E se i tram potessero viaggiare senza le rotaie?

“Se sembra muschio, e sa di muschio, ed ha il colore, l’odore, la morbidezza tipica del muschio, allora amico credi a me, quella cosa non può essere altro che…” Tuoni, fulmini, rumore di tempeste. Liti animate tra colui che crede nella legge della semplice (?) evidenza, e il rappresentante di quell’altro gruppo, che ci tiene a riconoscere il valore di un nome. “No davvero, ascolta me: un lichene. Se Linneo, nella sua vasta saggezza, ha collocato questa forma vegetale d’esistenza, dopo averla ponderata, in un diverso insieme di esistenze, egli deve averlo fatto con un suo criterio. Devi riconoscergli una DIFFERENZA!”. E così via, finché la festa sia finita, tra il fastidio di tutti i presenti, sommamente disinteressati. E fortuna che nessuno, in quel momento, avesse sollevato la questione di ART: Autonomous Rail Rapid Transit, recente invenzione dalla Cina che non è autobus, né treno e neanche un tram, benché incorpori elementi da ciascuno dei mezzi citati. Subito scusato, sarebbe uno straniero, se a vederlo per le strade avesse l’istintiva voglia di associarlo al tipico autobus snodato, con due o tre cabine poste l’una di seguito all’altra, in grado di accomodare l’interezza della folla che pretende di spostarsi nelle ore di punta. Il che potrebbe capitare adesso, nello specifico, unicamente presso la città di Zhuzhou, nella regione di Hunan, dove da qualche settimana è in corso il test, ad opera della compagnia di trasporti pubblici CRRC Times Electric, di una prima linea pienamente operativa costruita sulla base di questo singolare principio d’ibridazione. Ma perspicacia, o avvistamenti ripetuti, permetterebbero alla fine di comprendere la verità: perché ART, pur avendo gli pneumatici, segue esattamente delle linee disegnate al suolo all’interno di una specifica corsia. Che dovrebbero costituire, a tutti gli effetti, le sue “rotaie”. Inoltre, da qualunque parte lo si osservi non ha un davanti.
È un sistema che potrebbe suscitare un istintivo senso di diffidenza. In primo luogo, per la poca fiducia che si tende ad avere nei confronti delle novità e dall’altro perché, pur non rientrando nelle categorie classiche di mezzi di trasporto, il veicolo non sembra neanche sufficientemente “diverso”; il che porta a chiedersi perché, davvero, dovremmo riconoscerne il bisogno. Eppure la realtà può emergere, per gradi, da una più attenta analisi del suo funzionamento. ART è utile perché funziona grazie ad un motore elettrico. Il che, in alcuni grandi agglomerati urbani della Cina, notoriamente sommersi da una cappa d’aria irrespirabile, non può che essere un importante vantaggio. Inoltre, essendo stato concepito come un “tram” o “circolare” che dir si voglia, ART è in grado di sfruttare vie di spostamento trasversali rispetto al traffico, con suoi semafori, svincoli esclusivi o in altri termini, svariate scorciatoie rispetto ai suoi cugini del tutto privi di connotazioni ferroviarie. Senza le implicazioni negative del caso: di sicuro, chiunque si sia spostato tramite vagoni nel contesto cittadino per un tempo medio, avrà sperimentato almeno una volta l’episodio dell’automobile parcheggiata di traverso sui binari. Tanto che il trenino, nonostante l’importanza della sua missione, non poteva far altro che sostare fino all’arrivo del carro attrezzi. Mentre il suo alter-ego dalla Cina, in caso di necessità, sarà in grado di disattivare temporaneamente i sistemi di guida automatica. Per permettere al macchinista (o si chiama “autista”?) di deviare temporaneamente sulla strada, procedendo rapido verso la sua destinazione. E lo stesso vale, d’altra parte, per questioni relative al traffico. Perché “costruire” una rotaia che è in realtà una doppia linea tratteggiata su strada, nei fatti, significa poterne avere di ridondanti. Così che un sistema automatico computerizzato, in caso di necessità, potrà smistare gli ART lungo i tragitti meno problematici.
Garantendo una circolazione dei passeggeri dal grado di efficienza indubbiamente superiore. Il tutto grazie ad alcuni importanti accorgimenti…

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La ragione delle frecce di cemento nei deserti americani

Abbandonate nella polvere, come geoglifi di una civiltà ormai perduta. Totalmente spoglie, ricoperte di crepe, mentre la sporadica vegetazione minaccia di sopraffarle, cancellandole infine dall’esistenza. Eppure ancora solide, diritte e chiare, come il giorno in cui l’operaio senza nome, per l’ordine di un’autorità ignota, aveva disposto l’attenta colata nel suolo stesso della tangibile esistenza. La tentazione, come avviene per quanto concerne gli ubiqui e “inspiegabili” cerchi nel grano, sarebbe di associarle all’opera di qualche civiltà aliena, passata temporaneamente di lì. Ma ce ne sono, semplicemente, troppe perché basti evocare l’opera di costoro. Diventa importante, a questo punto, orientarsi alla ricerca di un perché.
Si potrebbe affermare che la solidità funzionale e burocratica dei primi Stati Uniti abbia potuto beneficiare in egual misura di due cose: l’estensione delle infrastrutture di collegamento, sia pubbliche che private, come la ferrovia, e la rapidità di spostamento delle mochila, caratteristiche borse marroni da sella, ricolme di corrispondenza indirizzata da un lato all’altro del più verticale dei continenti. Oggetti associati, in maniera indissolubile, a una particolare razza di cavalli non più alti di un metro e mezzo e ai loro instancabili cavalieri, proprio per questo soprannominati “Pony Express”. Le cui imprese, ampiamente celebrate nel vasto e ininterrotto romanzo americano, furono alla base di molte vittorie, sia sociali che in campo bellico, particolarmente durante la guerra di secessione tra le forze dei Confederati e quelle dell’Unione. Già, perché non c’è altro mestiere, a parte quello delle armi, che tragga un beneficio maggiore nella comunicazione rapida ed efficiente. Il che ha sempre costituito, nel corso della storia umana prima dell’epoca contemporanea, un potente incentivo ad approntare un servizio postale dall’elevato grado di affidabilità e persino l’invenzione del telegrafo, inerentemente facile da intercettare, non poté mai sovrascrivere realmente l’utilità nello spostamento fisico delle buste con gli ordini e i dispacci. Gli inizi del XX secolo, quindi, furono un’epoca di grandi cambiamenti. Il 17 dicembre del 1903, Orville e Wilbur Wright prendono il volo a Kitty Hawk, con il loro Flyer destinato a lasciare un segno indelebile nel sentiero stesso del Progresso. Esattamente 11 anni dopo, come molti avevano previsto, scoppia la grande guerra. E il popolo della nazione, per la prima volta impegnato in uno sforzo bellico nei territori d’Oltreoceano, non può fare a meno di chiedersi se esista una maniera più rapida per movimentare i materiali necessari all’industria, o far giungere i propri messaggi ai familiari distanti. Fu così che il 15 maggio 1918, con decreto del presidente Thomas Woodrow Wilson in persona, venne inaugurato il primo servizio per il trasferimento aereo di messaggi lungo l’asse Washington–Philadelphia–New York. Ci vollero ulteriori due anni perché la rete si ampliasse fino alla costa Ovest, riuscendo ad includere anche la fiorente metropoli di San Francisco. Ma il servizio presentava non pochi problemi rispetto alle alternative. Per una questione semplicemente matematica: a quell’epoca, spiccare il volo con pratici biplani significava non soltanto rischiare costantemente la propria vita, ma anche sapere bene che ogni qual volta il tempo peggiorasse anche in maniera minima, o calasse puntualmente la notte, occorreva trovare prontamente un luogo dove sostare. Il che aveva portato, anche in condizioni ideali, all’allungarsi dei tempi di consegna potenziali, con un totale di ben 72 ore, necessarie in media affinché l’equivalente delle prototipiche borse mochila potesse compiere l’intero tragitto da un lato all’altro della nazione, laddove il sistema moderno mediante l’impiego di treni, con Pony Express attraverso i sentieri più accidentati, ne impiegava appena 108. Non certo una differenza sufficiente a giustificare il rischio, la spesa e lo sforzo necessario ad approntare in via logistica il complicato meccanismo della posta aerea. Tanto che si diceva che il nuovo capo dello stato, il presidente Warren G. Harding, stesse minacciando di tagliare i finanziamenti e far chiudere definitivamente il servizio.
Da ormai quasi una decade, tuttavia, era stato fondato un organo deputato allo studio di quello che il volo a motore avrebbe potuto fare per le istituzioni, definito National Advisory Committee for Aeronautics (NACA, ma forse voi lo conoscete meglio per ciò che sarebbe diventato in seguito: la NASA) gestalt di fervide menti le quali, all’inizio del 1923, si fecero rappresentare presso il Congresso con un’idea. “E se costruissimo una serie di torri illuminate, con ausili di navigazione annessi, in grado di guidare i piloti lungo le vie postali più trafficate? E se queste conducessero, senza falla, ad una serie di piste di atterraggio, sempre a disposizione anche di notte, ogni volta in cui fosse necessario atterrare per fare rifornimento?” E l’idea piacque. Al punto da ricevere, nel giro di poco tempo, il via libera dei lavori. Fu quasi un riproporsi dell’antico sforzo collettivo degli uomini di frontiera, per estendere la strada ferrata fino alle regioni più estreme del West…

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La strada sospesa tra il baratro e la cascata

L’apporto tecnologico delle dashcam non può essere sottovalutato, come finestra aperta verso le molteplici esperienze del mondo stradale. Motori ruggenti, manovre improbabili, errori umani che conducono molto spesso all’incidente. E dalle carrozzerie ammaccate, il fumo che esce da sotto il cofano, il popolo di Internet viene talvolta indotto a trarre una lezione di vita, sulla falsariga di “presta maggiore attenzione quando ti metti al volante.” Non credo però che l’avviso sarebbe realmente necessario, per molti di noi, nel caso in cui ci trovassimo in un giorno improbabile a ripercorrere i passi qui documentati dallo youtuber Partha, viaggiatore in territorio Nepalese, mentre si trovava lungo il tragitto della recente quanto fondamentale via di collegamento carrabile tra la cittadina di Bersahar e Chame, sola ed unica capitale del distretto di Manang. Uno di quei luoghi, strettamente e ragionevolmente associati al cosiddetto “tetto del mondo”, in cui lo spazio tra le ruote è assolutamente fondamentale, per il semplice fatto che potrebbe eventualmente superare quello a disposizione tra il fianco della montagna ed il grande vuoto, rapidissima via d’accesso verso la valle sottostante. Il quale presenta, tuttavia, un ulteriore ed ancor più significativo grado di terrore. All’inizio dei circa due minuti di video, che stanno in questi giorni comparendo su un ampio ventaglio di quotidiani e siti di notizie online, si vede quello che sembrerebbe essere a tutti gli effetti un comune piccolo fiume o torrente montano, che si getta a strapiombo tra le rocce, non fosse per la presenza di un’inspiegabile recinzione, del tutto simile a un rudimentale guard rail. Ed è proprio mentre siamo qui ad interrogarci sull’origine e la funzione di quest’ultimo, che la verità viene, d’un tratto, rivelata: con il cofano della macchina a fare da cornice, l’azione si sposta a bordo dell’auto occupata dall’autore; sopra c’è l’acqua che cade, sotto c’è il fiume che scorre. A lato quella che possiamo immediatamente riconoscere, grazie alla falce ricurva, come nostra oscura signora, la Morte.
Che cosa porta delle persone del tutto sane di mente, almeno all’apparenza, a mettere a rischio la propria esistenza in un siffatto modo? Per quale ragione, qualche ora in più per girare attorno alla montagna non è migliore, dal punto di vista e le preferenze di alcuni degli autisti più spericolati del mondo? La ragione da ricercare principalmente, ritengo, va estratta dalle caratteristiche topografiche di una tale regione. Non credo che noi italiani, pur con le irte Alpi e i passi che percorrono gli Appennini, possiamo istintivamente comprendere che cosa significhi spostarsi attraverso un paese in cui l’elevazione media supera i tre chilometri sul livello del mare, e persino una trasferta di 60 chilometri può trasformarsi in una giornata o due di viaggio. Fonti locali narrano anzi come fino a poco tempo fa ce ne volessero ben tre (o quattro, a seconda della stagione) per raggiungere da Bersahar il resto della civiltà, con conseguente abbattimento del potenziale turismo e drastico aumento del costo della vita. Mentre dal 2012, anno di completamento della vertiginosa mulattiera, le guide hanno iniziato ad includere nei loro itinerario questo luogo pittoresco, in grado di offrire antichi templi e una splendida vista sul paesaggio montano circostante. A patto, ovviamente, di avere il coraggio di affrontare il tragitto in macchina fin quassù. Ora naturalmente, la strada non si presenta sempre percorsa dalle acque di un fiume, nella fattispecie il Marshyangdi, che scorre lungo le pendici montane sopra i villaggi di Ghermu e Jagat. Anche perché altrimenti, sarebbe stato impossibile costruirla. Così che l’eventualità dimostrata nel video, in effetti, è la drammatica conseguenza di un periodo di piogge piuttosto intense, in grado di sfumare sensibilmente i confini tra l’acqua e l’asfalto…

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Il valore architettonico di un gabinetto norvegese nel nulla

L’esperienza di visitare una qualsiasi grande città italiana, per un turista, può talvolta risultare ansiogena, soprattutto se proviene da un paese del Nord. Mentre ci si sposta da un’antico monumento a una piazza storica, assorbendo uno per uno  i reperti delle epoche passate, il clima mediterraneo tenderà inevitabilmente a pesare sull’impeto della camminata, soprattutto in estate. Così, a temperature superiori di anche 15 gradi rispetto a quelle di una città come Oslo, persino a parità di stagione, il sudore inizierà a formare dei rivoli copiosi, mentre prevedibilmente, l’esploratore fuori sede finirà per acquistare una bottiglietta d’acqua, da un minimarket o uno dei tanti venditori ambulanti del centro. Così con l’avanzare del pomeriggio, prima o poi, avvertirà la necessità d’utilizzare la toilette. Un’esperienza che in territorio nostrano, per quanto basilare, può talvolta risultare contro-intuitiva. Già perché dove sono, ad esempio, i gabinetti pubblici della Capitale? Roma è un luogo in cui, se si avverte il bisogno di espletare le risultanze, l’unica scelta ragionevolmente a disposizione è spesso prendersi un caffè al bar. Mentre grava sulla propria testa la possibilità, sempre presente, che proprio il locale in cui è stata riposta la propria fiducia abbia appeso il lapidario cartello “guasto” per questioni di tipo tecnico o amministrativo. Perciò mentre si chiede al proprio fisico di trattenere ciò che non può essere rimandato, tanto spesso, lasciare i confini della città verso l’aperta campagna rappresenta un’esperienza di riscoperta, che permette un ritorno metaforico e letterale alla natura. Dove ogni luogo può essere un bagno, quando la necessità guida il giudizio e le preoccupazioni diventano poco più del battito d’ali di una falena, attorno al fuoco notturno della liberazione individuale.
Prendiamo in analisi, di contro, la questione di un tipico luogo turistico norvegese. Il paese in grado di sconfinare nel Circolo Polare Artico, la cui densità di popolazione media, per ovvie ragioni contestuali ammonta a sole 15,8 persone per Km quadrato (ma può calare, in vaste aree del territorio, a fino un terzo di quella cifra). Un paese lungo e stretto, in cui un ristretto numero di lunghe strade statali riveste un ruolo primario nella viabilità nazionale, con utilizzo relativamente intenso e costi di mantenimento altrettanto significativi. Ciò che avviene a quel punto, come in certe aree centrali degli Stati Uniti per la leggenda della storica Route 66, è che il tragitto stesso diventa una meta degna di comparire sulle guide, arricchendosi d’innumerevoli “punti di sosta” consigliati ai turisti, ciascuno dei quali in grado di offrire un modo per fermarsi ed assaporare il momento, senza la mediazione gravosa degli pneumatici e del volante. Soltanto che, senza il linguaggio tipico del kitsch d’oltreoceano, piuttosto che monumenti alla bizzarria come la più grande ciambella del mondo, il dinosauro evoluzionista a scala naturale o l’edificio a forma di cestino del pranzo, simili attrazioni tendono qui ad avere una specifica funzione. E tale funzione, tanto spesso, è il bagno. Ed è singolare ma comprensibile, in un tale panorama, il successo internazionale riservato a una creazione come quella di Ureddplassen tra Gildeskål e Meløy, nel Nordland, proprio dove la celebre strada Helgelandskysten transita di fronte al golfo di Fugløya. “Ecco a voi il bagno più bello del mondo!” hanno titolato giornali per lo più inglesi come il Telegraph e il Daily Mail, mentre secondo una prassi già lungamente acquisita, le testate di altri paesi hanno si sono fatti ambasciatori dell’insolita notizia. Poiché in effetti, l’aspetto di questa struttura è tanto atipico da sembrare quasi decadente. Il senso di meraviglia inizia già mentre si lascia l’area di sosta, percorrendo una serie di ampi gradini costruiti come parte di un anfiteatro, giungendo presso una piazza in riva al mare dotata di attraenti panche rivestite in marmo di rosa norvegese. Ed è allora che apparirà al centro del proprio campo visivo, il più particolare piccolo edificio con pareti di vetro non-trasparente, il tetto formato da una struttura in grado di ricordare il moto delle onde che s’infrangono sugli scogli antistanti. “Mentre ci si avvia verso la ritirata” racconta un sito web, “…sarà possibile udire il richiamo distante delle pulcinelle, aquile di mare o il più grande gufo d’Europa, l’hubro. Alla vostra destra, un importante monumento…”

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