La Stratos HF Zero e gli altri magnifici cunei stradali

Fu uno dei raduni d’auto d’epoca più importanti del suo decennio, oltre a un momento storico per il collezionismo a seguito del quale molte vetture letteralmente uniche al mondo passarono di mano per cifre inimmaginabili, sotto le fronde degli alberi a Villa d’Este nel 2011, in quel di Tivoli presso il Lazio centrale. Eppure persino tra la nutrita schiera di miliardari, con garage grandi quanto un centro commerciale cinese, calò momentaneamente il silenzio, quando sulla strada usata per far sfilare i vecchi capolavori venne il momento di quel bizzarro fulmine bronzeo, alto appena 84 cm e così straordinariamente appuntito, che molti di loro non avrebbero neppure immaginato di poter vedere coi propri occhi. E probabilmente così sarebbe andata, se non fosse stato per le difficoltà economiche incontrate dall’azienda costruttrice, un tempo uno dei maggiori marchi del Made-In-Italy nel settore dell’automobilismo di grido. Fluttuando lievemente su strada, con gli pneumatici larghi e il parabrezza romboidale, le fiancate triangolari come la serie di appariscenti lamelle sul retro, composta di prese d’aria per il motore. Era in effetti una Lancia Stratos, quella cosa. Ma non certo la campionessa d’infiniti rally, che molti di noi millennials conoscono grazie alla sua inclusione nell’eponimo videogame della Sega (con la famosa livrea “Alitalia” e il tricolore nostrano) bensì la prima interpretazione di quello che avrebbe potuto, e dovuto essere. Quando colui che l’aveva creata, quel creativo straordinario, ancora usava chiamarla Stratolimite, con riferimento ai confini più estremi dell’atmosfera terrestre che intendeva raggiungere. E che un giorno avrebbe, persino, varcato.
Se esiste un’automobile che, nella fantasia popolare, simboleggia più di ogni altro le sensibilità estetiche e le preferenze di design vigenti negli anni ’70, sarebbe difficile attribuire un tale ruolo ad altro che la storica Countach con carrozzeria di Bertone, Laborghini il cui nome dovrebbe corrispondere a una traslitterazione dell’esclamazione piemontese contacc ovvero “accidenti!” E di reazioni in linea con questa, sulle strade italiane ed oltre, un simile spigoloso fenomeno ne avrebbe raccolte parecchie, per non parlare delle innumerevoli comparse al cinema, nei videogiochi e in televisione, come mezzo di trasporto elettivo dell’eroe, o il protagonista della situazione. Così originale, nel suo stile angoloso, con l’avantreno che va ad abbassarsi a sul terreno e la coda tronca dai fari enormi, da far pensare alle successive generazioni ad un pezzo rivoluzionario, capace di mostrare la via per un nuovo sentiero nel campo della realizzazione di supercars, destinato a generare altri grandi successi come la Lotus Esprit (1976) e la Ferrari F40 (1987). Ciò che spesso non viene menzionato tuttavia, perché si tende a guardare avanti piuttosto che alle spalle dei grandi capolavori, è la lunga serie di prototipi e auto prodotte in serie ridotta che a partire dal 1967, aveva aperto le danze di quella che potrebbe definirsi una nuova interpretazioni delle forme ideali per un automobile, con una ricerca estetica talvolta anteposta anche al valore funzionale dell’aerodinamica, considerato secondario quando il motore a bordo risultava essere, comunque, in grado di raggiungere i limiti di velocità nel giro di un paio di secondi al più. L’epoca delle wedge cars, come le chiamano gli inglesi (automobili a cuneo) sarebbe quindi iniziata in quell’anno con la Lamborghini Marzal, un concept direttamente assemblato dalla mente e la penna di quello stesso Marcello Gandini, dipendente della Bertone, che ad un tal punto avrebbe influenzato lo stile dell’automobilismo mondiale. Insieme, sia chiaro, ad un altro paio di designer italiani, in quegli anni in cui il gusto della nostra penisola veniva ancora considerato, a ragione, il non-plus-ultra di tutto quello che potesse venire definito anche lontanamente cool. Si trattava di una reinterpretazione alle più estreme conseguenze di quello che poteva rappresentare la storica Miura, con finestrini sovradimensionati e una caratteristica linea angolare, priva delle flessuose curve che erano state impiegate per armonizzare il tutto quasi un decennio prima.
Il secondo a gettarsi nella mischia sarebbe stato Giugiaro, con la sua Bizzarrini Manta (1968) prototipo per l’omonimo piccola casa produttrice destinato a rappresentare il debutto della sua Italdesign, largamente considerata come la prima coupé monovolume (sportiva) della storia. Lungi dal restarsene con le mani in mano, Gandini avrebbe quindi immaginato e visto assemblare l’Alfa Romeo Carabo, avveniristico prototipo, evoluzione del discorso passato e per certi versi relativi alla conformazione della carrozzeria, un’anticipazione del suo stesso futuro Countach. Ma il vero stimolo sarebbe arrivato soltanto due anni dopo, con il contributo irrimediabile della carrozzeria Pininfarina assieme al suo partner storico, Ferrari. La Modulo era qualcosa di chiaramente assurdo, una totale impossibilità stradale. La corrispondenza esatta su ruote del concetto di un UFO, qualcosa che esiste, benché nessuno possa trovare un aggettivo adatto a descriverne le caratteristiche primarie…

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La microcar discesa dai cieli del secondo conflitto mondiale

Sono sempre esistite due filosofie progettuali contrapposte, in tempi di pace, così come in mezzo alle distese desolate dei periodi di guerra. Da una parte il mezzo in grado di assolvere una serie di mansioni, grande, potente e relativamente poco maneggevole: vedi, ad esempio l’YFM-1 Airacuda statunitense, detto “il distruttore di bombardieri” e gli altri caccia bimotori dell’epoca, come il Bf 110 tedesco. Per non parlare degli aerei da attacco russi, l’IL-2 Sturmovik e il PE-2. Velivoli capaci di decollare da una base sita a molti chilometri dall’obiettivo, evitare il fuoco della contraerea e quando necessario, combattere nei cieli per portare fino all’obiettivo il carico. Oppure fare quanto in loro potere affinché il nemico fallisca nel riuscire a compiere la stessa impresa. Dottrine che talvolta, corrispondevano a una certa nazionalità: vedi i Britannici, fermamente convinti che i loro aerei più imponenti avrebbero ogni volta, a tutti i costi, completato la missione a patto di essere scortati da caccia svelti e maneggevoli, come la serie leggendaria dei Supermarine Spitfire. Dopo le conferenze di Yalta e Potsdam, cui fece seguito il disarmo dei paesi allineati con l’Asse, gli ingegneri che si erano formati secondo le rispettive correnti applicarono i precetti nel campo della meccanica ad uso civile. Il che avrebbe significato primariamente, negli anni del boom economico tra 1950 e ’60, costruire automobili in enorme quantità. La suddivisione tra le correnti fin qui descritte, a quel punto, diventò di tipo soprattutto pratico: con le gigantesche macchine americane, soprannominate in certi ambienti landyachts, concepite per dare il massimo nei lunghi tragitti, le strade diritte e le città moderne di quel paese. Mentre i paesi europei, con una rete stradale condizionata da maggiori problemi paesaggistici ed ereditati, iniziarono a cercare una risposta all’eterna domanda: quanto può essere piccolo un veicolo a motore per una, o massimo due persone?
La nascita delle cosiddette bubble car, antesignane delle moderne Mercedes Smart, Renault Twizy e Toyota iQ, trova nel nome la giustificazione della propria stessa esistenza. Con una bubble che voleva indicare, nello specifico, il particolare componente in vetro temperato presente sulla maggior parte degli aerei militari di allora (ed oggi) concepito per proteggere il pilota dal vento concedendogli al tempo stesso la massima visibilità di quanto stava per succedergli attorno. Qualcosa di altrettanto utile, volendo, anche a chi si fosse prefissato di percorrere le strade tracciate a terra. Non che si tratti, al giorno d’oggi, di una soluzione particolarmente diffusa. Un’auto la cui parte superiore sia composta da un unico pezzo trasparente presenterà in effetti alcuni punti negativi importanti: l’impossibilità di avere uno sportello ad apertura laterale. Il poco spazio per la testa e le spalle. L’effetto sauna solare durante i periodi estivi, con conseguente rischio di colpi solari per l’autista e l’eventuale passeggero. Ma prima che le correnti del design contemporaneo iniziassero a prestare un’attenzione particolare a simili aspetti, ci fu l’epoca di un grande successo, che in molti ricordano tutt’ora con estremo piacere. Qualcosa di scaturito, alla chiusura delle fabbriche aeronautiche della Messerschmitt tedesca, da quegli stessi stabilimenti che avevano contrastato, per lunghi anni, le imprese dei piloti che rischiarono la loro vita contro i totalitarismi del mezzo-secolo scorso. Immaginate la scena: siamo nel 1952 e un uomo di nome Fritz Fend, famoso per la sua invenzione di un veicolo per disabili a propulsione muscolare, si reca nella più grande azienda della città di Augusta, con un curriculum e i progetti per l’ultima formidabile idea: trasformare il suo apparecchio, estremamente diffuso in determinati ambienti, in un veicolo a motore potenzialmente utile a tutti, per l’estrema facilità di guida ed impiego. La Messerschmitt, a quell’epoca, aveva visto ridursi drasticamente il proprio volume d’affari, spostando il suo business nell’area dei motori ad impiego agricolo, le case prefabbricate ed alcuni timidi esperimenti nel campo dell’automobilismo. L’opportunità del momento, dunque, colpì profondamente la direzione, che in breve tempo riconvertì alcune catene di montaggio per dare un senso tangibile al progetto di Fend. Il risultato fu la KR175 (Kabinenroller – scooter cabinato) prima automobile prodotta da una compagnia operativa in campo aeronautico e grazie ai suoi due posti in posizione da tandem, la prima microcar della storia.

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L’uomo a bordo della ruota di un futuro passato

Mentre il corso delle ore scorre vorticosamente attorno al mozzo dei secondi, a cui è connesso dall’estendersi a raggiera dei minuti, lo spazio cosmico che abbraccia lo sferoide gira, e gira ancora tutto attorno alla coscienza collettiva della collettiva umanità. Ed è questo, fondamentalmente, ciò che avrebbe senso intendere quando si parla di Ruota del Tempo. Un principio secondo cui le epoche, rincorrendosi l’un l’altra, tendono a tornare sempre al punto di partenza. Ma è lo scenario stesso, per la naturale e comprovata deriva delle cosiddette stelle fisse, che continua la sua progressione orizzontale verso l’infinito. Piedi, zoccoli ed infine ruote: veicoli di un veicolo più grande. Quando gli abitanti della Terra, stanchi di arrancare faticosamente tra le circostanze, hanno deciso che determinate particelle di materia, se assemblate nella maniera corretta, potessero divenire veicoli, autocarri, carrelli di aeroplano. Ma come sempre avviene in natura, non ci si può spostare da A e B senza che almeno una parte di noi subisca un cambio di programma, scivolando gradualmente verso il punto di deriva C e D… D, come Dynashpere (soprannome per gli amici: Jumbo) l’invenzione brevettata nel 1930 dal Dr. J.A. Purves di Taunton, Somerset nel Regno Unito.  Un ingegnere che quando guardava le automobili in marcia sulle strade di scorrimento, non poteva fare a meno di esibire un’espressione infastidita, mentre ponderava nella mente matematica questo spreco inutile dell’energia del movimento. Già, QUATTRO ruote… Come gli erbivori con gli occhi perennemente rivolti a terra, mentre cercano con gli occhi e con l’olfatto una precipua fonte di cibo. Che sazia senza concedere soddisfazioni. Quando non è forse l’uomo, nobile tra gli animali, ad aver ricevuto la mansione d’elevarsi sopra i limiti delle scienze fisiche nell’empireo di una condizione superiore, addirittura illuminata?
Sembra quasi di sentirlo illustrare le teorie: “Signori, signore, benvenuti. Oggi su questa bella spiaggia di Weston-super-Mare, MIO FIGLIO salirà a bordo del veicolo destinato a rimpiazzare le automobili nel giro di una generazione o due. Lui si siederà, premendo l’acceleratore ed inclinandosi da un lato all’altro, per voltarsi in corso d’opera. In poco tempo, arriverà fino agli scogli, per tornare subito da voi. Ed allora avrete appreso, finalmente, il significato della dei termini: Efficienza e Velocità!” Dissolvenza, rombo di un piccolo motore, il pilota che si siede al posto di guida situato presso l’arco inferiore della ruota dal diametro di circa tre metri, composta da una struttura a reticolato lievemente toroidale, affinché la parte a contatto con il suolo sia inferiore alla complessiva larghezza del battistrada. Con un ghigno, il rampollo dai capelli separati al centro preme avanti una grande leva, mettendo in moto il meccanismo che indurrà il suo seggio a risalire, in maniera rapida e continua, questo grosso anello senza un senso apparente. Finché la forza gravitazionale del pianeta, facendo finalmente il suo lavoro, contrasterà una simile tendenza tramite l’induzione naturale di un rotolamento, sufficiente a spingere in avanti l’assurdo apparato. Ecco, dunque, ciò di cui stiamo parlando: un monociclo a motore, il primo in effetti della storia, con la singolare capacità di mantenere al centro il suo passeggero e/o conducente. Vi sono alcuni significativi vantaggi, ed almeno uno svantaggio, in tale soluzione eclettica al problema degli spostamenti: in primo luogo, e questo era il cruccio fondamentale del Dr. Purves, la potenza necessaria a far spostare un oggetto tanto grande, tramite questo approccio, rimaneva di molto inferiore a quella di un mezzo di trasporto convenzionale:  appena 2,5 cavalli macchina (o 6, a seconda delle fonti) generati da un motore Douglas raffreddato ad aria con tre marce, sufficienti a raggiungere la velocità considerevole di 40-48 Km/h. E persino meno di questo per la seconda ruota più piccola, le cui prestazioni non ci sono note, il cui fornitore di potenza risultava essere un motore elettrico a corrente continua. Il veicolo risulta essere, inoltre, inerentemente adatto al fuoristrada, considerata la vastità del suo diametro e la solidità della struttura di metallo. A patto che colui o coloro che si trovano a bordo siano pronti ad accettare, senza troppe remore, il problema imprevisto della cosiddetta gerbillizzazione; la tendenza, sgradita eppure inevitabile a quei tempi, della postazione motorizzata a risalire di un certo tratto la parte convessa della ruota, ogni qualvolta si frena o si accelera bruscamente. Proprio come un gerbillo (o altro piccolo roditore domestico) che tenti goffamente di scendere dalla sua ruota. Rimaneva inoltre, d’altra parte, il piccolo problema di riuscire a CURVARE…

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Un incontro col robot che amplifica i movimenti del suo pilota

Nel 2008, anno delle Olimpiadi di Pechino, ci fu una piccola nazione che nonostante i duri allenamenti, portati avanti per molti mesi sotto lo sguardo di una moltitudine di persone, non riuscì a qualificarsi per far partecipare alle gare il suo singolo atleta. Il nome di questo paese? In realtà non lo conosciamo. Ma l’appellativo di costui ci è giunto attraverso la fama imperitura: QWOP, come il suono che fa una scarpa da ginnastica quando colpisce il tartan rossiccio, pavimento per eccellenza nelle discipline dell’atletica leggera; no, QWOP: Quite Worthy Operative Person, acronimo soltanto parzialmente suggestivo dell’intento procedurale originario; no, QWOP: i primi due, e gli ultimi due tasti sulla prima riga della tastiera. Un chiaro rifermento al particolare stile deambulatorio dell’individuo in questione, la cui corsa, idealmente, era la risultanza di una serie d’impulsi (avanti, indietro, sopra sotto) inviati separatamente alle due gambe perfettamente capaci di condurlo nell’Olimpo degli atleti generazionali. Se soltanto non fosse stato così… Terribilmente scoordinato. Capite di cosa sto parlando? È il celebre giochino da browser, che spopolò nelle classi e negli uffici poco prima della rivoluzione smartphone, in cui la sfida principale per l’utente era riuscire a padroneggiare un sistema di controllo tutt’altro che semplice, efficiente o sensato. Eppure, così perfetto, da un certo punto di vista: poiché permetteva un controllo diretto dei muscoli dell’omino, ovvero la perfetta sovrapposizione tra le nostre dita alle sue scattanti caviglie. Tra un capitombolo e l’altro. Mentre nel più famoso gioco di corsa fino ad allora, Track & Field della Konami (Hyper Olympic, 1983) tutto quello che veniva chiesto in termini d’interfaccia per andare più velocemente era premere molto rapidamente il pulsante. Al giorno d’oggi, nessuno si sognerebbe di definirla un’esperienza in qualsivoglia modo edificante. Perché, dunque, dovremmo modellare l’imminente sport della corsa tra robot giganti sulla base di una tale attività, banale quanto ripetitiva?
Già, imminente. Qualcuno tra voi potrebbe, forse, aver assistito al cosiddetto “scontro di wrestling” tra i due sistemi meccanici da combattimento, costruiti rispettivamente da Stati Uniti e Giappone, organizzato lo scorso ottobre grazie alla campagna pubblicitaria della Megabots, piccola azienda finanziata online. Un’esperienza che in molti hanno definito deludente, per il semplice fatto che i mech in questione erano lenti, goffi e l’intera azione appariva di conseguenza  basata su un rudimentale copione. Tanto che dopo un simile exploit, comprensibilmente, molti sarebbero propensi a lasciare lo sviluppo dei sistemi robotici semoventi a mega-zaibatsu con i fondi pressoché illimitati, come la Boston Dynamics passata dal governo statunitense a Google, riprendendo una dinamica commerciale anticipata in pieno dal movimento letterario cyberpunk. Eppure, sono possibili anche vie di mezzo. Come l’ultima creazione di Furrion, multinazionale americana attiva nel campo del lusso dal 2004, che sembra al tempo stesso riconfermare, e smentire, i nostri preconcetti frutto di delusioni pregresse. Come sempre avviene nelle storie di robot, ad ogni modo, sarebbe riduttivo attribuire il Prosthesis mostrato per la prima volta allo scorso CES (robot dal nome, permettetemi di dirlo, poco ispirato) alle macchinazioni di un’intera compagnia senza volto, quando in effetti rappresenta il sogno di vecchia data, e il frutto di un lungo percorso personale, di Jonathan Tippett, l’uomo che parla finalmente per più di un minuto al vasto pubblico nella breve intervista realizzata dal canale Tested, durante una sua dimostrazione alla Maker Faire di San Francisco. Il che è senz’altro utile, dopo una serie di video di presentazione che iniziavano a ricordare in maniera preoccupante, con il loro stile eccessivamente enfatico, le pubblicità della Megabots. Quando qui di sostanza ce n’è eccome, soprattutto nel meccanismo alla base dell’intera faccenda, inaugurato dall’inventore dopo 10 anni di ricerca e sviluppo, con quella che lui definì il progetto Alpha Leg. Ipotesi: riuscire a controllare un arto metallico lungo svariati metri grazie ai movimenti diretti del proprio corpo. Esecuzione: difficile, anzi difficilissima…

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