Incontro col più raro e piccolo degli armadilli

Pichiciego

Quanto state per vedere in questo video è davvero molto insolito. Si ma quanto, esattamente? Talmente tanto che Mariella Superina, direttrice di un gruppo di ricerca speciale all’interno del CONICET (Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas) che da 14 anni si occupa di questo animale, non ha mai avuto d’incontrarlo in prima persona senza le sbarre di una gabbia a fare da interfaccia con la sua presenza. Almeno che l’armadillo fata rosa (Chlamyphorus truncatus) non l’avesse appena liberato lei stessa, poco tempo dopo averlo ricevuto da qualcuno, con lo scopo di salvarlo da un destino molto sfortunato. Lo stesso YouTube, normalmente ricco di sequenze riprese dai nativi o turisti che si trovino a contatto con le bestie più diverse, in natura o negli zoo, non dispone che di un gran totale di tre video dedicati a quello che in Argentina chiamano il pichiciego, creatura difficile da trovare, perché dalle abitudini notturne e sotterranee. Che per di più risulta affetta da una strana sindrome, estremamente problematica, che gli impedisce di essere tenuta in cattività, dimostrando la propensione a morire nel giro di poche ore o giorni dal momento della cattura, se non persino durante il trasporto via dalla dimora naturale. È piccolo e delicato. Misura 15 cm, al massimo. È letteralmente sconosciuto ai più. Eppure, rappresenta da solo il 22.5% della diversità genetica della famiglia dei Dasypodidae, gli ultimi discendenti dei mammiferi Cingulata che un tempo percorrevano le lande americane. La loro eventuale estinzione, dunque, sarebbe una grave perdita per tutti noi. Il problema principale, tuttavia, resta il fatto che ogni considerazione sullo stato di salute della specie resta largamente aneddotico, fondato su farsi del tipo di “Prima se ne vedevano di più!” Per il semplice fatto che anche nelle generazioni ormai trascorse, “di più” voleva dire un paio l’anno, invece di uno al massimo, quando si è veramente fortunati. Questa, è l’effettiva rarità del video qui realizzato da Willy Escudero, presso una semplice strada di campagna vicino Mendoza, nell’Argentina centro-occidentale.
A tale considerazione, potrebbe seguire subito un vago senso d’invidia. Perché non capita spesso, né a molte persone di questo pianeta, di poter realizzare le proprie fantasie di essere d’aiuto alle creature semi-sovrannaturali, tipo gli unicorni, le manticore, il cane nudo messicano… Il titolare del canale, la cui voce si sente impegnata in un breve dialogo con un altra persona presente sulla scena, si rende subito conto del problema: l’armadillo, dall’aspetto vagamente simile a quello di un’aragosta senza coda, si trova esattamente al centro della rudimentale carreggiata, apparentemente perplesso dalla sua incapacità di fare breccia nel fondo sterrato e compatto, risultando, quindi, una potenziale vittima per qualunque predatore di passaggio, incluso il più pericoloso in assoluto: la ruota di una macchina o di un camion. Purtroppo. Così, l’approccio scelto e semplice e diretto. Con un bastoncino, il protagonista umano tenta di indurre a scappare l’armadillo, che tuttavia risulta totalmente privo di un simile istinto e reagisce a malapena. Talmente è abituato a vivere in stretti cunicoli, dove la velocità è un optional del tutto inutile allo scopo. Il risultato ottenuto, dunque, risulta quasi comico, con l’animale che scava freneticamente, poi, una volta ridirezionato a forza, ricomincia nuovamente a scavare, come se non fosse successo alcunché di nulla. All’intera vicenda non viene fornito un epilogo, con l’indicatore che raggiunge la fine della barra proprio sul più bello, ma possiamo comunque presumere che i due, alla fine, abbiano trovata il modo di spostare il pichichiego dei pochi metri necessari per salvarlo dalla situazione scomoda e imprevista. Ma la vera risoluzione sarebbe giunta solo successivamente, quando quest’ultimo, finalmente lasciato solo e in pace, sarà riuscito a fare breccia e ritornare nel suo unico luogo sicuro: il buio della dimensione sotterranea, da dove uscire solamente a notte fonda, per cercare qualche insetto particolarmente succulento, utile ad ottimizzare la sua dieta composta primariamente di materia vegetale marcescente.

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Le steppe inospitali dell’antilope dal grande naso

Saiga Documentary

Puoi andare da qualsiasi parte, puoi fare qualunque cosa. Guarda questo spazio sconfinato, d’erba commestibile, dove gli antenati hanno vissuto per generazioni. All’orizzonte, non c’è nessuna barriera, tranne il cielo che divide il mondo percorribile dal Sole incandescente. Ma libertà vuol dire solitudine, e questa strada non è percorribile per loro, il popolo degli ungulati. Così è ben nota, fin dalla notte dei tempi, l’abitudine che hanno di formare gruppi simili a tribù, con qualche dozzina di esemplare ciascuno, per vagare alla ricerca di un momento ed un incontro, il giorno della verità. È uno spettacolo che non ha pari a questo mondo: decine di migliaia di Saiga tatarica, le particolari antilopi che vivono nella regione che si estende tra i Carpazi ed il Caucaso, spingendosi talvolta fino in Mongolia, si radunano in un vasto spazio tra gli spazi, un punto di partenza per la grande migrazione. Quindi, al palesarsi di un segnale a noi del tutto sconosciuto, iniziano la lunga marcia che le porterà, durante i primi mesi dell’inverno, fino ai semi-deserti del distante meridione, dove disperdersi di nuovo, in piccoli gruppetti di esemplari pronti a correre dai predatori, quando necessario. Con il trascorrere dei mesi, quindi, una volta che il loro manto è passato dal marrone a una tonalità biancastra, utile a nascondersi tra i ghiacci dalle aquile e dai lupi, ricominciano a pensare ai grandi pascoli del Nord, dove le attende cibo a profusione e la stagione degli accoppiamenti, in primavera. Così ritornano, ma questa volta senza sentire la necessità di unirsi per formare il grande branco. Ciò perché già sussistono le divisioni e la rivalità tra i maschi alpha, che di lì a poco dovranno competere per il diritto a riprodursi, una cornata dopo l’altro. A discapito di altri, contro l’inclemenza delle circostanze. Perché l’antilope saiga, un tempo considerata tra gli animali più prolifici, è dall’epoca della fine dell’Unione Sovietica che sta andando incontro ad un progressivo processo di spopolamento, tale da ridursi del 95% a partire dalla fine degli anni ’90. Un processo letteralmente inaudito in precedenza, che oggi viene considerato la più veloce via per l’estinzione mai sperimentata da un mammifero del pianeta Terra.
Prima di analizzarne le ragioni, che sono più d’una, sarà opportuno parlare brevemente di questo animale, il cui aspetto estremamente caratteristico, se non proprio grazioso, è valso l’iscrizione ufficiosa al club degli animali bandiera, ovvero quel gruppo di specie a rischio scelte dalle istituzioni ecologiste come testimonial per le proprie raccolte fondi. La saiga è un’abitante atipica della regione eurasiatica, che si conforma nello stile di vita al tipico erbivoro cornuto del continente africano, da cui prende la denominazione di antilope, benché il ceppo evolutivo della sua provenienza, si ritiene oggi, sia del tutto differente. È infatti più piccola, con un’altezza al garrese massima di 0,8 metri e un peso che si aggira sui 50 Kg, come quello di una pecora. Inoltre presenta la caratteristica evolutiva di un grande naso simile a una proboscide, con le narici nella parte anteriore, che si ritiene abbia lo scopo di filtrare la polvere d’estate, riscaldando invece l’aria durante il corso dell’inverno, prima che questa possa raggiungere i polmoni dell’animale. La sua genìa migratoria, che esiste fin dall’epoca del Pleistocene e che ricorda da vicino, nell’aspetto vagamente chimerico, alcune illustrazioni sugli animali preistorici successivi all’ultima glaciazione, si spingeva un tempo fino all’area dell’attuale stretto di Bering, varcandola per giungere nel continente nordamericano. Ma di quegli anni di gloria e grandi esplorazioni, oggi resta molto poco.

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L’irrefrenabile pulsione dei procioni

Washer of smarphone

“Pronto, parlo con l’ente Animaletti Acme Inc? Si, buongiorno. Chiamo perché ho un problema con il mio Pom Poko.” (Rumore di piccoli passi in sottofondo) “Ah signora mia, lei non ha idea! Siamo una famiglia versata nell’accudire ogni sorta di creatura con quattro, due o nessuna zampa. Abbiamo avuto gatti, cani, pappagalli, pesci rossi. Ma MAI, davvero…Una tale situazione…” (Stoviglie fatte muovere in cucina) “È cominciato tutto il 15 di questo mese. Vede, Pom Poko è sempre stato un esserino tranquillo. Da quando l’abbiamo trovato lungo l’Interstatale 36, durante un viaggio in macchina verso la Florida, solo e smarrito, dalle irresistibili striscette nere sulla coda, si è adattato alla vita domestica con sorprendente facilità.” (La luce si spegne, unghiette graffiano sulla parete) “Oh, ooooh lo sapevoo, sta succedendo di nuovo. Non è possibile…Cosa fare, CHE fare?” Silenzio. Passano i secondi, mentre all’altro capo della linea, l’operatrice chiama un gruppo di colleghi a gesti e mette la telefonata in vivavoce. “D’accordo, ho capito. Continuerò con la mia storia, però cerchi di capirmi se inizierò a farlo più in fretta. La situazione è molto seria. Dunque, l’altro giorno c’era la luna piena. Di ritorno a sera inoltrata dal lavoro, io e mio marito cenavamo in veranda, godendoci il silenzio della vita di campagna. Poko vagheggiava, come al solito, tra la porta del salone ed il cortile, spronato dalle abitudini notturne della sua specie. Non c’è mai stato nulla che potesse sfuggire a quelle agili manine unghiute: sassi, pallette, rami d’albero. Ogni giorno una scoperta nuova, seguito da quel suo strano verso deliziato, a metà tra l’abbaio stridulo di un chihuahua e la risata di una jena.” (Ora, quasi a sottolineare il significato pregno del momento, il procione lancia un grido. FRRR-KAI, KAI, KAI) “Ha sentito? HA SENTITO? No, devo avere fede in me. Posso farcela. Ecco, dunque…Terminato un lauto pasto, ci apprestavamo a ritornare dentro casa. Quando davanti alla porta-finestra, una strana sorpresa: la mia scarpa destra era sparita. Dapprima non ci pensammo granché, finché la mattina dopo, lo sa dove l’abbiamo ritrovata? Era incastrata nel WC, le dico. Siamo dovuti andare..Oh, la vergogna…Siamo dovuti andare dai VICINI!”
“Da allora le cose non hanno fatto che peggiorare… Io non lo riconosco più. Il nostro mascherina-nera si è dato al ladrocinio più spietato e nulla al sicuro dalle sue spedizioni di quelli che io chiamo lavaggi-distruttivi: telecomandi della Tv, fogli di giornale appallottolati, fermacarte, soprammobili d’antiquariato. Tutto quello che non fosse, per così dire, imbullonato a terra, Poko ha iniziato a prenderlo ed immergerlo, nell’acqua. È diventato diabolicamente bravo a trovarla, come una sorta di dannato mini-rabdomante: apre i rubinetti, sottrae le bacinelle. Una volta abbiamo ritrovato l’unico ombrello di casa a 25 metri dalla porta d’ingresso, nel torrente che malauguratamente scorre accanto al mio garage. Amo alla follia il mio grazioso batuffolo di pelo però, le dico davvero, non so più… Che…fareee…” (Un solletico alla caviglia, mentre lo scricciolo da quattro Kg circa sfreccia sotto il tavolo. Ora, nel relativo buio del vespro sulla costa del Pacifico, s’intravede una sagoma contro il rettangolo della finestra. In piedi sulle zampe posteriori, che allarga le braccia, quasi a lanciare la sua sfida al mondo intero. Quindi volta il viso aguzzo verso l’interno di casa, socchiude la bocca piena di dentini aguzzi. Il Cacciatore, finalmente, ha individuato la sua preda.) “Quindi vede, ho un bisogno disperato di aiuto, mandate un esperto, un manuale, QUALSIASI cosa. Ma ho già capito cosa sta per accadere. Devo togliere la batteria del cellulare, prima che sia troppo tardi.” *CLICK
Ciao Poko, come va? Si, bello lui, che bello che sei. No, fai piano, non mordermi di nuovo. Lo so come sei, capisco cosa vuoi. PIANO! Ecco, questo è il mio vecchio Blackberry, tanto avevo intenzione di cambiarlo. E poi, ho sentito che da spenti i cellulari qualche volta sopravvivono all’inzuppamento. Sono certa che se ti privassi di questo piacere, troveresti qualcosa di peggio da distruggere prima del sorgere del Sole…

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Se fai la doccia col tricosuro volpino

Tricosuro Volpino

Una palla di pelo fra le candide piastrelle non è mai una buona cosa. Se dovesse scivolare giù nel buco dello scarico, sarebbe una sventura. Senza neanche aver considerato, a priori, l’elefante nella stanza: come mai può esserci arrivata? La lanugine non riesce a camminare. Sarà forse, dunque stata…Rigurgitata dal felino casalingo, dall’amalgama dei fili del tappeto. Oppure è nata in mezzo ai denti della spazzola, del pettine dimenticato, poi sfuggita dallo sguardo dei suoi precedenti proprietari? Che orribile malessere! Un capello nel bidet. Ma tutto questo non è nulla, in confronto a ciò che è capitato a Stephen Paice, l’australiano detto spaicecowboi. Tra i più grandi temi del presente internettiano, c’è questo concetto di ritorno alla natura. Abituati a vivere fra le alte mura dei palazzi, la campagna la vediamo soprattutto da lontano. Il viaggio, l’avventura, al giorno d’oggi è soprattutto un’esperienza culturale. Ci si muove per conoscere, piuttosto che sperimentare l’imprevisto. Tranne quando ti ritrovi nel campeggio. Se fermi la tua auto nel parcheggio di una zona libera, incontaminata, lo fai con l’intenzione di relazionarti apertamente. Condividere gli spazi e le risorse: chi non ha presente, in questi casi, la tipica esperienza di svegliarsi la mattina, mettersi l’accappatoio e andare fino ai bagni del resort, gli occhi ancora semichiusi dalla sonnolenza. Per vedere tra le palpebre pesanti, cose come: OCCUPATO, NON ENTRARE, PREGO ATTENDERE. Pazienza, questi sono gli accidenti dell’imponderabile. Si può far la fila per gli umani. Qualche volta per i marsupiali.
Trichosurus vulpecula, l’opossum australiano dalla coda a spazzola, era lì tranquillo. Il fatto è alquanto semplice, in effetti. Per animali come questi, che si arrampicano spesso sopra gli alberi, la doccia con il serbatoio a sacco è come un sogno; l’amaca della loro beatitudine. I tricosuri non crescono soltanto nella tasca della madre. Dai cinque mesi di età, questo vuole consuetudine, vengono lasciati soli nella tana. Idealmente, si tratterebbe di un cavo degli alberi, dove l’unico cucciolo resta in attesa delle proprie foglie di eucalipto quotidiane, trasportati dall’affabile genitrice. Ora, va da se che nonostante le unghie aguzze, queste bestie non riescono a bucare la corteccia. Non sono uccelli picchiatori, ma inquilini opportunisti. Dove trovano lo spazio, vanno. La competizione con i propri simili per un’appartamento in centro può naturalmente essere…Feroce.

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