Il manto aguzzo del topo in grado di respingere i giaguari

Dal punto di vista ecologico, pochi luoghi riescono a mostrare una varietà di situazioni paragonabili a quelle della foresta pluviale neotropicale, in termini di fenotipi biologici, caratteristiche degli animali, soluzioni utili a potersi garantire la sopravvivenza. Così può capitare in mezzo agli alti fusti di palma euterpe, huicungo e alberi della gomma, il debole diventi forte, quest’ultimo scopra l’importanza della prudenza e l’epilogo scontato sia spinto dalle circostanze in secondo piano. Delicate e alquanto imprevedibili contingenze, che vedono il più forte dei felini entro i confini del Nuovo Mondo ritirarsi da un facile spuntino, poiché l’istinto oppure l’esperienza hanno collocato nella sua immaginazione l’esito probabile di un morso dato all’animale sbagliato. La cosa più vicina a un porcospino entro il suo terreno di caccia, laddove l’espressione più conforme ad una simile creatura, comunque situata all’altro delle Ande, è un esplicito e altrettanto rigoroso delle pertinenze situate oltre i confini della canopia. Ma come si dice, non tutto quel che appare soffice risulta essere piacevole da masticare, come potrebbe garantire chiunque si sia avvicinato con finalità gastronomiche al nostro amico Hoplomys gymnurus, il roditore detto nei cataloghi in lingua comune “Topo corazzato” per la sua notevole somiglianza; con i tipici abitanti baffuti delle oscure profondità urbane, e come da radice che contiene la parola ὅπλον, con gli opliti dell’epoca classica tra le isole e penisole dell’antichità greca. Non tanto per la capacità di schierarsi in battaglia in ranghi serrati e con gli scudi volti in direzione del nemico, quanto per l’immagine particolarmente amata in mitologia, per non parlare del film 300, di un guerriero al tempo stesso semi-nudo ed invincibile, impenetrabile dalle spietate armi di un nemico da caratteristiche più mondane. Risultato perseguito, nel caso del nostro piccolo amico, grazie agli aculei rigidi che si nascondono sul dorso irsuto, in mezzo a peli marroni dall’aspetto falsamente mansueto. Armi di mutilazione di massa (particolarmente debilitanti nel caso di un predatore dal naso sensibile, come un grosso gatto a macchie) che restano perennemente rivolte in direzione retroattiva. Per permettere al quadrupede di ritirarsi, e al tempo stesso mantenere una facciata impenetrabile nei confronti di chi vorrebbe sbarrargli la strada. Un letterale capolavoro strategico nonché il capovolgimento logico di quell’espressione stereotipica: allorché si dice, che la miglior difesa (fuga) possa essere l’attacco. Se non c’è altra scelta residua…

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L’ingegnosa soluzione britannica per spostare il cavallo dalla parte giusta del canale

Le operazioni procedono secondo il programma. Un passo alla volta, un minuto dopo l’altro, la colorata narrowboat (imbarcazione “stretta”) avanza nel sentiero lungo del canale. La campagna scorre al ritmo di cadenzato di una scenografia teatrale. Mentre sulla destra il suo motore, clop, clop, clop. Un uomo lo conduce, senza drammi, né fatica, usando la carota e qualche volta una frustata. Non sul dorso del grosso cavallo da tiro, s’intende, bensì al terra per portarlo momentaneamente a trasalire. Idealmente… Fermarsi. Ma persino questo, è relativamente raro! Giacché arrestare l’implemento, di una tale soluzione utile al trasporto di persone o cose, è un’operazione dispendiosa in termini di tempo, energie, voglia di collaborare nell’empatico, talvolta recalcitrante cervello equino. Ecco perché attraverso le prime tre decadi della canal mania durata quasi due secoli, quel periodo storico in cui l’Inghilterra creò la prima rete al mondo di sentieri acquatici attraverso il territorio di una nazione, c’era una contingenza particolarmente rara & sconveniente. Quel momento cupamente necessario, in cui un sentiero lungo-fiume si trovava ad interrompersi d’un tratto. Ed il cavallo doveva, necessariamente, Passare dall’Altra Parte. Clop, clop, stop. Allora slega il tiro, fai fermare quella barca. Spingi il proprietario degli zoccoli sopra il corto ponte e quindi fallo scendere dall’altro lato. Tutto questo mentre tendi a interrogarti: possibile che non esista un metodo per semplificare le cose?
Il modo chiaramente c’era e viene in genere attribuito all’ingegnere della prima Rivoluzione Industriale Rennie the Elder, i cui disegni trovarono l’applicazione per il tramite di John Fletcher nel 1792 presso il canale di Lancaster verso la città mercato di Kendal, in Cumbria. Ma non è impossibile che già i Romani, utilizzatori di muli per il traino d’imbarcazioni lungo i fiumi naturali della Britannia, avessero concepito ed impiegato qualcosa di simile entro i suoi confini ed oltre. Da ogni punto di vista meramente pratico, un tipo di ponte. Eppur fornito di un’espediente tanto semplice quanto efficace nel raggiungimento del nesso operativo al nocciolo dell’intera faccenda. Un attraversamento del serpente, come viene talvolta chiamato, ma anche changeline o roving bridge, si compone dunque di una coppia di rampe ai due distinti lati, una spiraleggiante e l’altra parallela al canale, che il quadrupede trainante sperimenta come una mera deviazione del suo tipico sentiero obbligato. Per poi trovarsi, senza interruzioni o deviazioni di sorta, nella stessa direzione di marcia e all’altro lato del punto di passaggio che oltrepassa il natante. Benedetta, ingegnosa asimmetria che serve alla logistica dei casi persistenti…

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Non è una lucertola e nemmeno un drago. Sembra un dinosauro? No, tuatara

La presenza di un terzo occhio non è propriamente inaudita nella classe dei rettili. Organo sensoriale ausiliario, posizionato sulla sommità del capo, dotato di una retina e capace di percepire la luce e il movimento, esso possiede una funzione sopra ogni altra: rilevare il periodo dell’anno grazie alla percezione della durata dei giorni. Una capacità niente meno che fondamentale, per animali le cui uova vengono regolate termicamente, favorendo la nascita di un sesso in base alla vigente temperatura. Ancorché sia necessario sottolineare, a questo punto, come tale metodo decisionale abbia nella maggior parte dei casi uno scopo chiaramente definito: produrre più maschi quando la temperatura è fredda, ovvero in assenza di fonti abbondanza di cibo, per favorire la fecondazione seriale. Laddove il rapido tuatara neozelandese (Sphenodon punctatus) vede il suo metodo riproduttivo prevedere l’esatto opposto, per cui temperature al di sotto dei 20 gradi garantiscono una percentuale di femmine tra i nuovi nati pari all’80%. Simili creature, d’altra parte, hanno molti meno problemi a sopravvivere nei mesi freddi rispetto ai loro simili dei tempi odierni, con una capacità di mantenere caldo il proprio metabolismo superiore a quella degli altri esseri a scaglie, incluse le tartarughe, essendo adattati a vivere nell’entroterra delle isole dell’emisfero australe, dove gli inverni possono risultare rigidi ed estendersi per una durata significativamente superiore alla media dei tropici terrestri. Non per niente, stiamo parlando di creature tri-oculari appartenenti a un altro tempo! Considerate, a tal proposito, quanto segue: il nostro predatore lungo della lunghezza di un metro circa, il cui nome in lingua Māori significa “Becca la tua schiena” fu classificato nel 1831 come una lucertola agamide dal naturalista John Edward Gray, il che l’avrebbe resa imparentata alla lontana con le iguane del Nuovo Mondo. Finché 30 anni dopo, Albert Günther del British Museum non trovò nel corso dei studi di tale animale caratteristiche comuni a uccelli, tartarughe e coccodrilli. La creazione del nuovo ordine (non famiglia) dei Rhynchocephalia, fu dunque seguita dalla presa di coscienza di un fattore inaudito: il tuatara costituiva, a tutti gli effetti, l’ultimo esponente di un’intera linea di sangue perduta. Espressione evolutiva di un tipo di creatura non soltanto assai più antica del concetto di lucertola, ma precedente addirittura alla venuta dei dinosauri. I cui simili scomparvero da questa Terra, molto probabilmente, nel periodo del Triassico risalente a 238-240 milioni di anni a questa parte. Pur non costituendo dal punto di vista formale, come si usa dire in questi casi per la continuità dei fenotipi ereditati, un esempio inconfutabile di “fossile vivente”…

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La fortezza sotto assedio tra le foglie della tartaruga con l’elmetto da squalo

È un’idea del tutto pertinente all’epoca seguente alla Preistoria, il fatto che le prede debbano possedere un aspetto mansueto, mentre le creature che si nutrono di esseri viventi aspirano ad indurre con l’aspetto il massimo timore nelle proprie prede o nemici. Se pensi al diplodoco, anchilosauro, stegosauro, triceratopo… Molti di essi possedevano corazze impressionanti e aculei assolutamente degni di nota, per non parlare degli artigli e della forza negli arti necessaria a muovere la loro massa ponderosa. Per fortuna abbiamo l’estetica di taluni rettili a ricordarci quel principio e d’altronde, chi non ha pensato almeno una volta che il miglior accessorio per una tartaruga, potesse essere il caratteristico elmetto prussiano con il rostro, chiamato pickelhaube. La natura, chiaramente, ragiona in termini di conseguenza e l’uomo ne è sostanzialmente una parte. E allora col vantaggio dei millenni, perché mai la selezione naturale non avrebbe dovuto perseguire una finalità equivalente? Ragion per cui una tale possibilità ed il suo risultato pratico convergono, quando si scruta attentamente dei particolari tratti del sistema fluviale Brahmaputra-Meghna, tra l’India settentrionale ed i moderni confini del Bangladesh. Dove si può scorgere in zone assolate, in placida contemplazione del meriggio, un’atipica presenza con il guscio declinata in dimensione digradante, dal capofila di circa una ventina di centimetri, graziato da un aspetto distintamente “triangolare”. Si, si tratta della Pangshura sylhetensis o tartaruga a tetto dell’Assam, con possibile riferimento a un altro tipo di metafora, per cui ricorda la struttura architettonica di una vecchia capanna. Ed una paragonabile immobilità, almeno finché non ritorna in mezzo ai flutti, dove tende a muoversi con tutta l’agilità di un’abile abitante dei settori paesaggistici ripariani. Mentre si aggrappa, con le rigide dita palmate, a tronchi, radici e mucchi di detriti, arrivando persino a muoversi in posizione capovolta, mentre cerca i migliori punti di appoggio da cui praticare le sue attività notturne di ricerca del cibo. Consistenti essenzialmente nel seppellirsi in parte sotto la sabbia dei fondali, con soltanto la testa a emergere al termine del grande collo flessibile, impiegata per ghermire tra le acque i pesci, crostacei e altre creature che passano veloci per l’effetto della corrente. Uno stile di vita ben collaudato e dal poco impatto naturale, sebbene ciò non sia bastante a mantenerlo ragionevolmente al sicuro. Trovandoci in poche parole innanzi, come provato dalla limitata quantità numerica di esemplari incontrati dall’uomo, ad uno dei geomidi più rari, e conseguentemente a rischio critico d’estinzione, di tutta l’Asia e del Mondo…

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