Becco pesante, di un giallo elegante, per certi versi una banana volante

Non sarebbe stato di certo irragionevole identificare il maggiordomo e consigliere reale Zazu, personaggio del franchise “Il re leone” come un qualche tipo di uccello immaginario, caratterizzato da una serie di attributi in qualche modo rappresentativi dei pennuti africani: il grande becco, il colorito bluastro, i piedi arancioni e gli occhi tondi dalle vistose sopracciglia nere. Ed è soltanto colui che ben conosceva l’ecologia biologica dell’area subsahariana, con particolare attenzione a Kenya e Tanzania dove la narrazione probabilmente incontrava il suo svolgimento, a poter effettivamente ricondurre l’aspetto del variopinto soggetto ad una tipologia di creatura, ed invero l’intero genere da essa rappresentato, identificabile in italiano con il nome comune di buceretto o in latino Tockus, dei quali esistono differenti varietà. E sebbene Zazu sia rapportato convenzionalmente a quello dal becco rosso, la possibile somiglianza non devia in maniera troppo significativa neppure dalla specie denominata scientificamente Tockus leucomelas (letteralmente “bianco e nero”) tipico di Angola, Botswana e Namibia. Caratterizzato, come si può ben desumere dal diminutivo che lo identifica, da proporzioni relativamente piccole benché maggiori del cugino citato, questo uccello dal becco giallo misura nel complesso 48-60 cm, pari a quelli di un volatile medio-grande per gli standard europei. Incutendo un senso latente di minaccia ulteriormente accresciuto dall’aspetto non propriamente pacifico del suo principale implemento di nutrizione, curvo ed appuntito come una sorta di crudele scimitarra. Il che rientra nelle caratteristiche della nicchia ecologica da lui occupata, simile a quella del pur distante tucano sudamericano, capace di farne una creatura onnivora e particolarmente abile nel trovare fonti di cibo precedentemente inesplorate. Mentre perlustra il terreno ove si posa con il suo insolito modo di volare, consistente di tre battiti d’ala seguiti da una lunga planata, quindi altri tre e così via a seguire, in cerca d’insetti, scorpioni, piccoli mammiferi e qualsivoglia tipo di frutto caduto dagli alberi soprastanti, indipendentemente dal suo stato di maturazione. Tutto questo mentre fruga e ribalta il sostrato di foglie e terra facendo uso del suo minuzioso senso pratico, senza tuttavia mai mettersi effettivamente a scavare. Tutto questo senza deviazioni dal programma almeno fino al sopraggiungere della stagione delle piogge primaverili verso settembre-ottobre, quando raggiunta la stagione degli accoppiamenti il nostro amico si posiziona sui rami più alti, iniziando ad emettere un ripetuto e strombazzante richiamo. Mentre si estrinseca in occasionali giravolte ed aperture teatrali delle sue ali, confidando a ragione nel proprio fascino e naturale senso di distinzione, fino al puntuale arrivo della compagna pressoché identica, per livrea e dimensioni. Al che, facendo seguito al rapido processo d’accoppiamento, i due mettono in atto la loro strategia più sofisticata, relativa alla costruzione di un nido letteralmente inespugnabile da parte dei più persistenti tra i predatori. Proprio perché privo, piuttosto incredibilmente, di alcun tipo d’ingresso fatta eccezione per una minuscola fessura…

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L’effimera precarietà di chi tocca l’acqua con le ruote dell’aeroplano

Gli occhi lievemente lucidi e del tutto spalancati per l’ingente quantità di birra che aveva appena finito di trangugiare, il gioviale Oscar avvicinò le mani al fuoco, mentre assumeva un’espressione a metà tra il diabolico e l’entusiasta. Rivolgendo uno sguardo al suo pubblico eterogeneo, rivolse un breve cenno all’indirizzo della Luna, prima d’iniziare ancora una volta la disanima del suo racconto: “È la verità, vi dico. L’ho visto personalmente la scorsa estate, mentre mi trovavo sulle sponde del lago Santa Lucia. Con i coccodrilli che spalancavano la bocca spaventati, mentre un’intero stormo di fenicotteri tentava di eclissarsi alla velocità massima consentita dalle loro ali. La ragione di tutto questo? Un piccolo Piper giallo assolutamente privo di galleggianti, in prossimità dell’orizzonte, che si era progressivamente avvicinato all’acqua fino ad innalzare un’onda simile a quella del motoscafo. Un’eventualità apparentemente impossibile, finché non mi resi conto di quello che stava effettivamente succedendo: il pilota era letteralmente “atterrato” sull’acqua, che per buona misura era diventata rigida come la pista di un aeroporto! Strizzando gli occhi, allora, la vidi: la coppia di pneumatici anteriori del carrello d’atterraggio, parzialmente immersi sotto il pelo della superficie trasparente. Costui li stava, a tutti gli effetti, lavando…” Ci furono alcuni secondi di silenzio nell’accampamento di quell’affiatato gruppo d’amici, uniti da una passione di lunga data per il buon cibo e la storia dell’aviazione. Quindi una serpeggiante risata, progressivamente, si trasformò in un sonoro schiamazzo mentre i più vicini facevano a turno dargli pacche sulle spalle. Tutti conoscevano Oscar e la portata spesso improbabile delle sue storie. Senza nulla togliere alla chiara finalità di far divertire il prossimo, espresso con ogni singola fibra del suo modo di fare. Eppure una persona, in prossimità della tenda più vicina, lo stava scrutando con espressione intensa al candido risvolto di quei momenti. Circa una mezz’ora dopo, con la festa scemata e già diversi membri della congrega recatosi a riposare all’interno dei propri sacchi a pelo, Scully Levin lo avrebbe preso da parte, rivolgendogli una raffica di domande particolarmente impegnative. “Quanto credi che andasse veloce? L’aereo era parallelo al suolo? Aveva abbassato i flap? L’assetto ti sembrava stabile o veniva corretto di continuo?” Quasi come se veramente, la mattina successiva, l’esperto pilota tra i più vecchi membri del gruppo avesse maturato l’intenzione di tentare la stessa impresa.
Le cronache non riportano, in effetti, l’esatta data di questi eventi né l’orario in cui lo spericolato utilizzatore di velivoli avrebbe dato corpo al suo sogno di rendere un potenziale volo pindarico, tangibile ed impressionante verità. Appare ragionevole pensare d’altra parte che Levin abbia vissuto quest’esperienza attorno all’anno 2006, quando chiamando a se il gruppo affiatato della propria squadriglia acrobatica, i Flying Lions a bordo dei loro iconici Harvard col motore ad elica, decise di mettere in pratica la manovra dinnanzi a un pubblico riunito sulla sommità della diga Klipdrif, in prossimità di Potchefstroom. Siamo, come potrete forse aver già capito, nella parte settentrionale del Nord Africa, dove il pubblico apprezzamento per le più ineccepibili imprese compiute con mezzi volanti a motore è tale da aver permesso nelle ultime decadi la proliferazione di una notevole quantità di stormi privati ed autogestiti, estremamente competitivi nel contesto degli show di settore. Ed ogni novità possibile viene accolta, in genere, con considerevole entusiasmo collettivo…

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La maestosa bellezza ed il celato terrore delle cascate Murchison d’Uganda

Mentre venivano trasportati dalla placida corrente nella primavera del 1861, navigando oltre la regione di Gondokoro alla ricerca della fonte del Nilo Bianco, la coppia di esploratori Samuel e Florence Baker si trovò improvvisamente a udire un suono minaccioso. Come una mandria di bufali che provenendo da lontano, si avvicinava a una velocità crescente, infondendo nel terreno un senso di tremore ed instabilità che risultava percepibile persino dallo scafo di quel natante. Fermamente intenzionati a ritornare sani e salvi nella natìa Inghilterra, per poter narrare innanzi alla Regina l’enorme portata delle loro scoperte, i due scrutarono preoccupati l’orizzonte. E fu così che per un tempo sorprendentemente lungo, mancarono di notare il rischio serpeggiante che iniziava a palesarsi nel fiume stesso. Acque progressivamente più agitate, sovrapposte da uno strato d’increspature in un continuo stato di mutamento. Mentre gli argini iniziavano, in maniera progressiva, ad innalzarsi. Possibile che poco più avanti fosse situata una sezione di rapide, di cui nessuno degli abitanti indigeni, forse in mancanza delle giuste domande, si era preoccupato di metterli in guardia? Lui guardò a quel punto all’indirizzo l’amata consorte, esperta cavallerizza, cacciatrice, conoscitrice delle lingue Turca ed Arabo che si era totalmente rifiutata d’aspettarlo pazientemente in patria. Per cogliere all’interno dei suoi occhi la stessa improvvisa, acutissima realizzazione: “Ca…Cascate! All’erta!” Da un momento all’altro, senza soluzione di continuità, era giunto il momento d’impugnare i remi. E maneggiandoli con impeto tutt’altro che Vittoriano, pregare intensamente all’indirizzo di uno Spirito superiore.
I coniugi Baker ovviamente, accorgendosi per tempo del pericolo, sarebbero riusciti a scampare il disastro di quelle che essi stessi avrebbero in seguito battezzato cascate Murchison, in onore del presidente della Società Geologica di Londra. Un fato tutt’altro che scontato per coloro che si trovano a raggiungere tutt’ora, per imprudenza o un’eccessiva dose di coraggio, la particolare sezione fluviale del più lungo e celebre tra i fiumi della cosiddetta Africa Nera, dove i toponimi sembrano tendere immancabilmente ad allinearsi con gli appellativi della famiglia reale inglese (Lago Victoria, fiume Albert etc…) fatta eccezione per questo, altrettanto ripetuto in un’alta quantità di contesti geografici differenti: il Calderone del Diavolo. E mai un’associazione avrebbe mai potuto essere più corretta, vista la strettoia della gola ampia meno di 7 metri, in cui l’intero flusso di uno dei principali affluenti del corso d’acqua più lungo della Terra s’insinua prima di effettuare un salto di “appena” 43 metri, reso riflettente alla luce solare alla sommità da alcune intrusioni mineralogiche di scisti pelitici. Trasformandosi nell’evidente dimostrazione pratica e sfolgorante della nozione scientifica denominata principio di Bernoulli, per cui all’aumentare della pressione di un fluido non può fare a meno di subire un incremento anche la sua velocità complessiva. Il che consentiva allora come adesso, essenzialmente, al tale caratteristica del paesaggio di lasciar passare una quantità stimata di 300 metri cubi d’acqua al secondo fino all’ampio bacino sottostante. Sotto lo sguardo, stranamente disinteressato, d’ippopotami e coccodrilli.

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La realtà preistorica dei 16 reattori nucleari rimasti accessi per più di 100.000 anni

In un periodo poco successivo all’inizio del Proterozoico, corrispondente a circa 2.450 milioni di anni fa, i membri della più diffusa forma di vita decisero improvvisamente di averne avuto abbastanza. E stanchi di lottare, capsula e flagello, per ciascuna singola ora di sopravvivenza in un ambiente fondamentalmente ostile, iniziarono ad avvelenare la Terra. Incamerando quella stessa energia solare che gli aveva permesso di venire al mondo, impararono per tale fine a trasformarla, attraverso il processo della fotosintesi clorofilliana. Fu una catastrofe letteralmente priva di precedenti, nonché la fine drastica di un’Era. Poiché la restante parte dei microrganismi in grado di occupare l’atmosfera fino a quel momento, non solo non potevano processare l’ossigeno, ma risultavano del tutto incapaci di coesistere assieme ad esso. Morirono a miliardi, uno dopo l’altro, mentre i cianobatteri occupavano progressivamente ogni intercapedine finalmente libera del mondo. Cielo, Terra, Oceano e Sottosuolo. Finché alcuni di loro, entrando a far parte di una perfetta contingenza di fattori, avrebbero finito per accendere il riscaldamento.
Calore inusitato ed energia in quantità copiosa: la reazione nucleare controllata, tra tutte le scoperte scientifiche del Novecento, risulta essere una delle più potenzialmente influenti nel cambiare il corso presente e futuro della storia umana. Se non fosse per il gravoso problema di riuscire a smaltire le scorie radioattive che immancabilmente ne risultano, considerate come la perfetta rappresentazione materiale del concetto di karma, proprio perché nocive a qualsiasi livello immaginabile e per ogni singola forma di vita esistente. Eppure se prendiamo come esempio una qualsiasi stella, intesa come agglomerato di materia risultante dall’antica convergenza di una nebulosa, appare chiaro come in presenza di una forza gravitazionale sufficientemente significativa, la fissione del nucleo atomico sia un processo del tutto naturale e imprescindibile, letterale concausa della nostra stessa esistenza. Poiché questione largamente acclarata, risulta essere come in assenza di un simile sistema di riscaldamento nei confronti dell’eterno gelo cosmico risulti assai difficile che un qualsivoglia tipo di creatura possa nascere, gioire, moltiplicarsi. Quello che tuttavia nessuno aveva mai pensato, prima della scoperta nel 1972 dei reattori nucleari naturali situati sotto la miniera di Oklo, in Gabon, era che semplici esseri privi di raziocinio potessero essere all’origine di un similare tipo di processo, capace di anticipare “lievemente” l’opera scientifica di Enrico Fermi e i celebri ragazzi di via Panisperna.
Immaginate, dunque, l’improbabile realizzarsi di questa scena: il tecnico Bouzigues che impegnato in un’analisi noiosa e di routine con spettrografo sull’uranio estratto dai suoi colleghi rileva un’importante discrepanza. Caso vuole, infatti, che all’interno del prezioso minerale oggi processato prima di essere inserito nei reattori nucleari costruiti dall’uomo sussistano comunemente due tipologie d’isotopi: l’U-238 e 235. Il primo dei quali, sostanzialmente inoffensivo, tende naturalmente ad aumentare mentre sottrae neutroni alla controparte, vero toccasana per qualsiasi reazione nucleare artificiale, proprio perché incline a dare inizio alla serie di cause ed effetti che viene identificata comunemente con il termine di reazione a catena. Il che significa, in parole povere, che in ogni singolo campione di uranio di questo pianeta il rapporto tra i due isotopi dovrebbe essere costante, con un coefficiente nella nostra epoca pari a 0,7202%. Se non che i dati raccolti in tale casistica mostravano piuttosto un rapporto di 0,7171%, proprio come se qualcuno, o qualcosa, avesse precedentemente utilizzato quelle pietre, prime di rimetterle inspiegabilmente a centinaia di metri di profondità sotto la superficie della crosta terrestre…

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