Ucraino dimostra i pericoli del microonde e del butano

Microwave Gun

Il concetto di genio intrappolato nella bottiglia non ha nulla di fantastico, per lo meno se inteso nel suo senso allegorico di fondo. Nelle nostre rassicuranti case, l’energia è costantemente imbrigliata e ridirezionata nello svolgimento di mansioni utili, attraverso dei sistemi che costituiscono la base del progresso. Ma basta talvolta una scintilla nel posto sbagliato, un guasto ad una presa di corrente, la rottura dello scarico di un lavandino, perché questa cornice ideale strappata alla natura si trasformi in un’avamposto dell’inferno sulla Terra, con il sistematico danneggiamento di ambienti, suppellettili ed ahimé, fin troppo spesso, persone. E non c’è nulla di più misterioso, e al tempo stesso potenzialmente deleterio, dell’ultimo strumento di cottura in ordine di tempo ad essere entrato nelle nostre stanze designate ai pasti, il cassone quadrangolare con due manovelle e qualche pulsante, che ha lo scopo di riscaldare il cibo usando l’interazione tra molecole e campi magnetici irradianti. Uno di quegli oggetti che furono, fin dalla commercializzazione negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, guardati al tempo stesso con totale meraviglia e diffidenza, troppo funzionali, ed utili, per essere privi di un ansiogeno rovescio della medaglia: cancro! Furono tutti pronti a gridare, in un’associazione che in realtà non nessuna base logica né fondamento. Altrimenti, del resto, difficilmente li useremmo ancora. Le radiazioni generate in uno di questi forni non sono in alcun modo ionizzianti, e quindi mai potrebbero interferire con la vita delle cellule del corpo umano. Se non, per l’appunto, cuocendole. A tale proposito, si prega di osservare questi video con un senso critico sufficiente a comprendere come si tratti di attività condotte da persone, se non proprio altamente qualificate, per lo meno coscienti di quello che stavano facendo, nonché attrezzate con contromisure relativamente ingegnose e valide per salvaguardarsi dall’effetto delle microonde. Qualsiasi tentativo di riprodurre i loro esperimenti sarebbe quindi, oltre che potenzialmente fallimentare e dispendioso, anche ESTREMAMENTE pericoloso, anche soltanto per l’alta tensione impiegata da questi dispositivi, che una volta staccati dalla rete restano potenzialmente funzionali in forza di un capiente condensatore. Più di un aspirante riparatore casalingo ha finito per restare fulminato a seguito dell’atto imprudente di aprire uno di questi dispositivi. Per non parlare degli effetti lesivi che le microonde possono avere sull’apparato di riproduzione maschile.
Lo stesso ambiente in cui si svolge l’azione contribuisce in larga parte a questo senso di estrema precarietà e pericolo latente: siamo infatti a Lugansk, nell’Ucraina Orientale, niente meno che durante i disordini e i venti di guerra che si andavano rafforzando esattamente a Novembre dell’anno scorso, a seguito dell’intervento russo per difendere ed annettere la penisola di Crimea. Nell’originale del video, pubblicato sul canale in lingua russa degli autori, era possibile udire addirittura dei colpi d’artiglieria in lontananza, mentre i due giovani aspiranti scienziati, che su Internet si fanno chiamare Kreosan, parevano del tutto noncuranti della grave situazione, trascinati com’erano dalla loro passione per ciò che stavano facendo. Questo montaggio degli esperimenti che avrebbero seguito il primo, finalmente proposto con commento in lingua inglese, è stato invece un prodotto relativamente recente, pubblicato su un secondo canale usato per sfruttare commercialmente il successo internazionale ottenuto nelle primissime battute di questa vera e propria follia procedurale. Il tutto inizia in maniera relativamente tranquilla, con il “portavoce” che smonta un forno descrivendone le caratteristiche. Questo dispositivo, afferma, ha una potenza che la gente ignora, risultando in grado di emettere onde radio comparabili a quelle di 10.000 router wi-fi, 5.000 cellulari o trenta torri per le telecomunicazioni. Un’affermazione comparativa oggettivamente corretta, ma che raramente ci si preoccupa di dimostrare (per ovvie ed ottime ragioni) come invece si apprestava a fare lui in quel particolare quanto atipico frangente. La situazione inizia molto presto a scaldarsi…

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Quando i tedeschi sognavano l’Isetta

Hoffmann car

Dalle profondità dei sotterranei del Museo Automobilistico di Lane, a Nashville, Tennessee, riemerge una creatura che l’intero mondo aveva già dimenticato: è la Hoffmann del ’51, questa che Jason Torchinsky del blog Jalopnik, parte del famoso network Gawker.com, ci dimostra nel primo episodio della sua nuova serie Jason Drives. E dopo che avrà portato a termine il suo giro di prova, bisogna riconoscerlo, nulla sarà ancora come prima. Nella comprensione di quante cose, davvero, possano andare per il verso sbagliato nella progettazione di un automobile. Nonché nell’attribuzione dei meriti di coloro che vennero subito dopo, Renzo Rivolta con la sua Iso di Milano, assieme ai progettisti Preti e Raggi. Perché in terra di Germania, come in Italia, Francia ed Inghilterra, nasceva in quegli anni del secondo dopoguerra un’esigenza nuova, di acquisire l’abilità di spostarsi su ruote senza scialacquare le proprie risorse finanziarie, sempre più scarse e preziose. E in molti, provenienti dagli strati sociali più diversi, tentarono di approcciarsi al problema con finalità di arricchimento personale, giungendo talvolta alla creazione di un prototipo, o una prima serie limitata di veicoli provenienti da qualche fabbrica in periferia, che poi piazzavano tra i propri vicini.  Ma questa macchina, frutto della mente e delle mani operose dell’omonimo ingegnere di Monaco (di cui Internet conosce il solo cognome, oltre all’altra iniziale, M.) resta tuttavia diversa da ogni altra prodotta nel suo tempo ed in effetti, della storia.Tre sole ruote, di cui quella posteriore si occupa di sterzare, per appena 340 Kg di carrozzeria spiovente in alluminio, dalla coppia di vistose prese d’aria per il radiatore, ma il cui retro rassomiglia stranamente al casco di un supereroe. Una forma che Jason descrive come “inadatta al corpo umano” mentre si contorce faticosamente, per fluire fino al posto del guidatore, dove procede nell’illustrarci le fenomenali meraviglie del veicolo: finestrini sollevabili grazie all’impiego di una striscia di cuoio, che veniva bloccata a mezza altezza grazie a perni verso la metà della coppia di sportelli. Un serbatoio posto in alto e dietro, con il condotto della benzina che, inspiegabilmente, passa dentro l’abitacolo, che a causa delle guarnizioni vecchie e consumate, inonda quest’ultimo di esalazioni maleodoranti e irrespirabili. La leva del cambio, sequenziale, che prevedeva intenzionalmente, una posizione intermedia tra ciascuna coppia di marce, corrispondente al folle (1-F-2-F-3-F…) senza nessun tipo di risposta tattile al passaggio dall’una all’altra condizione. Con conseguenze sull’effettiva guidabilità che vi lascio facilmente immaginare: durante il suo faticoso ma breve giro per il parcheggio del museo di Lane, un ex panificio, l’improbabile pilota rischia quasi di scontrarsi ben due volte, per non parlare del pericolo costante di cappottamento.
Il grande progettista Hoffman aveva ben pensato, infatti, di posizionare le tre ruote della sua automobile piuttosto lontane dai paraurti, con quella posteriore, in modo particolare, che sembra più che altro messa al centro esatto del veicolo, mentre l’abitacolo prosegue per un metro abbondante. Inoltre, e questo è forse l’aspetto più incredibile, alcuni pesanti componenti del motore si trovano montati su un’apposita parte del telaio che (per qualche ragione) sterza assieme alla ruota, inducendo un costante spostamento del baricentro da destra a sinistra, anche con il veicolo fermo. Alla fine, più che altro per appesantire il mezzo, l’inviato di Gawker finisce per fare il suo giro accompagnato da un addetto del museo, trasformatosi in zavorra umana per l’occasione, onde evitare conseguenze infauste quanto cupamente attese. Eppure questa strana creatura non fu probabilmente un pezzo unico, visto come da una rapida ricerca online se ne scopre almeno un altro esemplare al Microcar Museum di Madison, Georgia, oltre ad alcuni articoli che la confondono con un’altra trovata tedesca di quegli anni, la Hoffmann Auto-Kabine, in realtà l’opera di Jakob Oswald Hoffmann di Düsseldorf, che a questo àmbito dei trasporti ad uso personale scelse di dedicargli la vita e tutte le sue finanze, fino all’imprevisto finale del 1954. Ma ben prima che accadesse questo…
 

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Le navi tonde della vecchia Russia

Novgorod RC

Galleggiante nell’acqua di un laghetto, il modellino della cannoniera Novgorod appare quanto di più assurdo possa essere attrezzato per un pomeriggio coi radiocomandi. Con la forma esatta di un tappo di bottiglia sovradimensionato, che oscilla vistosamente per l’effetto di qualche lievissima folata di vento, mentre i pupazzetti sul ponte non fanno che aumentare l’effetto giocattolesco, quasi ridicolo nella sua improbabilità. Eppure, non solo è realmente esistita, ma ebbe anche due successori, costati verso la seconda metà del XIX secolo, rispettivamente, 3.260.000 rubli (cannoni esclusi) e 3.114.000 (arredi imperiali esclusi). Mentre lei, la prima e più famosa della serie, dal diametro di “soli” 30 metri, fu portata a termine con una spesa complessiva di 2.830.000 rubli, generosamente elargiti dallo zar Alessandro II, Imperatore e autocrate di tutte le Russie ad Andrei Alexandrovich Popov, ammiraglio della flotta e stimato progettista navale, di quelli che, per usare un eufemismo, mai si fecero condizionare dai preconcetti di settore. Un tratto che non gli rese affatto la vita facile, soprattutto all’epoca coéva, quando alcune delle sue creazioni maggiormente insolite furono definite a più riprese “le peggiori navi che abbiano solcato i mari”, benché vada specificato: tali critiche venivano principalmente dagli avversari politici internazionali, che certamente non vedevano di buon grado qualsiasi sforzo bellico mirato a metterli in difficoltà. Ne dissero tantissime: che le navi fossero troppo pesanti ed inguidabili, che nel mare mosso non riuscissero a curvare, addirittura che ogni volta che sparavano con uno dei loro poderosi cannoni, ruotassero di qualche grado, rendendo necessario un continuo lavoro di correzione della mira. Mentre le popovski, come vennero chiamate per antonomasia, sarebbero state delle navi perfettamente efficienti nel ruolo a cui erano state destinate, se non fosse (purtroppo o meno male) mancata l’occasione di metterle alla prova in battaglia, e soprattutto se nel terzo caso, dell’enorme yacht Livadia costruito per lo zar stesso, non fosse intercorsa l’improvvisa morte del sovrano nel 1881, a seguito dell’attentato bombarolo organizzato da un membro di San Pietroburgo della Narodnaya Volya, la “Volontà del Popolo”. Era un tempo di ferventi mutamenti, nella Grande Madre Russia, e la crescita storica di un’identità nazionale, come sempre è capitato, non può prescindere da alcuni significativi passi falsi. Siano questi gli assassinii politici, o strane avventure lungo i rami periferici dell’ingegneria bellica, destinate a non dare germogli o fiori di alcun tipo. L’ideatore del concetto, portato a coronamento poco più di 10 anni prima, era del resto stato un personaggio assolutamente degno di fiducia, nel suo senso d’iniziativa e l’eclettismo che l’aveva portato ad affidare l’esito della sua carriera, ed invero di una parte considerevole dell’opinione che i posteri avrebbero avuto di lui, a queste versioni galleggianti di una tazza da caffè, rigorosamente corazzata e pericolosa.
Stiamo parlando niente meno che dell’ammiraglio Popov: ufficiale di carriera fin dalla giovane età, nonché una figura del tutto affine al concetto, particolarmente familiare a noi italiani, di un vero eroe dei due mondi. Decorato veterano della guerra in Crimea (1853-1856) durante la quale aveva comandato l’incrociatore a vapore Meteor, raggiungendo la qualifica di addetto ai rifornimenti di munizioni a Sebastopoli, una città che poco tempo dopo sarebbe stata circondata e bombardata spietatamente dalle forze congiunte della Francia e Gran Bretagna, lo ritroviamo nel 1863, al comando di una squadra navale costruita secondo metodi convenzionali nell’oceano Pacifico, nel bel mezzo della guerra civile americana. E fu proprio allora che decise, con il beneplacito dello zar, d’intervenire a sostegno dell’Unione (i “nordisti”) che a loro volta avevano supportato politicamente la Russia durante la Rivolta di Gennaio, messa in atto dai secessionisti polacchi, lituani e bielorussi nel 1863. Occhio per occhio, dente per dente: non soltanto un modo di dire, ma il motto del sincero uomo di marina. Così egli approdò, nel giro di pochi mesi, presso il porto di San Francisco, con sei corvette e due clipper, facendo contribuire i suoi equipaggi allo sforzo collettivo di fortificare la città, che all’epoca temeva un’aggressione dell’esercito confederato. Si racconta anche che i suoi marinai, oltre a fondare la prima parrocchia ortodossa del vasto centro urbano, avessero contribuito a spegnere un grave incendio scoppiato di lì a poco. L’attacco dei nemici, invece, non giunse mai, probabilmente proprio in funzione dell’alone di protezione offerto dagli improbabili alleati provenienti dall’Eurasia. Nel 1836, Popov tornò in patria, guadagnandosi quel ruolo che avrebbe mantenuto fino al suo pensionamento, avvenuto oltre 30 anni dopo: l’inventore, o lo scienziato pazzo, se vogliamo, di nuovi approcci alla difesa delle acque confinanti del più vasto paese al mondo. Con progetti grandi, potenti e qualche volta, addirittura, tonde.

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Demolizioni delicate: senza polvere sparisce un grattacielo

Hotel Akasaka

Nel quartiere Chiyoda di Tokyo, in prossimità di un triangolo ideale che include gli edifici della Dieta nazionale (l’equivalente del nostro parlamento) la stazione di Nagatachō e lo stesso palazzo dell’Imperatore, la torre svettava maestosa, avveniristica ed ormai, del tutto priva di speranza. Frutto significativo di un periodo d’espansione economica incontrollata, gli anni ’80 della piena bolla economica giapponese, quando i soldi erano pressoché infiniti e chiaramente, i prezzi aumentavano di conseguenza. Soprattutto quelli degli immobili, l’oro preferito degli investitori. Così poteva succedere, improvvisamente, che il prestigioso Kitashirakawa Palace, l’hotel fondato all’interno di una residenza che una cinquantina d’anni prima era stata di Yi Un, principe in esilio di Corea, disponesse di risorse tali, ed un terreno sufficientemente spazioso, da iniziare a trasformarsi in grattacielo. Ma non uno come tutti gli altri, cubico e indefesso: bensì un edificio degno di lasciare il segno, progettato da niente meno che Kenzō Tange, uno dei massimi architetti dell’ultimo secolo trascorso. Il quale, già avviato verso gli ultimi anni della sua lunga carriera (al completamento, ne avrebbe avuti ben 79) appose la sua firma sul progetto di un palazzo certamente insolito, non particolarmente amato dagli amanti della tradizione: 40 piani con una pianta a doppia onda seghettata, con una forma grossomodo a V. Il suo nome: Grand Prince Hotel Akasaka. Edificio costruito rispettando i migliori crismi tecnici dell’epoca, ma che ormai, come capita pressoché ovunque, ci appare inefficiente nel suo isolamento termico, con i soffitti troppo bassi, gli spazi insufficienti per accomodare le infrastrutture tecnologiche e una copertura in alluminio parzialmente rovinata, la cui sostituzione costerebbe cifre niente affatto indifferenti. Ora, se fossimo a New York, Chicago o San Francisco, non è difficile immaginare quello che succederebbe: come per l’Empire State Building, interamente rinnovato più volte, questa vecchia vista cittadina andrebbe preservata, a perenne memento di un’epoca di gloria, ormai trascorsa eppure mai dimenticata. Qualche piccolo sacrificio, da parte dei suoi occupanti quotidiani, sarebbe giustificato con il “fascino” e il “pathos” della sua esistenza. Ma nella terra dell’antico santuario di Ise, il grande tempio shintoista in legno che ogni 20 anni viene fatto a pezzi e poi ricostruito, tra le due alture antistanti nella prefettura di Mie, nulla è fatto per durare più di una, al massimo due generazioni. Iniziò quindi a palesarsi un chiaro sentimento, nella mente degli abitanti del quartiere, dei visitatori di passaggio, dei turisti e delle schiere dei diligenti salaryman con il colletto bianco. Il suo nome: Mono no aware. Il senso [dell’impermanenza] delle cose, fondamento di un’antica strada filosofica dell’Est del mondo. Utile, nel presente caso, a comprendere come quel grosso ingombro cittadino, per quanto riconoscibile e talvolta idealizzato, aveva ormai fatto il suo tempo.
Il che porta a tutta una serie di problemi accessori, tra cui quello principale: come demolire un simile gigante, per di più posto al centro di un quartiere di rappresentanza, circondato da altri palazzi non di molto più piccoli né in alcun modo corazzati? Le moderne tecniche d’implosione, basate sull’uso di esplosivi attentamente calibrati e posti nei punti deboli della struttura, possono ottenere dei risultati davvero encomiabili: tutti hanno visto quella popolare tipologia di video, in cui reliquie dall’imponenza comparabile all’Akasaka tremano d’un tratto, poi iniziano immediatamente a ripiegarsi su se stessi. Una perfetta esecuzione del piano operativo, generalmente, permette di rimuovere qualsiasi colossale monumento all’espansione in verticale, senza compromettere la solidità dei suoi vicini più immediati. Il che non significa, ad ogni modo, che si possa contare su tali metodi in più che una minima percentuale di casi. Perché gli errori, ingegneristici o d’altro tipo, capitano, e prima di procedere con la detonazione occorre chiedere lo sgombero degli edifici circostanti, per lunghe e gravose ore a danno dell’industria. Una strada difficilmente percorribile, in zone topiche come Manhattan o Chiyoda. Ed a questo va anche aggiunto il notevole inquinamento, dovuto alle polveri che si liberano nell’atmosfera. Ma la necessità, da sempre, genera i progressi tecnici del mondo…

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