Nella tenebra incipiente del crespuscolo kenyota, il gruppo familiare del capo villaggio si trovava momentaneamente riunito nella grande capanna circolare, sotto il tetto di paglia e rami intrecciati. Non si usciva mai di sera, nell’aspro territorio di Kapsabet. Così dopo una giornata di lavoro intenso e caccia ai margini della savana, gli uomini del gruppo si trovavano nel centro dell’ambiente, discutendo sottovoce poco prima di coricarsi per il meritato riposo. Se non che un suono insistente, presso i margini della radura, destò di nuovo l’attenzione dei presenti all’indirizzo della zareba, l’ispessito, invalicabile recinto fatto con i rampicanti spinosi dell’Africa Orientale. Dove qualcuno, o qualcosa, pareva stesse penetrando in una sorta di battaglia, scardinando e schiacciando ai lati quell’impressionante barriera coltivata dall’uomo. Con alito tremante, una voce fuori dal silenzio “Possibile che…” Qualcuno diede voce all’impressione collettiva: “…Si tratti di lui?” Disse Aluoch il figlio dello stregone, con la mano già portata sull’impugnatura della lancia, la lama a foglia innestata sopra un lungo manico di legno. “Chemosit, Kerit, Ngoloko…” Si sentì ripetere il sussurro, dal capannello separato delle donne e gli anziani del gruppo, già inclini a stringersi l’un l’altro come bestie al macello. Mentre il battito dei singoli secondi sembrò prolungarsi all’infinito, tornò momentaneamente la pace. Appena il tempo necessario per un falso attimo di sicurezza, subito seguìto dal temuto suono rimbombante, di un’imponente creatura giunta sopra il tetto della casa lunga. “State pronti!” Disse allora il giovane condottiero, all’indirizzo dei cinque guerrieri armati adesso di mazze, clave ed altri simili implementi di battaglia. Qualcuno aveva addirittura un arco, apparentemente destinato a rivelarsi inutile nello spazio angusto dell’abitazione affollata. Ma Aluoch aveva un piano. Cinque, dodici secondi ancora, e con un tonfo impressionante, la copertura del tetto sembrò spalancarsi, mentre la forma di una zampa estremamente massiccia penetrava nello spazio fiocamente illuminato. Lui era qui: il terrore delle donne che andavano a lavare i panni al fiume. Lo spauracchio dei bambini in carne ed ossa. Il divoratore di… Cervelli, ogni qual volta gli riuscisse di afferrare un cranio da spezzare grazie all’uso dei suoi denti ed artigli. L’orso Nandi, come amavano chiamarlo i loro occasionali ospiti europei, cosiddetti “studiosi” della natura, penetrò dunque con la testa e le spalle, poco prima di cadere rovinosamente al suolo dal soffitto, ribaltandosi immediatamente sulle quattro zampe muscolose. Era alto, adesso, almeno due metri e benché non potesse alzarsi in piedi in quello spazio, lo riempiva come un’imponente immagine che preannunciava la fine del mondo. Occhi di brace, una bocca spalancata che sembrava emettere un tenuo lucore. E con un lampo appena percettibile, un gesto distratto, sufficiente a separare la testa dal collo del primo membro del gruppo coraggioso dei suoi oppositori. Aluoch sollevò allora l’arma, pronto a trattenere il mostro tutto il tempo necessario. Mentre il suo braccio destro, già lanciatosi fuori dalla finestra, già accendeva il fuoco purificatore che ardendo tutto quanto, avrebbe posto fine alla sanguinaria leggenda del gigante assassino…
teorie
Il tempio sul macigno che commemora l’arrivo nel Nuovo Mondo
L’uomo novantaquattrenne sulla sedia trasportata a braccio fino in spiaggia si sistemò brevemente la lunga barba bianca. Quindi con un guizzo improvviso di consapevolezza, indicò il punto designato e sembrò spostarsi fino al punto estremo della seduta, gridando con enfasi ai membri della sua congrega religiosa: “È lei, è lei! La vera roccia di paragone. Il sasso di volta dove nacque il sogno di questo paese, ovvero la libertà di tutti gli uomini di esser tutto quello che potevano diventare…”Doveva pesare all’incirca 9,1 tonnellate.
Per lungo, lunghissimo tempo scienziati, sociologi e professori si sono interrogati sull’effettiva ponderosità della storia. Invero era possibile, come paiono pensare alcuni, smontare il nostro passato, farne un commercio, atomizzarlo esponendone porzioni microscopiche all’interno d’innumerevoli musei ed istituzioni di varia natura? Oppure l’unica strada possibile è vedere le cose nel punto esatto in cui sono sempre state, come simbolo perfettamente tangibile di ciò che i nostri padri, e i padri dei loro padri, avevano pensato potesse rappresentare il culmine di un Grande Evento. O ancora i padri ovvero quel particolare gruppo di estremisti religiosi, avversi alle pesanti imposizioni della Chiesa Protestante, che nel 1620 salirono a bordo in 102 assieme ai 30 uomini dell’equipaggio del Mayflower, un piccolo veliero da trasporto o fluyt che avrebbero impiegato per attraversare l’Oceano Atlantico. Con l’obiettivo dichiarato di raggiungere la prima colonia americana di Jamestown in Virginia, se non che il tempo meteorologico, diversi contrattempi ed ostacoli sul loro tragitto, avrebbero finito per portarli in tutt’altro luogo: Capo Cod, Massachusetts. Presso quella che sarebbe diventata la colonia di Plymouth, secondo insediamento permanente nel territorio di quelli che sarebbero diventati un giorno gli Stati Uniti. Un luogo dai molti ricordi, oggigiorno, dove l’istituzione di un cosiddetto museo vivente commemora, dal 1947, la condizione attraverso i secoli dei nativi Patuxet, la cui alleanza ed il commercio sarebbero risultati cruciali per la sopravvivenza di questa gente, i loro figli e l’importante eredità che avevano costruito. E tutto a partire, almeno così si dice, dal momento in cui il primo di loro aveva posato il piede sul sacro granito Dedham di un macigno glaciale errante, collocato casualmente proprio nel punto in cui il primo di loro toccò terra, dopo aver firmato il documento destinato a diventare il Patto del Mayflower, il primo codice legale d’impronta democratica stilato in via specifica dai coloni di queste terre. Sasso destinato a diventare, dopo il suoi circa 600 milioni di totale indifferenza, un importante simbolo al punto da ricevere più volte significative attenzioni nel corso dei secoli a partire dal 1741, quando in un momento emblematico per la commemorazione storica statunitense, l’anziano Thomas Faunce dichiarò ad un pubblico gremito di averla riconosciuta nel congruo macigno che stava per essere seppellito, a causa della costruzione di un nuovo molo navale. Fino allo stato delle cose attuali, che la vedono chiusa all’interno di una gabbia aperta per un lato all’acqua di mare, sotto un tetto con colonne doriche che non sfigurerebbero in una ricostruzione del Partenone di Atene. Dopo tutto qui siamo in America, e non è certamente un caso se dall’altro lato della baia presso Provincetown, gli stessi pellegrini avrebbero ricevuto nel 1910 un monumento inaspettatamente identico alla torre del Mangia di Siena…
Il signore degli anelli sotterranei ed il maggior fallimento scientifico degli Stati Uniti
Chi è stato a costruire un massiccio complesso di uffici poco fuori la storica cittadina di Waxahachie, nel Texas settentrionale? Chi ha scavato in vari punti nei dintorni, attorno a depressioni e asperità del territorio, profonde voragini verso destinazioni ignote? E chi l’ha poi riempite con migliaia d’ettolitri di acqua, pompate in quello che parrebbe essere a tutti gli effetti un singolo ambiente interconnesso al di sotto delle aride distese del Gigante? Non proprio la controparte antropomorfa di questa metafora toponomastica, sinonimo del più vasto ed il secondo più popoloso tra i 52 stati nordamericani. A meno di voler attribuire tale termine in maniera figurativa, sulla base delle sue mansioni, all’uomo che siede a Washington all’interno dello studio ovale. Dove si costruiscono e distruggono, tra l’ora di colazione e il pranzo nelle sale della residenza, i destini degli uomini e delle nazioni. Oltre a quello, almeno in un singolo caso, dell’Universo stesso. O per meglio dire (facciamolo!) della nostra COMPRENSIONE, di quello stesso spaziotempo. Per il tramite del migliore e il solo metodo di cui possiamo disporre: far scontrare cose molto piccole, in maniera straordinariamente veloce.
Tutto ha inizio con l’elaborazione del cosiddetto Modello Standard, elaborato in varie fasi nel corso del XX secolo ad opera di grandi personalità della fisica come Steven Weinberg, Abdus Salam e Peter Higgs. L’idea secondo cui le interazioni basilari della materia fossero in un certo senso governate da tre forze (debole, forte ed elettromagnetica) e l’influenza reciproca di due tipologie di microparticelle: i quark ed i leptoni. Il che avrebbe presentato un problema non indifferente da risolvere, poiché le seconde risultavano essere, da ogni punto di vista concepibile, inizialmente prive di alcun tipo di massa. Da qui l’idea che potesse esistere un qualche tipo di meccanismo, ed un sostrato di entità ancor più minute, in grado di aggregarsi e trasferirvi in qualche modo la loro stessa essenza. Per tutti i loro validi contributi all’avanzamento delle scienze quantistiche a partire dagli anni ’50, tuttavia, i primi sincrotroni o acceleratori ad anello costruiti al mondo non riuscirono a provarne l’esistenza. Il problema di quello che avremmo infine conosciuto con il nome di bosone di Higgs o “particella divina” è che come ogni altro elemento fisico di tali infinitesimali dimensioni, esso non può essere osservato direttamente, ma soltanto tramite gli effetti che riesce ad avere sulla materia circostante. Ma a differenza della stragrande maggioranza delle sue controparti, le caratteristiche specifiche che lo definiscono tendono a richiedere per i relativi esperimenti una quantità di energia, e conseguenti risorse, assolutamente fuori da ogni scala ragionevole presunta. Ed è proprio questa la ragione per cui trasformare in comprovata verità la semplice teoria, elaborata dal 1964 dall’omonimo scienziato britannico, avrebbe richiesto un periodo di 48 anni fino al 2012, e l’impiego del più grande sincrotrone sotterraneo esistente: il Large Hadron Collider alias acceleratore di particelle del CERN di Ginevra. Ciò che non tutti sanno, tuttavia, perché nessuno ama parlarne, è che la stessa scoperta avrebbe potuto essere anticipata di oltre vent’anni. Se soltanto gli Stati Uniti avessero potuto fare affidamento sul massiccio complesso scientifico passato alla storia col bizzarro soprannome di Desertron. Massiccia opportunità perduta della storia, infusa del tipico linguaggio delle ucronie…
Inseguendo il sogno vittoriano di un buco magico tra le città distanti
È davvero straordinario in quanti e quali modi gli scrittori di fantascienza siano riusciti a prevedere l’andamento degli eventi futuri. Nelle grandi o nelle piccole cose, dall’esplorazione dello spazio alla costruzione dei primi robot, passando per l’ambito della tecnologia applicata al mondo delle telecomunicazioni. Così William Gibson, uno dei padri della corrente poetico-sociale del Cyberpunk, scriveva già nel 1999 American Acropolis (All Tomorrow’s Parties) il cui uno dei protagonisti della narrazione, dopo gli eventi dei precedenti romanzi, lavorava come guardia di sicurezza in un grande magazzino della catena “Lucky Dragon”. La quale presentava come marchio di fabbrica, oltre al logo titolare, uno schermo con videocamera interconnessa a dozzine di altri dei altri negozi identici dislocati in giro per il paese. Con l’immagine che passava ciclicamente dall’uno all’altro, onde evitare che venissero presi di mira dai “giovani desiderosi di praticare l’esibizionismo erotico” il che del resto non fermava il regolare utilizzo da parte della popolazione generalista di tale apparato al fine di un’ampia varietà di gesti osceni, indirizzati alle anonime controparti dell’altro lato. Spostandoci in avanti di 22 anni dunque, all’inaugurazione di qualcosa di assolutamente e sorprendentemente simile collocato in piazze molto trafficate delle due città di Lublino (Polonia) e Vilnius (Lituania) ci è possibile meravigliarci della quantità di commenti reperibili online, in cui il primo pensiero della gente di Internet sembra essere rivolto alla stessa forma di scurrile vandalismo tramite l’esposizione di natiche o l’immancabile organo genitale, simbolo per eccellenza della noncurante mascolinità dell’individuo contemporaneo. Difficile in effetti immaginare quanto spesso ciò possa essere successo, davvero, alla scultura/installazione artistica di Benediktas Gylys, titolare di una fondazione desiderosa di riavvicinare i due paesi dopo gli oltre due secoli trascorsi dall’ultima e definitiva spartizione del Commonwealth, per l’effetto di forze politiche non necessariamente rappresentative del plebiscito popolare o le aspettative di coloro che ne furono direttamente coinvolti. Dal che l’idea di una struttura di cemento dalla forma ad anello, direttamente e dichiaratamente ispirata all’inflazionato concetto fantascientifico dello Stargate, attraverso cui osservare i passanti che si trovano più o meno casualmente da ambo i lati, venendo in questo modo ripresi dalla telecamere ad alta definizione inserita nei basamenti delle insolite costruzioni. L’incipit perfetto per una perfetta storia d’amore alla ricerca di un/una sconosciuto/a, o il racconto giallo di un compiuto innanzi a un testimone accidentale che si trovava a circa 300 Km di distanza, benché l’eventualità nei fatti pratici una semplice versione sovradimensionata di un Chatrandom o Chatroulette spostata negli spazi pubblici appaia decisamente più calzante nello spazio dell’universo in cui si spostavano gli stessi personaggi immaginati da W. Gibson. Per non parlar dell’estendersi, in direzione cronologicamente anteriore, di un filo ininterrotto con la storia della tecnologia moderna, capace d’immaginare qualcosa di simile già pochissimi anni dopo l’invenzione brevettata del telefono nel 1876. Quando i giornali scrissero, anticipando decisamente i tempi, delle capacità praticamente magiche di un dispositivo battezzato come il telescopio elettrico, o più in breve, telectroscopio…