L’azione tipica di un drone è ormai davvero chiara agli occhi, come alle orecchie, di chi sperimenti quotidianamente i video del suo sfarfallare: sollevarsi gradualmente, sorvegliare un’area, producendo un suono che sarebbe un po’ come il verso di una zanzara, almeno se quest’ultima pesasse un paio di 600 grammi e non avesse quindi l’obbligo di mantenere un velo di silenzio. Quanto spesso, nell’ultima ripresa aerea di una valle verdeggiante, di una spiaggia assolata, delle pecore in Nuova Zelanda che vagheggiano sui prati sconfinati, l’unico aspetto auditivo che ci viene riservato è il galoppare di una dolce musica di sottofondo, rilassante quanto vagamente…Incolore. Perché chiaramente, l’alternativa sarebbe: ZZZZzzzzZZZZzzzzZZZZ […] Bello si, però decisamente inappropriato. Chissà che non sia stata proprio questa la ragione teorica dell’originale scelta della HEIGHT TECH GmbH & Co. KG, azienda tedesca produttrice di esacotteri con agganci per montare videocamere professionali, che aveva deciso di mostrare il proprio ultimo prodotto non nei soliti contesti naturali, bensì all’interno della cosa più vicina agli Inferi si questa Terra: la sala principale di un forno elettrico a fusione, dove si separano gli uomini veri dagli stipendiati, così come le scorie ferrose dal metallo carbonifero, linfa vitale dell’industria odierna. Fuoco, scintille e un gran rimbombo clamoroso, eclatante, marasma della sordità incipiente. Ecco forse, ripensandoci, saranno meglio le note di un crescendo armonico tradizionale. E poi, ci sono da considerare le aspettative di genere. Agli effetti sonori, pensateci voi.
Perché forse, rassicurati dal concetto classico secondo cui l’elettricità artificiale sia condotta attraverso il metallo, ma non il legno o gli altri materiali, davvero non possiamo già renderci conto del fragore che risulta dall’arco elettrico di una fornace; se non grazie a un parallelo prettamente metereologico: vedi quel fulmine con lampo e tuono. Tre fenomeni diversi eppure strettamente collegati. In effetti, risultanti dalla stessa contingenza naturale: l’elettricità accumulata negli strati elettrici dell’atmosfera che ad un certo punto tràcima dal suo vaso (di Pandora) e corre con sonoro botto fino al suolo, distruggendo ciò che trova lungo il suo percorso (aerei, alberi, persone, ovini, bovini…) Ciò detto va considerato come, dopo tutto, persino la folgore di Zeus non sia che una scintilla, benché grande quanto il vasto cielo. Questo perché consta si, di un potenziale elettrico tale da ionizzare addirittura 2 Km di pura aria, rendendola conduttiva, ma dura solo una manciata d’attimi immanenti. Mentre un arco artificialmente prodotto vedi la fornace, quello può prolungarsi all’infinito. O almeno finché la rete elettrica locale sarà in grado di rifornire il suo trasformatore certificato per un massimo di 60,000,000 volt-amperes. Il quale tempo tecnico, in effetti, è molto meno lungo dell’eterno incedere delle stagioni nonché, niente affatto stranamente, limitato alle ore buie, quando le compagnie elettriche alzano le soglie di consumo, abbassando parimenti le tariffe offerte ai loro clienti preferiti.
Il grande drone sorvolava, quindi, questa sala illuminata dalle fiamme di un processo tanto eccezionale, eppure stranamente quotidiano in molti dei paesi più industrializzati al mondo, incluso il nostro. Se uno qualunque degli operatori, distratto dal suo delicato compito di giornata, avesse guardato verso l’alto per un singolo momento, avrebbe visto questa vespa ingegneristica guidata da remoto, con un moto significativo di sorpresa! L’oggetto del telecomando era diventato, per la prima volta dalla sua costruzione, totalmente stealth: chi lo sente sopra il suono di un piccolo tuono, però lungo dal tramonto all’alba, punteggiato dalla sferragliante aggiunta di rottami da fluidificare verso il passo di rinascite future….
tecnologia
PL-01, un carro armato che aspira all’invisibilità
Un veicolo estremamente innovativo, nero e opaco, che fuoriesce dal deposito verso la prima e forse più importante delle sue battaglie. Secondo molti, lo ricorderemo così: mentre veniva pilotato fino agli autotrasportatori designati, oppure perché no, direttamente presso la sua piattaforma di esposizione dell’ultimo MSPO (International Defence Industry Exhibition) grande fiera polacca di settore, usata ormai da anni per presentare le ultime novità europee in materia di mezzi da combattimento militari. Quanto è cambiato il mondo, dal termine della passata guerra fredda! Così come avviene nel regno dei consumatori, l’industria della difesa è ormai connotata dai flussi e le discipline del libero mercato, all’interno del quale non è più importante poter disporre di un’arma esclusiva, quanto vendere la stessa cosa a quanti più possibili alleati potenziali, affinché una futura azione di concerto possa funzionare nella maniera più fluida ed efficiente. E sia ben chiaro: stiamo parlando soprattutto di esercitazioni. Nessuno conosce in realtà il futuro, ma la storia ci ha insegnato che la corsa agli armamenti è un gesto alquanto futile, visto il trasformarsi imprevedibile dei presupposti di battaglia. Tranne che nel caso in cui, per l’iniziativa particolarmente ben riuscita di un’intera generazione di progettisti, si riesca a prevedere il tipo di minacce emergenti sulle strade degli scontri armati, schierate successivamente dall’ennesimo e indesiderabile avversario. Facendo un passo avanti, due indietro e anche incredibilmente, tre di lato.
Occorre guardare le cose da lontano. Dato che il carro armato, nello schema odierno delle cose, viene considerato l’evoluzione del concetto di cavalleria, potrebbe risultare particolarmente utile un parallelo storico, relativo alle caratteristiche della tipica armatura medievale a piastre. In principio, la caratteristica più ricercata era lo spessore, aumentato gradualmente grazie alle migliorie tecniche nel campo della metallurgia. Il partecipante ad una carica guerresca del periodo tardo, nello spronare il suo destriero innanzi, poteva contare su di una barriera essenzialmente impenetrabile ai colpi di un fante nemico, fossero questi vibrati con la spada, l’ascia oppure addirittura quell’arma concepita appositamente per fermarlo, la lancia lunga tanto spesso puntellata a terra. Ma basta fare un fast forward di qualche secolo, successivo all’invenzione delle armi da fuoco efficaci in quanto tali (tra cui non può davvero annoverarsi l’archibugio) per trovare una situazione totalmente ribaltata. Ecco sparire tutto quel metallo a vantaggio di semplici uniformi variopinte, vedi ad esempio quelle associate alle guerre napoleoniche, concepite esclusivamente a scopo di aggregazione collettiva ed a vantaggio dell’immagine di ciascuna armata nazionale. Era terminata l’epoca in cui si poteva pensare di sopravvivere a un colpo diretto del nemico, e paradossalmente, si tornava allo stato originario di una sola tenuta soldato, invariabile dal punto di vista funzionale. Ed è proprio questa la situazione che stiamo vivendo, ormai da diverse decadi, nel campo dei mezzi militari per il fuoco diretto, quelli che comunemente definiamo carri armati.
Se si guarda indietro fino all’inizio della seconda guerra mondiale, il conflitto attraverso il quale si è consolidato il valore tattico di questo temutissimo implemento veicolare, appare chiaro un processo di sublimazione di quelli che erano stati in origine un’ampia gamma di elementi paralleli: il Matilda inglese, il Panzer 2 tedesco, il T-26 russo erano macchine che si aggiravano sulla decina di tonnellate, pensate per assolvere a più ruoli. Dominate dalla presenza egualmente primaria di due armi, un cannone di grosso calibro e l’irrinunciabile mitragliatrice, dovevano irrompere sul campo di battaglia soprattutto per lo scopo di superare le fortificazioni pre-esistenti, inibendo successivamente il contrattacco del nemico. Fu soltanto successivamente, attraverso scoperte tattiche anche in parte accidentali, che si scoprì come fosse possibile privare l’esercito nemico di questo stesso formidabile vantaggio operativo. Occorreva disporre di un veicolo per acquisire la superiorità tipologica, e tale veicolo fu il carro pesante. Viene spesso citato, nei testi del ramo, l’effetto che ebbe sulla storia militare la messa in opera nel 1940 dei primi carri KV (Kliment Voroshilov) dell’Unione Sovietica, oltre quaranta tonnellate d’armatura impenetrabile ed un cannone di fino a 110 mm di calibro. Strumenti del tutto impervi alle armi montate dai loro predecessori, nonhé in grado di distruggerli senza fatica e che potevano quindi essere contrastati solo tramite un approccio ancora non scoperto. Ciò che seguì, nei cupi anni successivi, fu una vera diaspora di stili progettuali. Mentre la Germania produceva i suoi iconici Tiger e Tiger 2, le altre nazioni reagirono con bassi e rapidi caccia-carri, privi di torretta, con profilo basso e quindi più difficili da contrastare. Nel frattempo, i mezzi corazzati che venivano considerati più desiderabili erano quelli ai lati estremi dello spettro: piccoli e veloci, in grado di sfuggire all’occhio del nemico, oppure giganteschi superpesanti, come lo sperimentale ed ormai quasi leggendario Panzer VIII Maus, un veicolo che avrebbe pesato 122 tonnellate (circa il doppio di un moderno M1A4 Abrams).
Il vecchio concetto del carro universale era finito, mentre anche i precedenti medi, con i loro armamenti pesanti ma la corazzatura comparabile non prestazionale, finivano per assolvere ai dei ruoli attentamente definiti.
Gli uomini del Minnesota nelle loro folli macchine a pedali
Una bicicletta che fa i 160 Km/h? Un’automobile con il manubrio! Il veicolo dei sogni, per trovare una valida applicazione ai propri sforzi personali, risparmiando nel contempo dispendiose soste al benzinaio. È successo, è successo di nuovo, giusto mentre guardavamo altrove. Un altro aspirante imprenditore fatto fortunato sulla tortuosa via di Damasco che poi sarebbe, in termini meno Sauliani, quella tra la casa e il quotidiano luogo di lavoro. Il quale non contento di sognare, si è messo di buona lena per dare una forma a quell’idea. Per migliorare la questione degli spostamenti ripetuti che, se non proprio universale (non coinvolge direttamente gli animali del Mare, del Cielo e della Terra) si riconferma come assai diffuso tra le molti classi scaglionate dell’umana società; si la quattro-ruote-col-motore attuale sarà pure un grande bene, eppure non è un bene indeperibile all’incedere del tempo. Già si parla sussurrando preoccupati del potenziale esaurimento delle fonti fossili di carburante, mentre l’energia elettrica da sola e in quanto tale non prescinde dalla fondamentale problematica, ma piuttosto la trasporta lungo i fili fino alla centrale che produce quel caricamento. Brucia il bruciore, ruota l’attuatore… Che stiamo liberando, giorno dopo giorno, fra gli strata dell’ecosistema? Senza il quale nulla potremo infine diventare, tranne polvere nel vento, trasportata verso il cielo dei teologi di Tarso.
“Ecco” sembra dire l’ultimo creatore che si propone per attingere ai portafogli della collettività: “la mia umile proposta di un’approccio muscolare, la perfetta soluzione a tutte le fisime del nostro tempo.” Il suo nome è Rich Kronfeld e lui appartiene, almeno in linea di principio, a quell’intera classe di diseredati, gli oggi cinquantenni con addietro lunghe e splendide carriere, purtroppo fatte deragliare per mancanza di liquidità. Benché il suo campo operativo precedente, in effetti, fosse stato tutt’altro che usuale ed instabile per massima definizione. Assurto ai fasti della fama verso la fine degli anni ’90, costui aveva nei fatti già messo in pratica un’altra ottima, se meno futuribile creazione. Ovvero il programma della Tv locale di Minneapolis/St. Paul (la città, non il citato patrono degli scout) il cui titolo, Let’s Bowl, già evocava il rotolare delle palle verso la schiera dei birilli candidi, tra gags e lazzi di accompagnamento. A quei tempi l’inventore si faceva chiamare Wally Hotvedt e, con fare comico e sfacciato, si applicava nel condurre improbabili interviste ai giocatori. Il successo per passa parola della buffa trasmissione fu tale da riuscire a portarla, infine, fino all’attenzione degli executive della rete nazionale Comedy Central, che la trasmise per un certo periodo del 2001. Finché un giorno, all’improvviso, si concluse il sogno.
Cosa fare allora, se non costruire la prima vera automobile a pedali degli Stati Uniti e non ce ne voglia Fred Flintstone, coi suoi piedi consumati…
Questo liquido è il futuro della stampa tridimensionale
Strano, sibillino, surreale. Da una vasca di metallo emerge capovolta, dettagliata e ineccepibile, la riduzione color-fluo dell’arcinota Tour Eiffel. Giusto dall’altro ieri su di un palcoscenico gremito, la sua evocazione da una mera polla liquida, come Durlindana della scienza, sta già lanciando strali metamorfici a margine delle comuni aspettative sulla prototipazione-fatta-in-casa, quel processo futuribile ed innovativo che viene ad oggi definito stampa tridimensionale. Benché non abbia molto a che vedere con la tecnica inventata dal buon vecchio Gutenberg a suo tempo, tranne che l’effetto potenziale sulle regole del senso della società. L’intero reveal si presenta come uno strano sovvertimento della presentazione al pubblico di una novità tecnologica, che generalmente si svolge per gradi attentamente definiti, ovvero il lampo, il botto e poi la pioggia; mentre in questo nuovo temporale siamo a ancora a districare le innumerevoli implicazioni, palesate tutte assieme, all’improvviso, in un vortice che ha già cambiato gli orizzonti e le remote prospettive. Lunedì sera, come previsto da copione, il professor di chimica Joseph DeSimone, insegnante all’università di Stanford, è salito sul palco mobile della celebre serie di conferenze TED Talk, momentaneamente sito in quel di Vancouver, per parlare al mondo degli ultimi progressi fatti nel campo della nuova microindustria digitalizzata. Quello che il pubblico non si aspettava, e invero forse neanche una buona parte degli organizzatori, è stato il suo far fuoriuscire dal cilindro metaforico, oppur da sotto il telo tipico degli inventori, questo incredibile strumento. Un calderone senza eguali. Accompagnato dall’inevitabile seguito di una venture commerciale, nominata alquanto suggestivamente Carbon 3D.
E non è chiaro al momento in cui scrivo esattamente il perché (il video della presentazione non è stato ancora reso pubblico) né se l’idea azzeccata sia stata il frutto dell’inventore con la sua equipe, oppure il parto di uno dei giornalisti presenti all’occasione, ma l’oggetto è stato immediatamente abbinato ad un effetto speciale particolarmente celebre, tra i primi digitali ad aver fatto la storia del cinema di fantascienza: la maniera in cui l’attore Robert Patrick alias T-1000, nel film Terminator 2 – Judgement Day (1991, il tempo vola) poteva controllare il suo stato della materia fra le due prime alternative totalmente a piacimento, ad esempio rinascendo da una pozzanghera di metallo liquido dopo aver subito danni fisici anche considerevoli, tipo un paio di fucilate ad opera dello spietato Schwarzy. È un termine di paragone alquanto affascinante, innanzi tutto per la somiglianza estetica del processo, tramite il quale un liquido viene trasformato in forme solide riconoscibili, ma soprattutto per le immagini che evoca nella mente del pubblico, di un futuro tanto avanzato, nei fatti, da risultare quasi spaventoso. Una tecnologia così apparentemente priva di precedenti, quando arriva tanto all’improvviso, può in effetti suscitare un senso d’istintiva diffidenza, e già rimbalzano da un lato all’altro della blogosfera timide battute, del tipo: “Siamo sicuri che la stampante non possa riprodurre se stessa, sviluppando a un certo punto, per mera progressione quantistica, un’accenno di autocoscienza e…” Che la risposta giaccia all’altro capo della macchina del tempo, rivelazione certamente im-prevista di una prossima TED Talk?