La genesi della lattuga che oltrepassò i limiti delle stagioni statunitensi

Presenza frequente, ma non sempre garantita presso il banco verde dei supermercati italiani, l’insalata icerberg è un tipo d’ingrediente che si tende a dare per scontato. Pratica, economica, venduta dentro il cellophane che sembra imprescindibile nella presentazione, laddove tanti altre derivazioni dell’antica Lactuca sativa albergano direttamente nei cassoni, o conservate nelle buste trasparenti con il logo del produttore. Sostanzialmente di un’utilità ridotta, nel suo caso particolare: poiché tra tutte le piante commestibili a foglia verde, non c’è n’è una che possa dirsi di capace di resistere all’accumularsi cronologico dei giorni più di questa, a partire da quel periodo fatidico del Natale del 1928, quando un treno lungo quasi un miglio partì da Santa Cruz, nello stato della California, per distribuire a decine di migliaia di americani un prodotto impossibile, l’enigma della verdura fogliosa in inverno. Dopo settimane e lunghi mesi di patate, conserve e sottaceti, colorando di un pazzesco senso di rivalsa contro le incombenti imposizioni del calendario. Perché, come e soprattutto chi aveva fatto il miracolo, stavolta? Gli articoli di giornale puntarono con entusiasmo il dito verso l’industria W. Atlee Burpee & Co. con sede a Warminster, Pennsylvania, che aveva reintrodotto la varietà a partire dal catalogo dei semi originariamente importati dai coloni del Nuovo Mondo. Con teorie che vedono risalire l’iceberg salad, come fu chiamata commercialmente, all’antichità del Caucaso e successivamente, l’intera regione del Mediterraneo. Come una forma superiore della pianta sacra all’epoca dei faraoni, quando veniva usata per preparare un olio con qualità afrodisiache ed altrettanto utile durante il processo di mummificazione. Non che all’epoca, effettivamente, l’avreste riconosciuta, visto il gambo ricoperto di spine grondanti resina lattiginosa (da cui il nome) e l’assenza pressoché totale di una “rosetta” centrale di foglie, oggi caratteristica fondamentale delle sue molteplici varietà. Mentre per quanto riguarda l’effettiva origine dell’appellativo contemporaneo, vi sono molte ipotesi, a partire da quella che il blocco di ghiaccio in questione, come in un’inversione del disastro del Titanic d’inizio secolo, fosse quello contenuto nei lunghissimi convogli ferroviari al fine di prolungarne l’effettiva commestibilità, pari a fino 1.000 tonnellate complessive di materiale. Laddove un’interpretazione maggiormente poetica della questione, attribuita alla figura dell’altro pioniere della Western Growers Association, Henry P. Grain, vedeva la denominazione scaturire dalla maniera in cui le sommità di ciascun vegetale, bianche sotto il sole mattutino, riuscissero riflettere la luce per l’effetto della rugiada, assomigliando ad altrettante isole galleggianti dei mari circumpolari terrestri. Entrambe storie, sia ben chiaro, attentamente costruite ad arte per alimentare la leggenda, di un prodotto che cadde immediatamente nell’insieme dei potenti risultati della scienza, capaci di cambiare il mondo e il nostro stile di vita. Almeno prima che i miglioramenti dei trasporti, l’implementazione di processi produttivi efficienti e l’invenzione di celle frigorifere migliori rendessero l’eccezionale, una pura e semplice regola del quotidiano…

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Se i pesci non volano in California, chi appende reti da traino alle querce?

Nei pomeriggi umidi d’inverno, una vista estremamente comune: l’agile ungulato della foresta, cervo incoronato del suo palco, si alza con facilità sulle zampe posteriori. Allunga il collo e punta il muso, con la precisione millimetrica che nasce dall’esperienza, verso un singolare tipo di ornamento del proprio ambiente. Dal nostro punto di vista svantaggiato in pratica… Una tenda, ma sfrangiata e perforata in più punti, finché il cacciatore o l’escursionista, interessati ad una scena che potrebbero conoscere piuttosto bene, si avvicinano a indentificare l’eminente forma vegetativa del cosiddetto “muschio spagnolo”. Che non è muschio e neppure spagnolo, come anche la pianta che condivide tale nome nella parte meridionale degli Stati Uniti, in realtà un’epifita dello stesso ordine dei cultivar dell’ananas creati e coltivati dall’uomo. Ma è proprio in tale bisogno di appoggiarsi a un albero madre, che le somiglianze biologiche tra i due esseri fogliosi si esauriscono in modo totalizzante, visto come il verde oggetto dalla nostra trattazione odierna appartenga, piuttosto, alla complessa e stratificata categoria dei licheni. Che non possiedono neppure un singolo regno d’appartenenza, essendo una combinazione collaborativa, al minimo, di un’alga ed un fungo. Come nel caso del qui presente, strano ed elegante Ramalina menziesii, a sua volta risultanza di un non meglio specificato tipo di Cholorphyta fotosensibile, ed il chitinoso corpo dell’Ascomyceta. In questo caso combinati e potenziati da un’aspetto idoneo a pendere dai rami degli arbusti, dove guadagnano un qualche tipo di protezione dalle fauci degli erbivori affamati. Dal punto di vista morfologico dunque, ed al contrario di quanto si potrebbe pensare, il lichene cosiddetto a “merletto” o “rete da pesca” appartiene alla macrocategoria di quelli fruticosi, come esemplificato dai piccoli organi riproduttivi che si manifestano nel punto più alto, esteriormente simili a dei calici per il vino. Una conclusione raggiunta in tempi odierni e dopo lunghe disquisizioni, visto come tali esseri abbiano lasciato per lungo tempo gli studiosi in posizione di perplessità latente. Poiché erano in molti a pensare, con ragionevoli e apparenti giustificazioni, che una presenza vegetale abbarbicata ai rami di un’altra dovesse fondamentalmente trarne un qualche tipo di vantaggio a beneficio della controparte. Piuttosto che il proficuo mutualismo che tende a manifestarsi in questo e molti altri casi simili, cementato grazie alla maniera in cui l’essere simbiotico non possiede, semplicemente, alcun tipo di radice né il bisogno di sostanze nutritive evidenti. Traendo tutta l’energia necessaria a crescere e iniziare il processo riproduttivo dal sole e dall’aria, ragion per cui esseri come questi possono esistere unicamente dove il clima è limpido e manchino particolari agenti inquinanti. Il che parrebbe aver affascinato i suoi vicini umani a tal punto, da essere nominato nel 2015 “lichene di stato” della California, con decreto specifico e lungamente richiesto al governatore Jerry Brown. Sulla base di vari criteri tra cui, primo tra tutti, la sua elevata e pressoché sicura possibilità di essere identificato dai non iniziati…

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Dai diari della zucca, il più efficiente metodo per srotolare un calabash

Nell’odierna comunicazione digitalizzata, culmine dell’intrattenimento e costruzione di svariati stereotipi nazionali, siamo stati ultimamente abituati a concepire questi luoghi come poli dell’ingegno pratico e l’umana capacità d’improvvisare. La Cina rurale: una terra semi-leggendaria dove il tempo non ha dato luogo ad alcuna concretizzazione dei moderni metodi, almeno nella misura in grado di riuscire a sovrascrivere gli ereditati metodi e le antiche aspettative, in merito a ciò che può costituire un filo ininterrotto e imprescindibilmente risolutivo. Così quando un veterano delle tipiche verdure, con il suo apprendista e seguace, erige un marchingegno dotato di manovella nella piazza principale del villaggio, sarà meglio che iniziate ad aspettarvi fuochi d’artificio, gente! Poiché è allora che le immagini si tingono del pigmento pratico dell’invenzione. Sfociando dai cunicoli di un risultato che possiamo definire, a pieno titolo, eccelso. Avrete certamente visto e al tempo stesso commento in precedenza, d’altra parte, l’acquisita tecnica per processare la cosiddetta cocozza. Zucca bottiglia, zucca a fiasco, zucca per portare il vino, tutte metodologie d’impiego che potrebbero trovare, in linea di principio, l’effettiva messa in opera mediante l’utilizzo di un siffatto marchingegno tornitore. Se non che dopo il primo passaggio, consistente nella rotazione sistematica mentre una lama manuale erode la buccia smeraldina del prodotto della terra coltivata, i margini d’errore per un simile obiettivo iniziano a farsi davvero contenuti. E d’altra parte, non è forse verso che la parte maggiormente resistente è proprio quell’involucro prodotto dalla natura? Ma alla seconda, terza e quarta rotazione, ormai la forma della zucca è totalmente cambiata. Non c’è più l’aspetto di un contenitore a dominare queste immagini, bensì quello di un torsolo di mela o pera sovradimensionate. E ben presto, neanche più quello. Gira e rigira, la tangibile cucurbitacea è sparita. Al suo posto, una montagna di stelle filanti.
È la fondamentale versatilità di un simile ingrediente, che noi siamo in grado di svuotare del suo contenuto per minestre o condimenti. Per poi esporre quella forma ad “otto” o “caciocavallo” sulle mensole, a pratico memento dell’abilità scultorea delle vivide immanenze vegetali. Laddove giù nell’Asia, partendo dall’India e fino alle distanti coste Giapponesi, ogni parte della zucca può essere mangiata con la singola eccezione del picciolo. In una forma pratica e assolutamente ricorrente in plurime culture di questo mondo: spaghetti, tagliatelle, strisce di verdura pronte ad assorbire il sapore. Il risultato, pronto per la tavola, del gioco di prestigio finale…

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Il lago delle isole fluttuanti, baluardo di un ecosistema unico al mondo

Visioni di un pianeta Terra misterioso ed antico, primordiale nei fattori della propria genesi e da un certo punto di vista trasversale, ancora affine all’epoca di una siffatta fondazione. Così remota: a tal punto differente, dalle cognizioni di cui disponiamo in materia paesaggistica, da mancare di una netta distinzione tra i due territori contrapposti di “lago” e “pianura”. Il che potrebbe dare luogo, nella nostra mente, alla visione prototipica di un qualche tipo di palude. Il risulterebbe in qualche misura corretto, da un punto di vista meramente nozionistico, benché l’effettiva somiglianza scenografica del lago Loktak dello stato indiano del Nord-Est di Manipur con linee guida di siffatta natura sia possibilmente limitata dall’aspetto osservabile dell’evidenza. Di un ammasso d’acqua letteralmente disseminato d’erba, intrecciata e aggrovigliata al punto da formare delle zolle galleggianti che in lingua locale prendono il nome di phumdi. Sopra le quali sorgono cespugli, siepi e in qualche caso, addirittura, dei piccoli arbusti. Per non parlare delle capanne costruite dalla gente di comunità locali, da utilizzare come luoghi di stoccaggio per la pesca o in casi limite delle vere e proprie abitazioni, complete di ogni comfort fatta eccezione per quelli che derivano dall’allaccio ad una rete dell’odierna infrastruttura urbanizzata. Ma è soltanto se si sposta il proprio punto di vista da una posizione sopraelevata, mediante riprese satellitari, fotografia aerea o l’utilizzo di un pratico drone a comando remoto, che l’effettiva portata eccezionale della scena appare in tutta la propria geometrica magnificenza; di un affascinante susseguirsi di rettangoli, quadrati e cerchi in apparenza inanellati, ciascuno corrispondente ad un athaphum o pratica piattaforma artificiale, creata utilizzando la stessa modalità messa in opera dalla natura stessa con finalità primariamente dedicate alla piscicultura. Un concetto non così dissimile, da un certo punto di vista concettuale, da quello di un polder olandese, ma con un’importante, significativo punto di distinzione: il fatto di essere a tutti gli effetti vivo e vegeto, in ciascun singolo elemento costitutivo del suo insieme fluttuante.
Il che tende a implicare, per questo intero specchio d’acqua che è in certe stagioni anche il lago più ampio dell’India settentrionale vista la sua estensione massima di fino a 500 Km quadrati, un certo aspetto incline a mutare progressivamente nel tempo, così come allo stesso modo avviene a causa della quantità d’acqua variabile portata dai suoi numerosi affluenti, tra cui spiccano i fiumi Nambul, Yangoi, Nambol e Thongjaorok. In un ciclo annuale e ripetuto un tempo giudicato irrinunciabile, poiché permetteva ai phumdi ed athaphum di poggiare periodicamente sul fondale umido del lago, estraendone sostanze nutritive necessarie a garantire una proficua crescita della propria materia vegetale di costituzione più eminente. Almeno finché la costruzione di una serie di dighe idroelettriche sul percorso dei suoi fondamentali effluenti, tra cui le barriere dell’Imphal e del Sekmai, ha modificato profondamente gli equilibri necessari a garantire la sopravvivenza immutata di un così unico momento del paesaggio prolungato nel tempo. Assieme ad altri fattori che potrebbero sembrare, superficialmente, del tutto al di fuori del controllo umano. Ma sono, in realtà, tutt’altro…

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