale aveva ricevuto un millenario perfezionamento. Un passo indietro, un colpo obliquo, il piede posto a premere sopra l’apposito punto d’appoggio, mentre la testa dell’attrezzo in pietra o d’osso penetrava in modo significativo nella dura terra. Un passo indietro, un colpo obliquo… Sempre uomini e di un’età sufficientemente giovane, perché la forza fisica richiesta era senz’altro significativa, mentre le loro mogli, sorelle o figlie si occupavano di seguirli spostando a lato la terra smossa, preoccupandosi allo stesso tempo di gettar nel solco le sementi ricavate dal raccolto precedente. Un’opera non meno spossante, sia ben chiaro, soprattutto alle altitudini e con l’ossigeno rarefatto dei più elevati campi coltivabili, dove è stato rilevato che nessun altra mansione fosse altrettanto dispendiosa, in termini energetici, che la preparazione di un singolo andén (plurale andénes) o terrazzamento agricolo intagliato direttamente nel fianco scosceso della montagna.
La prima rappresentazione grafica che abbiamo della cosiddetta chaquitaclla o tirapie risale dunque all’opera del nobile quechua Felipe Guaman Poma de Ayala, famoso per essere stato l’interprete e assistente del frate Cristóbal de Albornoz durante la sua complessa campagna religiosa condotta tra il 1560-70, nel tentativo di eradicare la setta del Taki Unquy, un gruppo di indios convinti che gli spiriti wak’as delle Ande, inquieti per la progressiva diffusione del cristianesimo, avessero iniziato a perseguitare le persone, costringendole ad effettuare una sorta di danza selvaggia simile alla possessione del demonio. Nella sua famosa opera Nueva corónica y buen gobierno, ricca d’illustrazioni estremamente dettagliate nonostante fosse privo di una formale preparazione artistica, compaiono alcuni lavoranti intenti ad impugnare una versione perfettamente riconoscibile di tale attrezzo, in ogni aspetto tranne lo strano manico dalla forma spiraleggiante, forse concepito al fine di favorirne l’impugnatura in ogni fase del duro lavoro. Ma che per il resto, non sarebbe apparso in alcun modo differente dalla versione destinata ad essere impiegata per i molti secoli a venire e che in talune circostanze o contesti geografici, viene utilizzato tutt’ora…
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Il pericoloso trattore che avrebbe dovuto impedire l’invasione della Nuova Zelanda
E se qualcuno avesse bisogno di trovare una conferma che “Non mi pare nessuno di voi abbia saputo fare di meglio” costituisce una delle peggiori premesse per giustificare una particolare linea di comportamento, potrebbe risultare assai difficile trovare un periodo maggiormente rappresentativo del secondo conflitto mondiale, quando un serpeggiante senso di condanna pesava sulle scelte delle nazioni e degli uomini, portandoli a scendere a dolorosi compromessi con tutto ciò che era la ragionevolezza, verso la necessità di sopravvivere, ad ogni costo. Nazioni come la Nuova Zelanda ed uomini come Bob Semple, nato nel 1873 e diventato 25 anni dopo un minatore, poi sindacalista ed attivista dei diritti di categoria, finché la partecipazione a diversi scioperi eclatanti lo avrebbe fatto licenziare nel 1903, poi finire un paio di volte in prigione. Contribuendo, nel contempo, a spianargli la strada verso un successivo ingresso in politica, con il soprannome di “agguerrito Semple” dapprima nel concilio cittadino di Wellington, finché le elezioni l’avrebbero investito deputato del partito Laburista a partire dall’epoca della grande guerra. Famoso per l’insolita abitudine d’insultare i suoi rivali usando termini come “canguro”, “kookaburra” e “dingo”, la sua missione principale sarebbe quindi diventata l’abolizione del servizio di leva obbligatorio, che chiamava “la piovra prussiana”. Posizione sostenuta enfaticamente per oltre una decade, finché la marcia della storia non avrebbe finito per portarlo in direzione diametralmente opposta. Così lo ritroviamo, nel 1940, ai vertici del sistema politico con la carica di Ministro delle Opere Pubbliche, ma soprattutto il portafoglio de facto di una mansione che nessun altro avrebbe voluto svolgere: quello di responsabile politico della Guerra. Un concetto certamente aleatorio, per un paese tanto isolato e distante, sebbene le ultime notizie provenienti dal Pacifico avessero causato un certo sconforto tra la popolazione della Nuova Zelanda. Mentre i giapponesi continuavano la loro espansione in terra d’Asia, dimostrando tutta l’eccezionale efficienza di una macchina bellica che sembrava inarrestabile. Con l’Australia impegnata a difendere le proprie stesse coste, e gli Inglesi necessariamente impossibilitati a fornire rinforzi, chi avrebbe potuto dunque intervenire a favore di Aotearoa, la Terra della Lunga Nube Bianca? “…Se non noi stessi.” Ebbe modo di affermare indubbiamente a più riprese, l’uomo politico che questa volta non soltanto sosteneva, ma organizzava l’effettiva coscrizione dei propri connazionali. Rendendosi perfettamente conto nello stesso tempo che nessun addestramento alla guerriglia avrebbe potuto sostituire a pieno l’assenza di armi, veicoli e matériel, ivi incluso lo strumento ormai considerato niente meno che indispensabile di un corpo di fanteria appropriatamente meccanizzato.
Tutti avevano ampiamente chiara nella mente, d’altra parte, l’implacabile efficienza dei carri armati, che tanto avevano fatto per eliminare il concetto di guerra di trincea, dimostrandosi una forza in grado di cambiare drasticamente gli equilibri della guerra in tutto il corso del Novecento. E sebbene fosse possibile affermare che in una situazione di tipo difensivo tali veicoli potessero venire contrastati mediante l’impiego di postazioni fisse, era diventato ormai impossibile condurre un qualsivoglia tipo di manovra bellica moderna senza poter contare almeno su un comparto ragionevole di mezzi d’assalto corazzati. Semple dunque, che credeva fermamente nell’autodeterminazione dei popoli e del proprio destino, ricordò di aver visto tempo prima le illustrazioni per un particolare tipo di carro armato, ricavato dal telaio di un trattore civile. Le cronache storiografiche oggi ritengono che possa essersi trattato del Disston Tractor Tank, una bizzarra e sgangherata proposta statunitense degli anni della grande depressione, nata dall’incontro tra la Caterpillar Corporation e l’omonima segheria poco fuori la città di Philadelphia. Il fatto stesso che una macchina agricola potesse essere allestita come mezzo di combattimento, d’altra parte, non poteva che costituire un significativo incoraggiamento, dinnanzi alla presa di coscienza che in tutta la Nuova Zelanda esistevano soltanto sei cannoni mobili Bren contro l’eventuale assalto del più temibile impero nella storia d’Oriente. Fu così che il celebre politico coinvolse un gruppo d’ingegneri del Dipartimento dei Lavori Pubblici (PWD) di Temuka, guidati da un certo Mr. Beck, per creare un qualcosa che forse non avrebbe mai potuto cambiare le sorti della guerra. Ma sarebbe stato un baluardo sostenuto, se non altro, da un potente senso patriottico e l’orgoglio di un popolo convinto di poter fare qualcosa. Che era comunque meglio di restare immobili ad aspettare l’ora della fine…
L’uomo che costruì un castello di corallo usando l’energia magnetica dell’Universo
“L’ho visto, vi dico” Era un giorno come gli altri verso la metà degli anni Trenta, quando l’abitante in cappotto di cammello di Florida City, oggi un semplice sobborgo di Miami, di fronte ai propri amici radunati nel tipico diner sull’interstatale, decise finalmente di narrare il proprio aneddoto più impressionante. “Era tarda sera e guidavo lungo il perimetro della sua proprietà, per tornare a casa da una lunga giornata in ufficio. Ma c’era la luna piena, e vidi bene quello che stava accadendo, dietro quel suo alto muro di pietra. Così fermai la macchina a lato della strada, per capirlo meglio.” I suoi cugini, colleghi e il gruppo del baseball tacquero istantaneamente: persisteva un certo alone mistico nelle attività del nuovo inquilino dei terreni di R. L. Moser, che i vicini chiamavano “il Leprecauno” per la sua bassa statura e i lineamenti a quanto pare simili a quelli di un leggendario folletto irlandese. Anche se veniva, in effetti, dall’Est Europa. “Al centro del giardino c’era quell’Ed Leedskalnin, con le braccia sollevate a 45 gradi, lo sguardo fisso in senso opposto al punto in cui ero posizionato. Chiaramente concentrato in qualche tipo di attività…Segreta” Il vecchio Jenkins gettò indietro il capo, come a indicare “Lo sapevo!” Mentre emetteva uno sbuffo d’aria dagli angoli di un sorriso mentre suo nipote continuava a raccontare: “In un momento in non passava nessuno, sentii chiaramente il suono ritmico di un macchinario. Ma dopo qualche attimo capii che si trattava di una voce umana. L’uomo stava cantando! Cantando, vi dico!” Il narratore rievocò la scena nella sua memoria: “Di fronte a lui, tinto di una tenue luce biancastra, l’oggetto più incredibile: una pietra fluttuante in aria, come un dirigibile. Sarà pesata… Almeno 10 tonnellate!” E qui, con un gesto magniloquente, impugnò il panino con l’hotdog dal piatto antistante, per impugnarlo a due mani come fosse una meteora del cosmo. “Una sorta di stregoneria continentale, ascoltate a me! Roba dell’altro mondo!”
E le voci corsero, come usano fare le voci, ed il racconto continuò a ingrandirsi mentre circolava tra le genti stranamente socievoli nella principale penisola meridionale della Costa Est. Fino a trasformare la vita di quell’uomo relativamente riservato, fin da quando si era trasferito dall’altro angolo degli Stati Uniti, ed a quanto pare per cercare un qualche tipo di sollievo dagli effetti cronici della turbercolosi, in una sorta di spettacolo per il pubblico ludibrio. E fu pressoché allora che l’immigrato lettone in questione, pienamente incline a fare proprio il tipico spirito imprenditoriale americano, iniziò farsi pagare un biglietto di 50 cents per visitare ciò che aveva costruito. Guadagnandosi una fonte di sostentamento che gli avrebbe consentito di vivere dignitosamente, fino all’ultimo giorno della propria non lunghissima vita. Si trattava, per usare il nome ufficiale benché fosse per tutti soltanto “il castello” della sua personalissima Rock Gate, una tenuta con giardino di sculture costruita interamente in pietra calcarea oolitica, lungo un periodo che si sarebbe esteso per oltre venti anni, facendo affidamento unicamente sulle proprie forze e una collezione di strumenti di tipo assolutamente primitivo: martelli, scalpelli, cunei e un’assortita collezione di paranchi. Niente di così eccezionale a dire il vero, se non fosse stato per le proporzioni letteralmente spropositate dei materiali coinvolti: pietre più alte ed imponenti di quelle utilizzate nella costruzione delle piramidi della piana di Giza o il cerchio druidico di Stonehenge. Tagliate, sollevate da una cava rigorosamente autogestita e in qualche modo trasportate fino in posizione, mediante l’uso di un sistema che sarebbe rimasto rigorosamente segreto. Alle domande dei suoi visitatori, che non riuscirono mai a vederlo lavorare per l’abitudine di farlo unicamente dopo il tramonto, Leedskalnin era solito dire: “Non è difficile sollevare grandi carichi, basta sapere come fare. Io ho compreso le leggi del peso e della leva e conosco i segreti degli antichi.” Una risposta che in realtà spiegava molto poco, ma che sarebbe stata coadiuvata dalla sua pubblicazione di cinque differenti testi, ingegneristici e filosofici, destinati ad essere venduti nel negozio per la gente che veniva a vedere il castello. Saggi dedicati ai più diversi argomenti, dall’educazione morale alla gestione dello stato, fino alle sue teorie più significative sul funzionamento fisico dell’universo stesso. In una visione che elevandosi da qualsiasi applicazione eccessivamente stringente del metodo scientifico, appare come una versione coadiuvata dalle conoscenze di epoca moderna della cosmogonia di un filosofo del mondo greco o latino…
Lezioni sul metodo per produrre l’impossibile bullone a zig-zag
Considerate, a tal proposito, un “semplice” bullone. Oggetto oblungo dalla forma cilindrica, che poggia invertito sopra la grande testa ottagonale, circondato dalle scanalature tipiche di una tale cosa. Ma c’è qualcosa di molto strano, come scopriamo quando mani operose avvicinano ad esso uno, due, quattro dadi dal color bronzeo, per poi lasciarli cadere grazie alla forza gravitazionale che governa l’eterna danza dei pianeti. Per vederli ruotare prima da una parte, poi dall’altra, poi di nuovo da quella di partenza. Ed ogni volta che invertono la marcia, tutto il sistema assorbe l’inerzia che ne risulta, ruotando per qualche grado nelle due direzioni conseguenti. Semplicemente assurdo.
È la luna nel pozzo, la pietra di paragone. È la gemma del Nilo, l’aeroplano tra i geroglifici, la creatura della cantina. L’oggetto fuori dal contesto che rappresenta, nel novero tangibile degli eventi, un qualche tipo d’interferenza nel continuum spazio-temporale, risultanza della permeabile membrana tra le plurime cellule del multiverso. A cosa serva, nessuno può comprenderlo. Chi l’abbia creato, non è (sempre) facile da capire. Eppure talvolta, quando la congiunzione tra i pianeti risulta essere perfettamente conforme, mentre il progredire di un eclissi avvolge nella tenebra i distratti abitanti della Terra, per qualcuno è possibile estendere le mani oltre i confini dello scibile immanente. Per stringerle attorno all’impossibile, e invitarlo a cena. Metallo, plastica, ingegno ma soprattutto metallo. Poiché questo costituisce, più d’ogni altro materiale, la sostanza che sorregge l’interpretazione produttiva della tecnologia, passata, presente e futura. Trasportato in diverse forme entro il laboratorio del Creatore, che provvederà a plasmarlo nella forma desiderata. E potrebbe sembrare un vezzo transitorio, ma non lo è, perché “Qual è lo scopo?” e “Chi ne sentiva il bisogno?” Costituiscono ormai al giorno d’oggi delle pure domande retoriche, frutto di una visione del mondo retorica e priva di valore oltre la progressione logica dei momenti. Mentre per entrare nel regno della pura geometria divina, tutto ciò che occorre è il coraggio di andare oltre la convenzione. Una webcam. L’attenzione del pubblico al di là della siepe. Oltre, sia chiaro, ad una valida storia da raccontare.
Così Robinson della Robinson Foundry, che è un’officina statunitense dedita all’antica arte di fondere e plasmare l’incandescente sangue siderurgico del mondo, ma anche il titolo del relativo canale su YouTube, si è prodigato attraverso le ultime settimane per portare alle più estreme conseguenze un quesito fin troppo a lungo ignorato. Quello relativo a cosa sarebbe potuto succedere, se al principiar dell’avvitamento finalizzato a un particolare montaggio di componenti, tale aspetto fosse progressivamente sfumato verso… L’orizzonte. Lasciando soltanto lo scheletro del progetto di partenza, ovvero un qualcosa che fosse in grado di girare, girare. Ma con metodologie e un significato logico nettamente divergente. Il che ci porta alla sua ultima proposta, pubblicata il 13 novembre scorso, in cui tutto inizia da un punto netto e logico. Per approdare fino ai più distanti, sconosciuti lidi dell’immaginazione umana. Considerate, a tal proposito, la tipica origine di un componente di giunzione smontabile tra due parti meccaniche, formato da vite e dado o controrivettatura. Che le pregresse puntate dello show televisivo “Come è fatto” ci hanno mostrato provenire da un lungo e spesso cavo metallico, tirato, spianato e fatto rotolare attentamente nel senso longitudinale all’interno di una matrice, poco dopo aver sottoposto il tutto a pressioni inimmaginabili per le scricchiolanti ossa umane. Ma non è in alcun modo possibile far rotolare un qualcosa in entrambi i sensi allo stesso tempo. Per cui l’esistenza di un qualcosa di tanto inusitato deve necessariamente sottintendere un processo di fabbricazione diametralmente all’opposto, per cui ogni considerazione dei costi e del tempo necessari viene posto in subordine, all’eccezionalità ed unicità del risultato finale desiderato…