Per chi è alla ricerca di un nuovo hobby. Per chi ha una mensola vuota sul camino. Per chi ha il giardino. E tempo, voglia, predisposizione, di accovacciarsi per raccogliere qualche manciata di comune vecchia terra, la cara polvere del suolo. Allo scopo di…Mettiamola in questo modo: nella perenne e articolata ricerca del perfetto manufatto decorativo, ovvero un oggetto degno della nostra ammirazione e spazio casalingo sopra i mobili, troppo ci lasciamo dirigere dal gusto e dalla concezione collettiva! Perché esistono parametri “oggettivi” come l’antichità, il valore dei materiali, la finezza estetica di quanto siamo a valutare. Ma non è forse vero che nell’epoca del puro ed assoluto soggettivismo (io, io, io nerd, io neet, otaku, surfista, vegano…) disponiamo ormai degli strumenti tipologici e mentali per trovare quello che ha importanza per noi, e porlo su di un piedistallo che tutto sovrasta? I giapponesi, dopo tutto, questo l’avevano in qualche maniera intuito. Ed è per questo che si erano industriati, fin da tempo immemore, ad insegnarlo alle loro più giovani generazioni. Passando attraverso, tra le tante cose, ad un’arte semplice, oppure gioco che dir si voglia, definito dello hikaru dorodango (光る泥だんご), letteralmente: lo gnocco splendente di fango. Oggi questa tecnica, diventata internazionale, viene insegnata al popolo di Internet da numerosi siti e portali dal vario grado di specializzazione, soprattutto in forza della sua relativa semplicità realizzativa, ma anche per la bellezza del prodotto finale, che si è potenzialmente dimostrato degno di trovare posto nel tokonoma (床の間) familiare, la nicchia al centro della stanza in cui si accoglie un ospite, dinnanzi ai più bei tesori della propria casa.
Il più famoso produttore occidentale di dorodango è senza dubbio Bruce Gardner di Albuquerque, nel New Mexico, che a partire dal 2002, a seguito della lettura di un articolo sulla cultura giapponese della rivista TATE, scritto da nientemeno che il famoso autore fantascientifico e saggista William Gibson, decise che avrebbe iniziato a vagare per i molti deserti sabbiosi del suo stato. Ritrovando, e quindi raccogliendo, i più diversi tipi di sabbie colorate per mettere in pratica la tecnica che consiste, essenzialmente, nel compattare quanto di dovuto, renderlo massimamente sferoidale, quindi procedere a una speciale tecnica di disidratazione e lucidatura, fino all’ottenimento di un qualcosa che sia, al tempo stesso, umile e perfetto. Qualità che Gibson, in effetti, nominava solamente di sfuggita, come tenue strumento metaforico per definire l’auto-isolamento delle nuove generazioni nipponiche. Nonché una vera dimostrazione terrena, se mai ce n’è stata una, dei meriti della meditazione e dello Zen. È tuttavia indubbio come da questo recente video del National Geographic, che mostra il fenomenale risultato del suo lavoro, sia difficile desumere alcun tipo d’informazione procedurale o effettivo segreto dell’artista. La terra, se semplicemente raccolta ed appallottolata, come potrete facilmente immaginare (o provare) non dimostra certo questa innata capacità di coesione e quindi, predisposizione alla lucidatura. Un approfondimento, dunque, viene reso estremamente necessario.
La moderna versione dello hikaru dorodango (nella pronuncia, è importante che la “h” iniziale sia aspirata) rinasce essenzialmente dagli studi e dalle pubblicazioni del professore di psicologia e ricercatore Fumio Kayo dell’Università di Kyoto, che nel 2001 pubblicò un famoso articolo sull’argomento. In cui egli narrava, in modo alquanto affascinante, del periodo trascorso collaborando con un asilo, all’interno del quale aveva interagito e giocato con i bambini, ritrovandosi a intraprendere, su precise istruzioni dell’insegnante, l’apparentemente semplice tecnica dello gnocco di fango. Scoprendo quasi subito come, per la mente dei giovani creatori, simili oggetti diventassero immediatamente preziosissimi, alla stregua di ninnoli acquistati a caro prezzo, e il modo in cui per ciascuno di loro, la propria creazione apparisse essenzialmente perfetta. Persino nel caso in cui essa fosse tutt’altro che tonda. Nonostante il duro impegno, tuttavia, il Prof. Kayo racconta di non essere riuscito, in un primo momento, a raggiungere la compatta lucentezza della palla creata dal suo collega locale, ricavandone un cruccio che l’avrebbe accompagnato fino al suo ritorno nel dipartimento all’università. Iniziò così un periodo di approfondito studio, da parte sua, completo di numerosi esperimenti e addirittura dell’impiego di un microscopio per studiare la superficie delle sfere, al fine di elaborare un metodo creativo delle migliori palle splendenti che non fosse più soltanto il frutto dell’istinto e dell’esperienza, ma che tutti potessero apprendere attraverso una serie di semplici passaggi. Tale sistema, ad oggi, risulta ancora ufficialmente pubblicato sul suo sito personale all’interno del portale dell’università…