Il grande condominio sperduto in mezzo ai ghiacci dell’Alaska

Whittier

Si chiama Whittier, come il suo ghiacciaio. Guarda questo luogo adesso, sergente: è perfetto. Un’intera comunità che vive sotto un’unico tetto, sita oltre chilometri di roccia e ghiaccio e neve. L’unico antidoto possibile, geograficamente parlando, contro il pericolo di un’invasione di terra dei sovietici, nel caso in cui dovesse riscaldarsi la più lunga e gelida di tutte le guerre. Remota, ma pur sempre alla portata delle nostre grandi navi. Strategicamente irrinunciabile, tatticamente imprescindibile. L’importanza dell’Alaska non può essere sopravvalutata! Ma il suo punto di forza, questo è tristemente chiaro, resta allo stesso tempo la sua principale debolezza. Come schierare truppe, piazzare fortificazioni, laddove non esistono le strade o piste di atterraggio… Se non…Via mare? Caricare grandi cargo in quel di San Francisco, Seattle, gli altri grandi centri della Costa Ovest, quindi navigare verso il vasto Nord per qualche giorno, fino a giungere tra i molti golfi sopra la Columbia Inglese, tanto simili, nell’aspetto frastagliato, alle inaccessibili coste di Norvegia. Con pochi, benché ottimi, punti di approdo! Fra tutti, la città di Anchorage, nella profonda insenatura di Cook. Il cui nome guarda caso è già un programma, se mai ce ne fosse stato bisogno. Oltre 280.000 abitanti, un porto eccezionale, vasti spazi e magazzini. Ma adesso pensaci un secondo, sergente, fallo con la mente del nemico. Come ormai sai molto bene, non siamo l’unica superpotenza armata di testate nucleari. E non è certo assai probabile che su esattamente 50 stati di cui due non contigui, l’Alaska e le Hawaii, i russi non abbiano riservato ALMENO un MISSILE per ciascun obiettivo rilevante. Quindi armiamoci, e parti…
Non è chiaro quando fosse stata presa la sorprendente decisione di costruire il Buckner Building ma sappiamo quando è stato completato: nel 1953, giusto quando Georg Dertinger, ministro degli esteri della Germania Est, veniva arrestato per aver fornito informazioni segrete alle spie del blocco occidentale. Assieme a tale monumentale edificio sorse un altro palazzo, assai più piccolo ma pur sempre alto 14 piani, le Begich Towers, collegato con un passaggio rigorosamente sotterraneo. Il piano originario ne prevedeva altri dieci simili, che tuttavia non furono mai portati a termine. Era questa l’epoca in cui nasceva un differente tipo di survivalismo, sotto il senso di minaccia costante di un’imminente apocalisse atomica internazionale. Tornava in auge il desiderio di sopravvivere isolati, solamente sulle proprie forze, e fu forse anche grazie a questo, fra le tante ragioni di supporto, che il governo degli Stati Uniti riuscì a trovare gli inquilini per il suo più bizzarro e inutile capolavoro. Il complesso di Buckner fu per lunghissimo tempo l’edificio più grande dell’Alaska, e per quanto ne sappiamo, ancora adesso può vantare una vasta gamma di record architettonici nazionali. Una realizzazione multi-funzionale che era al tempo stesso abitativa, ricreativa, medica, ristorativa. C’erano un poligono di tiro, una piscina, una libreria, persino un bowling.
Una visione perfettamente realizzata. Nessun satellite avrebbe potuto spiare i movimenti degli abitanti di Whittier, semplicemente perché loro non uscivano praticamente mai, mentre il porto cittadino, all’altro capo di una corposa striscia di terra, continuava a costituire una chiave di accesso alternativa alla regione, tanto più sicura e pratica della luminosa, rumorosa città di Anchorage. Finché nel 1964, appena 11 anni dopo la gloriosa fondazione, non giunse lo tsunami.

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100 cameriere giapponesi per un singolo pancake

100 maids

Qual’è il meglio, il non-plus-ultra? Una buona colazione cucinata secondo i crismi migliori delle pratiche civili, attentamente cotta sopra il fuoco: pancake, la frittella saporita. Ma il come certe volte supera il perché, fino alla perdita del senso della misura… Un giorno Genghis Khan, riposandosi dall’ultima delle sue terribili campagne militari, sorseggiava rumorosamente il suutei tsai nella sua splendida yurta, fatta con le pelli di duecento capre tibetane. D’un tratto, come colto da un’ispirazione, poggiò rumorosamente quella pesante tazza sopra il prezioso tavolo di legno zebrato, saccheggiato da una stazione di scambio sul Gandhara e ormai macchiato da mesi di schizzi di té lattiginoso. Scostate con gesto imperioso le due falde dell’ingresso, fece un passo sotto il sole e il vento delle steppe ormai quasi cangianti, al rischiararsi fervido dell’alba piena di opportunità. Quindi si voltò a sinistra: schiere di cavalli, colonne di fumo e i suoni contrastanti di quel vasto accampamento, archi, spade, lance e mazzafrusti che si scontrano tra loro. Guardando invece verso destra, incrociò lo sguardo un po’ perplesso di Ganzorig, la sua guardia personale: “Amico mio.” Disse il grande condottiero: “Qual’è, a tuo parere, il meglio della vita?” Spostando tutto il peso sopra il piede destro, poi quello sinistro, l’altro si accarezzò per una, due, tre, quattro volte la lunga barba. Infine,  spalancando gli occhi disse sorridendo: “Mio Khan! Le vaste pianure incontaminate, un cavallo rapido che risponda subito ai tuoi desideri, un falco sopra il polso da inviare a ghermire la tua preda!” Ma Genghis, dall’alto del suo metro e novanta, già scuoteva la testa in un turbine di ciocche fluenti: “No, per tutte le frecce acuminate!” Fece tonante: “È distruggere il nemico, vederlo strisciare ai tuoi piedi. Portargli via ogni ricchezza mentre ascolti il pianto sconsolato delle sue donne.” Un rivolo di saliva, assai probabilmente, a quel punto sottolineava il rictus maligno dei suoi occhi iniettati di sangue.
Soprassedendo sull’effettivo verificarsi di questo preoccupante aneddoto, narrato nel testo storiografico G.K: Emperor of All Men (Harold Lamb – 1936) e poi riutilizzato senza problemi particolari di adattamento nel film fantastico Conan il Barbaro diretto da John Milius (1982) è indubbio che tale citazione possa essere alquanto propedeutico ad una migliore comprensione, per inferenza, di uno dei più crudeli dominatori dell’epoca pre-moderna. Colui che fece sterminare, secondo stime relativamente accreditate, circa l’11% della popolazione mondiale, e che poi mise al mondo personalmente tanti figli da essere, ritengono gli stessi visionari bene informati, l’antenato di almeno uno su duecento di noi, doveva indubbiamente essere dotato di una certa tendenza al bipolarismo e agli strani vezzi del momento, quanto meno per metabolizzare tali e tante gesta sanguinarie. Indubbiamente, fu un uomo che sapeva godersi la vita, pur se ne spegneva molte, sulla punta spietata della sua incredibile ambizione.
Se oggi, ipoteticamente, dovessimo ispirarci a lui…. Goderci ogni momento come fosse l’ultimo, esaltare ogni sentimento: ridere come iene, piangere quanto le cascate di Hukou, meditare come la nube cinerea del vulcano di Nantai; quale sarebbe l’inizio della nostra giornata? Come esprimere, in un semplice momento, il desiderio incontenibile dell’uomo di affari, che sempre tende a dominare non soltanto la sua vita, ma il mondo stesso…

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La tecnica ad incastro dei carpentieri giapponesi

Incastro giapponese

Fino all’epoca moderna, col suo cemento e l’armatura impervia dell’acciaio architettonico, chi voleva costruire gli edifici per durare molto a lungo non aveva che una singola strada percorribile: la messa in opera di ciò che il mondo  naturale ci offre come duro suolo, nella sua essenza materialistica più persistente. Roccia e pietra, pelle di pianeta, una sottile scorza estratta con fatica e quindi fatta a pezzi, ritagliata nella forma modulare delle pietre di castelli e cattedrali. Con l’incedere delle soluzioni migliorate, al giro dei secoli di molte costruzioni, tale pratica raggiunse l’assoluta perfezione. Così mattoni, l’uno sopra all’altro e calce per tenerli insieme, come i rigidi pilastri duri quanto querce millenarie. Non certo, letterali?
Il grande santuario di Ise sorge nella prefettura di Mie, in Giappone fin da quando Yamatohime-no-mikoto, la figlia dell’Imperatore Suinin udì la voce della sua antenata divina, sommo spirito del Sole, Amaterasu-ōmikami: “Questa terra è remota ed attraente. Voglio abitare qui.” Ciò avvenne, secondo quanto desumibile dalla cronistoria semi-mitica del Nihon Shoki, attorno al terzo secolo d.C. Per 20 anni, la principessa aveva viaggiato per il paese dalla sua residenza di Yamato, per trovare una montagna degna di una tale splendida eminenza, destinata ad essere per sempre sacra e venerata. Qualunque cosa fosse sorta in tale luogo, doveva raggiungere i posteri senza subire alterazioni. Non a caso, secondo la tradizione, proprio a questo tempio viene fatta risalire la nascita spontanea di un approccio nazionale alla costruzione di edifici, per la prima volta ben distinta dalle usanze provenienti dalla Cina e dalla Corea: pareti sottilissime, linee curve leggiadre ed aggraziate, nessun tipo di entasi o rastrematura sui pilastri e cornicioni estremamente pronunciati, a un punto tale che diventano verande. Il tetto, in questo tipo di architettura giapponese, è infatti un elemento dominante che raggiunge facilmente la metà di un edificio, quasi sempre di un solo piano. La separazione degli spazi è fluida o del tutto inesistente, con pannelli in carta di riso che possono essere spostati sulla base del bisogno; addirittura l’ambiente principale del tempio o della casa, se necessario, può essere aperto interamente agli elementi, per accogliere con entusiasmo gli ospiti e i visitatori. L’aspetto maggiormente significativo del santuario di Ise, e con esso di ogni altro tempio shintoista delle origini, è il suo essere fatto completamente in legno, senza l’ombra di un mattone o di una pietra. Secondo l’usanza religiosa, infatti, ogni 20 anni l’edificio deve essere demolito e ricostruito totalmente, onde procedere alla sua purificazione. Niente male, come modo per preservare le su tecniche realizzative, giusto?
E adesso viene il bello: fra quelle sante mure non si usano nemmeno i chiodi. In un paese ricoperto per il 70% di foreste, in cui i giacimenti di metalli resistenti sono sempre stati rari e poveri di quella componente carbonifera che consente di ottenere facilmente l’acciaio, tale approccio al fissaggio permanente degli elementi lignei non è mai stato concepito come logico, né pratico, né necessario. Pensate alla complessa forgiatura della spada giapponese, una sapiente commistione di diverse varietà di ferro, piegate e ripiegate su di loro: ecco, quello non era un semplice rituale culturale, ma l’unico modo disponibile per ottenere una tecnologia valida sui campi di battaglia, vista la natura scadente del materiale di partenza. E chi avrebbe mai avuto il tempo, di ripetere quei gesti, mille, centomila volte per ciascuna casa? La ruggine può far paura. Si usava quindi, piuttosto, un complesso sistema di incastri, definito sashimono, ovvero letteralmente “cose unite”. Un modo estremamente efficace di assemblare componenti, architravi ed anche pezzi di mobilia. Perché non solo i pezzi risultanti erano perfettamente solidi e funzionali, ma anche straordinari nell’estetica, tratto così fondamentale per gli ambienti abitabili di ogni paese.

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Coraggioso, il suo vulcano è un barbecue

Vanuatu 2

(Video completo dell’escursione a seguire nell’articolo) Non c’è niente di più rilassante che il campeggio. Quante cose, ci puoi fare! Ma fra tutte quelle attività di matrice anglosassone legate a tale contesto, c’è n’è una, in particolare, molto amata da grandi e piccini: la cottura a fuoco vivo del dolcissimo marshmallow. Il bianco cilindretto, tradizionalmente tratto dall’estratto mucillaginoso delle radici della pianta ornamentale Althaea officinalis ma che oggi, grazie alla tecnologia alimentare, è semplicemente frutto di zucchero gommoso e mescolato ad amido di mais. Ognuno ha la sua valida teoria d’impiego: lo puoi mangiare solamente un poco riscaldato, quasi crudo oppure cotto praticamente a puntino, finché non diventa di un caratteristico color marrone, possibilmente in mezzo a due biscotti e con un pezzettino di cioccolata – in questa forma esaltata, tale snack lo chiamano s’more. E c’è questa immagine esemplificativa, assai diffusa nel cinema per ragazzi o nei cartoni animati, di un qualche personaggio, tanto ansioso di assaggiare il primo bocconcino da prendere un bastone biforcuto dal terreno ed infilarci due, tre, dieci marshmallows, accostandoli con ingordigia al suo falò.
Perché il fuoco è uno stato d’animo, oltre che uno degli elementi del consorzio cosmico immanente. Quindi, di una persona davvero appassionata per qualcosa, si può dire che arde, brucia e che ribolle magma lavico nel suo cuore incandescente. Che nella sua fame, a forza di pensare, si stia lentamente trasformando in un vulcano? Il qui rappresentato Simon Turner, abitante di Christchurch in Nuova Zelanda e proprietario di una piccola compagnia aerea con sede nella libera Repubblica di Vanuatu, su quello stesso sentiero ha scelto una particolare scorciatoia, ulteriormente metamorfica ed energizzante. È infatti sceso e qui ne abbiamo la testimonianza, assieme al suo amico e cameraman specializzato Bradley Ambrose fino al fondo di uno dei crateri del monte Marum, sull’isola di Ambrym, a circa 1750 Km dal continente australiano. Dove le placche sommerse dei continenti, scontrandosi tra loro in mezzo al vasto nulla del Pacifico, si sono sollevate verso l’alto e, toh! È sbocciato un arcipelago, noto fino agli anni ’80 con il nome di Nuove Ebridi, fino all’ottenuta indipendenza dal colonialismo d’Occidente. Cos’è in fondo una terra emersa, se non il frutto di un conglomerato lavico che preme per uscire… Ma che in genere, non ci riesce. Salvo valide eccezioni, nella storia come nella geologia! Così. Non è davvero chiaro quale susseguirsi d’eventi, o particolare catena di ragionamento, abbia portato i due giovani scavezzacollo/i giù, giù nel buco frastagliato e poi avanti, fino al bordo sdrucciolevole di quella conca per estrarre dallo zaino, con gesto plateale, un lungo palo normalmente usato per la tenda (che però tenuto a quel modo, sembra più una canna da pesca). E allora ritroviamo Simon sul suo sgabello pieghevole, la bottiglia di birra nella mano sinistra, l’altra che tiene un lungo arnese e in fondo a quello, la perla bianca della sua merenda straordinaria. Chissà se avrà avuto una pazienza sufficiente per tirare fuori tutto il suo sapore…
Si vive nella costante cognizione che il contesto sia una parte del sapore. Pizza cotta a legna, oppure scongelata dentro al microonde: difficile affermare sia la stessa cosa. Eppure sarebbe possibile, dal punto di vista teorico, costruire un perfetto sistema di cottura innaturale, magari basato sull’effetto dei raggi fotonici o delle emissioni gamma-kryptonoidi (!) Talmente indistinguibile, nei risultati, da portare a chiudere qualunque sbocco di camino. Prepariamoci a criticare, da fedeli amanti della tradizione. La legna di quei forni non ha un ottimo sapore; non è dolce, né salata, non è umami e chiaramente, non si mangia per davvero. L’unico vantaggio che concede, per l’effetto di un’implicazione imprescindibile della termodinamica. è che sotto quella volta di mattoni refrattari offre un apporto termico davvero contingente e duraturo, in grado di fornire dei vantaggi utili a massimizzare il gusto della tipica nostrana. Una pizza, quando vera, pare infusa dello spirito vegetativo del mondo. In fondo cos’è l’alchimia, se non un tipo magico di associazione dei princìpi, come qualsiasi altro tipo di attività stregonesca, inclusa la cucina! Tonda e rossa, ricoperta di testimonianze ebullienti, croccantissima se vuoi. Proprio come piace a quel buontempone di John Frum. Come, chi è John Frum?

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