Questo magnifico castello non arriverà a Natale

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Le pale del drone girano vorticosamente sopra i boschi di Namur, Belgio, nella regione rinomata delle Ardenne. D’un tratto, l’inquadratura cambia, ed un tetto estremamente aguzzo inizia a figurare tra le cime degli alberi. L’oggetto volante prende quota, si orienta meglio, punta la sua telecamera in opposizione al Sole: quand’ecco altre quattro punte, poi una torre con pratico orologio, quindi il più fantastico complesso di tetti, archi ed abbaini, prendono a stagliarsi sul paesaggio, come nella cartolina commemorativa di una fiaba di fantasia. Chateau Miranda, questo è il suo nome; un edificio pieno di rumori, refoli di vento, polvere dei secoli ed un fantasma per ogni occasione. Come lo spirito dell’architetto neogotico Edward Milner, che fu assunto nel 1866 dalla famiglia nobile dei Liedekerke-De Beaufort, per costruire una residenza che fosse al pari dell’antico castello di Vêves, doverosamente abbandonato nel corso degli anni turbolenti della gran Rivoluzione dei francesi. O quello dei soldati tedeschi al culmine della seconda guerra mondiale, che qui si ritirarono durante l’apocalittica battle of the Bulge, l’offensiva che preparò la strada all’invasione e successiva sconfitta della Germania. O ancora, l’eco delle grida dei bambini, che a partire da metà degli anni ’50 vennero a trascorrere giorni felici, sotto il patrocinio delle ferrovie dello stato belga, che a quell’epoca potevano disporre delle prestigiose mura a piacimento, e ne avevano costituito un campo estivo unico al mondo. Fu proprio allora, niente affatto a caso, che il castello si guadagnò il soprannome di Noisy (“rumoroso” in inglese) alludendo al suono che produce l’esperienza formativa quanto caotica di ritrovarsi tanto giovani, circondati dai compagni e per la prima volta senza genitori.
Mentre oggi, un altro rombo fa da contrappunto al sibilo volante dell’arnese telecomandato. Un cupo ed insistente ruggito, di possenti motori, cingoli e pale idrauliche che si sollevano verso il cielo privo d’ostruzioni: l’ordinanza è stata approvata, l’anticipo pagato per dare il principio della fine entro ottobre 2016. Ci siamo: oggi stesso, avrà inizio la demolizione. Nulla, di tutto questo, sarà ancora in piedi da un mese a questa parte, mentre i cumuli delle macerie avranno il compito impossibile di ricordare, tanti anni e storie e placidi momenti straordinari. La fine è già segnata, e con esso un fato assai probabile e fin troppo noto: cosa sorgerà al posto dell’antico maniero? Un albergo, un resort, un luogo di ristoro? Una stazione di servizio, un eliporto? Tutto questo, forse, oppure niente. Ciò che resta maggiormente occulta, ad ogni modo, è la ragione di una tale scelta. Perché mai rimuovere una cosa tanto bella… C’è una sola concepibile ragione: di qui a poco, si sarebbe eliminata da sola. Basta infatti avvicinarsi maggiormente all’edificio, riposto l’aeromobile telecomandato nel portabagagli, per accorgersi che c’è qualcosa che non va. Non una, delle circa 500 finestre su cui è possibile gettar lo sguardo, presenta il riflesso rivelatore di una lastra integra di vetro. Mentre il portone principale appare parzialmente scardinato, marcescente, ormai del tutto inutile a tenere fuori chicchessia. E così come nel decennio degli anni ’80, quando un simile luogo fiabesco era aperto al pubblico e nessuno si degnava di venire, adesso che è proibito sono innumerevoli gli “esploratori urbani” che sognano di entrarvi, per assistere alla scena della derelitta civilizzazione. Non c’è incantesimo, stregoneria, mistico sigillo, che possa in effetti nascondere la verità: una volta messo un piede nell’androne un tempo affascinante, ci si trova nella perfetta rappresentazione del concetto di abbandono. Mura crepate, soffitti sbilenchi. Le caratteristiche volte a crociera, parzialmente scrostate. Ed i pavimenti, per buona parte, del tutto assenti. Pare infatti che la famiglia Liedekerke-De Beaufort, ritornata finalmente in possesso delle terre dei bisnonni, si sia premurata di rimuovere i preziosi marmi, per usarli in un progetto architettonico del tutto nuovo. Del resto, già a quel punto, recuperare questo luogo avrebbe avuto un costo enormemente superiore.

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L’officina popolata dagli insetti riciclati

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Stretto nelle mani dell’artista, l’enorme scarabeo tigre pare pronto ad aprire le sue elitre e spiccare il volo. Di un vivace color verde brillante, il suo aspetto è misteriosamente simile a qualcosa d’altro: nell’addome s’intravede una custodia per gli occhiali e uno specchietto retrovisore. Il suo torace è parte di una lampada per biciclette. Gli occhi sono biglie, le antenne pezzi di una radio. Ciascuna delle sei zampe, contiene l’agglomerato tripartito di tergicristalli, freni da ciclismo e catene per la trasmissione. Tutto questo e molto altro, suscita una strana commistione d’influenze: da una parte lo spirito d’osservazione dell’entomologo, che studia alcune delle creature più insolite di questa Terra, potenzialmente spaventose per i non avvezzi. Mentre dall’altra, l’intuito del rigattiere, che non vede i vecchi oggetti per ciò che realmente sono, bensì quello che erano stati, o che ancor meglio, potrebbero un domani diventare. Due spiriti racchiusi nello sguardo di un sol uomo, che arriva a concentrarsi e si riflette in quello dell’insetto immobile e perennemente silenzioso. Almeno, per quanto concerne i suoni percepiti tramite le vibrazioni dell’orecchio interno. Perché nell’anima, tra la polvere di questo ambiente oscuro in terra di Bretagna, non può che risuonare il ritmo clamoroso di un concerto: un grillo è fatto con le carene di una vecchia moto. Una vespa le cui strisce sono parti di una macchina da scrivere. La libellula è una pompa per le biciclette, incoronata con dei fari ed ali d’alluminio con pezzi d’ombrello. E poi, ci sono rane, pesci, uccelli, gamberi e aragoste… Ma neanche l’ombra di un mammifero. In quanto costui, ci narra quietamente, non ha mai voluto dedicarsi alle creature “Troppo familiari”.
Chi è che parla? Chi, se non Edouard Martinet, il poliedrico creativo francese che ha studiato e lavorato per lungo tempo a Parigi come grafico, prima di decidere all’improvviso di trasferirsi nel Nord-Ovest del paese presso la periferia di Rennes, cittadina celebre per le sue chiese ed altre opere architettoniche dell’epoca Barocca. E presso cui negli ultimi tempi, sempre più spesso, si recano in visita galleristi di fama ed organizzatori di premi internazionali, per conoscere personalmente il creatore di alcuni dei manufatti più incredibili che abbiano mai occupato le auguste sale dell’arte. Nonché gli spazi digitali del web, vista l’assiduità con cui innumerevoli blog del settore e produttori di documentari continuano a riproporre le rassegne delle sue opere più celebri o recenti. Non è cosa da poco, del resto, riuscire a dedicare una vita alla propria passione, e qual’ora si riesca a farlo per oltre 25 anni, come nel caso di costui, capita talvolta che si riesca a raggiungere quello stato superiore di coscienza, e conseguente operatività, che conduce senza intoppi al senso universale del sublime. E in effetti fatto salvo per chi ha orrore di A – Cose che zampettano nell’ombra; oppure B – Gli oggetti che hanno terminato il proprio ciclo di utilizzo pre-determinato (in termini più poveri, scarti o spazzatura) sarebbe assai difficile non prender atto della verità: ovvero che ciascun singolo essere, ogni abitante dello spazio deputato, nient’altro sembra se non assolutamente vivo, seppur colto in un momento di apparente immobilità. Finché non si prende coraggio, per toccare con la mano la visione dell’ultra-natura, concentrandosi nel trattenere il fiato.
Non è la prima volta che vediamo qualcosa di simile, certamente: persino nell’arte del contemporaneo ricorrono stilemi. Eppure ad un’attenta osservazione, le sculture custodite nell’atelier di Rennes, così come quelle contrassegnate dalla chiara dicitura VENDUTO sul sito personale dell’autore, presentano diversi tratti di distinzione. Primo fra tutti, la totale assenza di saldature, sostituite dall’impiego di incastri, viti e bulloni, così come il mantenimento di ciascun componente nel suo stato più possibile all’originale. Il che dimostra una particolare via del processo creativo, che dilaziona il completamento di alcune opere fino a richiedere anni, ed anni, ed anni….

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L’ideale per chi ha sempre desiderato un jet

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Una spettacolare sensazione, quella meravigliosa vibrazione, di un motore, anzi addirittura due, che invece di ruotare, pulsare, far flettere dozzine di pistoni, brucia ed arde di passione, espande il fluido al proprio interno e ridistribuisce l’ordine ed il senso dello spazio. 10, 15, 20 Km? Una bazzecola, roba da nulla. 270, la distanza tra Roma e Genova? Posso percorrerla in un’ora. E ti assicuro: neanche sono miliardario! Perché il mio mezzo, nonostante la velocità chiaramente dimostrata, non è un aereo privato della classe e dimensione comunemente impiegate dai capi d’azienda, come un Bombardier Learjet o un Aérospatiale SN-601 Corvette, né tanto meno uno di quei giganteschi aerei di linea riconvertiti a suite volanti dagli emiri o dagli attori di fama internazionale. Stiamo parlando, in effetti, di un mezzo che costa quanto un’automobile sportiva. Di classe media: 20.000 euro o giù di lì. A patto, naturalmente, di ordinare i piani per posta e costruirselo da soli. Con appena qualche decina di migliaia di ore di lavoro, però vuoi mettere, la soddisfazione… Di posizionare in prossimità del muso, al termine dell’opera, due motori JetCat P200SX, del tipo concepito per i modellini radiocomandati, poco prima di andare anche noi lassù… Intendiamoci, se il concetto stesso alla base di questo aeromobile, creato originariamente dall’aviatore francese Michel Colomban nel 1970, vi sembra un’assoluta follia, questo è probabilmente anche perché in linea di principio, esso non avrebbe dovuto superare di molto i 150 Km/h. Il CriCri, come lui l’aveva definito riprendendo il nomignolo usato per la figlia (ma anche la parola inglese per il grillo, cricket) sfruttava infatti in origine due motori ad elica convenzionali, già comunque sufficienti ad inserirlo nel Guinness dei Primati come più compatto bimotore al mondo.
Ma i sogni di bambino non riescono ad accontentarsi, e una volta che si dispone dei mezzi finanziari, del tempo libero e della forza di volontà necessari a realizzare il proprio sogno, tutto diventa possibile. Persino volare alla stessa maniera del vetusto supereroe The Rocketeer. Fuoco e fiamme, scie nel cielo, il senso di lasciarsi indietro i limiti del tempo e dello spazio. Restando in grado, dal momento del proprio decollo fin quando non si tocca terra presso l’obiettivo, di allungare le proprie braccia ai lati, giungendo ipoteticamente a toccare la punta delle proprie stesse ali. Dico in teoria, perché di certo è consigliabile, nell’assemblare il proprio velivolo, includere il coperchio trasparente dell’abitacolo, quell’elemento quasi sproporzionato rispetto al resto dell’aeroplanino che riesce a farlo assomigliare all’automobile volante del padre dei Jetsons. Il che potrebbe essere, chissà, persino intenzionale. Stando alle informazioni reperibili online, il primo a pensare di combinare questo aeroplano con la potenza straordinariamente compatta dei motori JetCat potrebbe essere stato Nicolas Charmont con il suo Cri-Cri F-PZPR, ma non fu certamente l’ultimo, visto come il video soprastante sia invece il prodotto del pilota di nome Edith Piaf. Le caratteristiche di questa versione dell’aereo, dopo tutto, sono straordinariamente funzionali all’idea di base: rendere il volo a reazione accessibile a chiunque. Ciò perché il peso a vuoto del Colomban è molto significativo, con i suoi appena 78 Kg, sufficienti a rientrare a pieno titolo nella legislazione degli ultraleggeri in quasi ogni paese al mondo, venendo a tutti gli effetti classificato alla stregua di un aliante dotato di motore/i. Il che non significa, ad ogni modo, che si possa guidare senza nessun tipo di esperienza o corso preparatorio: specie nella configurazione jet, infatti, l’aeroplanino presenta una sensibilità alle sollecitazioni paragonabile a quella di un intercettore militare, e potrebbe bastare dunque il minimo errore ai comandi per trovarsi in stallo o in una vite irrecuperabile, con conseguenze estremamente facili da immaginare. Quando a ciò si aggiunge che la struttura dell’aeromobile, per ovvie necessità progettuali, è costituita essenzialmente da un sottile velo di alluminio incollato a una schiuma in PVC Klegecell, operazione rigorosamente effettuata nel cortile di casa propria, si capisce finalmente l’entità del coraggio necessario ad impiegarlo per i propri tragitti veicolari…

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A due ore da Parigi, un castello in costruzione con i metodi del Medioevo

Guedelon Castle

Un torrione a forma di tamburo, costruito in pietra solida della Borgogna, che sovrasta la campagna e riesca a dominarla con la sua presenza. Con vicino un’altro più piccolo, collegato al primo grazie a un muro dall’altezza di diversi metri. Che a sua volta gira tutto attorno e chiude l’area di un cortile. All’interno del quale sorge una regale abitazione, ben protetta dalle eventuali pietre di una catapulta o l’invasione dei nemici provenienti dall’oscuro regno di una storia ormai distante. Mentre un solo ponticello in legno, non ancora levatoio, costituisce l’unica strada d’ingresso ufficiale per gli anacronistici recessi del castello di Guédelon. Dicono che Camelot fosse un ideale, ancor prima che un regno, famosamente esemplificato dalla metafora della tavola rotonda, sedendosi alla quale i vari e veri cavalieri, rigorosamente in armatura se vogliamo usare l’iconografia più popolare, potessero esprimersi alla pari con il loro re. Una sorta di democrazia ante-litteram, se vogliamo. Perché è indubbio che il poter disporre di fortezze autonome, militarmente o meno, possa costituire il metodo per fare il punto della situazione, e decidere quali aspetti della propria esistenza vanno uniformati al resto della società. E quali altri, invece, niente affatto. Se soltanto un qualcuno di molto eloquente dovesse oggi recarsi presso la commune di Treigny, lasciandosi dietro il vicino paesello di Saint-Sauveur-en-Puisaye per recarsi all’ombra di questi edifici, e rivolgere ai padroni di casa l’arduo quesito: “Si, ma perché?” Egli avrebbe, io credo, una serie di risposte molto variegate. “Questo è il sogno della mia vita” risponderebbe Michel Guyot, l’iniziatore del progetto che ebbe l’occasione di scoprire sotto il vicino e autentico castello di Saint-Fargeau, da lui acquistato nel 1979, i resti di una struttura più antica risalente ad oltre 10 secoli fa, originariamente costruita dal vescovo di Auxerre, Héribert. Niente meno che un figlio biologico di re Ugo Capeto di Francia (940-996) iniziatore della lunga dinastia dei Capetingi. Mentre forse Maryline Martin, imprenditrice locale e capo finanziario del progetto, forse potrebbe affermare che: “Si tratta di un’occasione irripetibile per tutti noi.” Era infatti l’ormai distante 1997, quando lei fornì i finanziamenti per posare la prima delle molte pietre, di quella che sarebbe presto diventata una meta turistica da oltre 300.000 visitatori a stagione, inclusi quelli provenienti dall’estero e uno stuolo interminabile di scolaresche. Perché intendiamoci, in Francia non mancano di certo i castelli, costruiti con trasporto fin da quando re Filippo II, diretto discendente del sovrano succitato che regnò per ben 43 anni a partire dal 1180, fu grande alleato (si dice persino amante!) di re Riccardo Cuor di Leone e fece stilare la serie di regole ed indicazioni per un’appropriata struttura difensiva del suo vasto regno: pianta poligonale, alte mura costruite su plinti, fossati privi di acqua e torri tonde con un giro completo di feritoie, una delle quali notevolmente più grande delle altre – pensate alla tour maîtresse di Yévre-le-Châtel, Ratilly, o quella di Druyes-les-Belles-Fontaines… Ma quanti di questi luoghi, ad oggi, possono considerarsi realmente vivi? Nel senso di essere abitati quotidianamente, da persone che li usano come loro primaria residenza, per di più adottando e facendo proprie le stesse limitazioni e caratteristiche di una vita che possa dirsi realmente “medievale”? Soltanto uno, ovviamente. L’insolito castello costruito a posteriori dell’odierno Guédelon.

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