Il deserto che si fa foresta per tre mesi l’anno

Salalah Khareef

Nel corso dell’anno, la parte meridionale dell’Oman è uno dei luoghi più secchi e inospitali del pianeta, con temperature che raggiungono anche i 50 gradi e piogge estremamente rare, concentrate in genere nel solo mese di gennaio. Sulle coste dell’Oceano Indiano, tuttavia, a meridione dell’istmo che dà l’accesso alle acque economicamente significative del vasto golfo d’Arabia, esiste un luogo assai particolare, in cui una commistione fortunata di fattori genera una trasformazione climatica semplicemente senza uguali al mondo. Nel giro di un paio di giorni al massimo, la temperatura scende ad appena 25 gradi sopra lo zero. Piogge incessanti battono le pendici dei colli e le montagne circostanti, causando lo straripamento di fiumiciattoli e torrenti d’altura. In poco tempo, si formano cascate, mentre la foschia insistente copre le campagne di una cappa impenetrabile, in grado di rendere un leopardo del tutto invisibile da una distanza di 8 metri. I cammelli accorrono ad abbeverarsi in massa presso le wadi (valli) permeabili ed improvvisamente inondate, del tutto simili a laghi spuntati dal nulla. Ed è a quel punto che gli arbusti ed i cespugli della regione, del tutto scarni per la maggior parte del tempo, iniziano improvvisamente a dare scena di un rigoglio eccezionale, mentre l’erba cresce, direttamente dal suolo sabbioso delle zone quasi desertificate. Qualcuno, in via rigorosamente informale, ha descritto tale transizione come un magico passaggio dal Sahara all’Irlanda.
Ma qui siamo, in effetti, nella terra di Salalah, città portuale, e del suo miracoloso Khareef, appellativo locale (derivante dalla parola che in altri contesti vuole dire autunno) per riferirsi al fenomeno annuale dell’inesorabile monsone. Succede da circa 15-20 milioni di anni, ovvero già da molto prima che gli umani avessero il privilegio di goderne i benefici: con l’incedere delle stagioni, al sopraggiungere delle temperature più elevate all’equatore, l’aria si riscalda in modo differente in base alla capacità termica di ciò che ha sotto, ovvero terra ferma, oppure acqua salata. Nel secondo caso, infatti, per l’effetto termico della convezione e della conduzione, gli strati freddi al di sotto dei 50 metri di profondità non permettono alla superficie di scaldarsi oltre un certo limite, mentre la sabbia, il suolo e le rocce, nel frattempo diventano letteralmente incandescenti. Ma poiché l’aria calda tende a salire, sulle coste si genera un fronte di bassa pressione, sostanzialmente un vuoto pronto ad essere riempito. E la natura, da che ci hanno lasciato i dinosauri, non tollera mancanze d’equilibrio. Così avviene che questa ingente massa d’aria relativamente fredda, ed estremamente umida, avanzi poderosamente, nella prima parte di un ciclo che la porterà, nel giro di qualche mese, fino all’entroterra più elevato, per poi tornare nuovamente al punto di partenza. Gli effetti sono, come da prerogativa dell’ambito relativo al clima, estremamente variabili. In determinati luoghi affetti da simili circostanze, tutto ciò che le popolazioni locali percepiscono è un leggero calo di temperatura, con precipitazioni più intense nei mesi che vanno da giugno a settembre. In altri àmbiti geografici, invece, l’effetto del monsone è un letterale punto di svolta ecologico, che porta al risveglio d’innumerevoli specie di piante ed animali che, come colti da un’ispirazione improvvisa, senza bisogno di consultare il calendario, lo usano a supporto nei loro periodi di maggiore attività. Dire che le zone circostanti la ridente città di Salalah, tra i maggior porti del Medio Oriente, appartengano alla seconda categoria, sarebbe quasi sottovalutarle. Perché soltanto qui succede che una vera e propria catena montuosa costiera, principale caratteristica territoriale del governatorato di Dhofar, agisca da barriera, permettendo al fronte d’aria umida di soggiacere per un tempo medio-lungo, portando i benefici prolungati dei suoi effetti alla regione. Si può affermare, in effetti, che il Khareef sia diventato negli anni semplicemente necessario alla sopravvivenza di molte comunità locali, che in sua assenza non avrebbero modo di procurarsi l’acqua necessaria per l’irrigazione, vista l’assenza di fonti rinnovabili a loro disposizione. Non per niente, l’arrivo della stagione è oggetto di celebrazioni e feste popolari, con il centro abitato che si riempie di spettacoli e fiere, mentre braceri profumati tentano d’indurre i molti visitatori all’acquisto dell’incenso locale, antichissima esportazione di queste terre, fin dai tempi biblici e dell’antico impero dei faraoni.

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Che succede all’interno di un fucile da combattimento?

Ak-74 Firing

Larry Vickers, veterano non più in servizio delle forze speciali, stavolta non si è posizionato nel poligono per farci apprezzare soltanto la precisione della sua mira. Ad un secondo sguardo, infatti, si nota un qualcosa di diverso: all’arma manca un pezzo, a dir poco fondamentale. La copertura del sistema di recupero del gas. Di certo, nulla potrà funzionare come dovrebbe. Di certo…
Pur essendo tra le armi da fuoco più famose al mondo, i fucili della serie russa Avtomat Kalašnikova non vengono associati in Occidente a nessuna particolare soluzione ingegneristica, trovandosi piuttosto vagamente descritti, in alternanza, come un qualcosa di particolarmente inefficiente e poco preciso, oppure dei dispositivi diabolicamente facili da costruire e mantenere in funzione, anche per periodi estremamente lunghi e senza addestramento militare. Il che tra l’altro è vero, anche se questo non fu certamente l’obiettivo originale del celebre ingegnere progettista Michail Timofeevič Kalašnikov, che concepì quest’arma ancora in circolazione ed usata correntemente in ogni parte del mondo. Lavorando alacremente sul suo tavolo da disegno, nel 1947. Gli AK. Fucili creati sfruttando un insieme di approcci tecnici che erano, all’epoca della loro prima costruzione in serie, semplicemente il non-plus ultra della rinomata industria sovietica, mai fermatasi dall’epoca del primo ingresso in guerra, ma che adesso ci appaiono superati e relativamente a basso costo. Ancora una volta, con ottime ragioni. Il fatto è che quest’arma fu da subito talmente popolare, ed efficace, che ogni paese del blocco orientale a cui venne fornita in dotazione imparò subito a ricostruirla, diventando estremamente bravo a farlo. Ma i moderni appassionati d’armi, qualche volta formatisi servendo per gioco nei numerosi virtuali dei nostri tempi, concordano nel riconoscere che già l’AK-47, ma ancor maggiormente i suoi successori AKM (1959, la M sta per modernizzato) ed AK-74 (1974) sono complessivamente in grado di competere con le principali offerte del panorama europeo e statunitense, compensando i relativi difetti con alcuni grossi pregi, tra cui la leggendaria affidabilità. Durante la guerra in Corea del 1950, l’esercito degli Stati Uniti aveva ormai sostituito largamente il suo famoso fucile M1 Garand (quello del “ping” al termine della clip di fuoco) con la nuova carabina M2 a selezione di fuoco, che tuttavia risultava decisamente inefficace nel contrastare le armi nemiche. Così, si decise di sviluppare una nuova arma più potente, che fosse in grado di sfruttare le stesse munizioni di una mitragliatrice da supporto del fuoco, con conseguente semplificazione del processo di approvvigionamento. Da questi propositi nacquero il celeberrimo fucile M14 e l’M-60, l’arma pesante, per intenderci, che Rambo impugnava a mano nelle locandine dei suoi anni di gloria. Un’immagine tutt’altro che fuorviante, quando si considera i numerosi successi riscossi da quest’arma, tutt’ora prodotta ed inviata presso i principali campi di battaglia del mondo contemporaneo. Mentre lo stesso successo, in un primo momento, eluse il suo fratello minore, che si guadagnò una reputazione decisamente indesiderabile: s’inceppava fin troppo spesso. L’immagine dei soldati rinnegati sul finale del film Apocalypse Now, armati con fucili russi catturati al nemico, era infatti tutt’altro che romanzata, quando si considera l’alta considerazione in cui erano tenuti, soprattutto dai membri delle forze speciali, quei magnifici mitragliatori dal riconoscibile suono, che tra l’altro dissuadevano il nemico da gettare in quella direzione nulla più che un breve sguardo, nondimeno, preoccupato!

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Ucraino dimostra i pericoli del microonde e del butano

Microwave Gun

Il concetto di genio intrappolato nella bottiglia non ha nulla di fantastico, per lo meno se inteso nel suo senso allegorico di fondo. Nelle nostre rassicuranti case, l’energia è costantemente imbrigliata e ridirezionata nello svolgimento di mansioni utili, attraverso dei sistemi che costituiscono la base del progresso. Ma basta talvolta una scintilla nel posto sbagliato, un guasto ad una presa di corrente, la rottura dello scarico di un lavandino, perché questa cornice ideale strappata alla natura si trasformi in un’avamposto dell’inferno sulla Terra, con il sistematico danneggiamento di ambienti, suppellettili ed ahimé, fin troppo spesso, persone. E non c’è nulla di più misterioso, e al tempo stesso potenzialmente deleterio, dell’ultimo strumento di cottura in ordine di tempo ad essere entrato nelle nostre stanze designate ai pasti, il cassone quadrangolare con due manovelle e qualche pulsante, che ha lo scopo di riscaldare il cibo usando l’interazione tra molecole e campi magnetici irradianti. Uno di quegli oggetti che furono, fin dalla commercializzazione negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, guardati al tempo stesso con totale meraviglia e diffidenza, troppo funzionali, ed utili, per essere privi di un ansiogeno rovescio della medaglia: cancro! Furono tutti pronti a gridare, in un’associazione che in realtà non nessuna base logica né fondamento. Altrimenti, del resto, difficilmente li useremmo ancora. Le radiazioni generate in uno di questi forni non sono in alcun modo ionizzianti, e quindi mai potrebbero interferire con la vita delle cellule del corpo umano. Se non, per l’appunto, cuocendole. A tale proposito, si prega di osservare questi video con un senso critico sufficiente a comprendere come si tratti di attività condotte da persone, se non proprio altamente qualificate, per lo meno coscienti di quello che stavano facendo, nonché attrezzate con contromisure relativamente ingegnose e valide per salvaguardarsi dall’effetto delle microonde. Qualsiasi tentativo di riprodurre i loro esperimenti sarebbe quindi, oltre che potenzialmente fallimentare e dispendioso, anche ESTREMAMENTE pericoloso, anche soltanto per l’alta tensione impiegata da questi dispositivi, che una volta staccati dalla rete restano potenzialmente funzionali in forza di un capiente condensatore. Più di un aspirante riparatore casalingo ha finito per restare fulminato a seguito dell’atto imprudente di aprire uno di questi dispositivi. Per non parlare degli effetti lesivi che le microonde possono avere sull’apparato di riproduzione maschile.
Lo stesso ambiente in cui si svolge l’azione contribuisce in larga parte a questo senso di estrema precarietà e pericolo latente: siamo infatti a Lugansk, nell’Ucraina Orientale, niente meno che durante i disordini e i venti di guerra che si andavano rafforzando esattamente a Novembre dell’anno scorso, a seguito dell’intervento russo per difendere ed annettere la penisola di Crimea. Nell’originale del video, pubblicato sul canale in lingua russa degli autori, era possibile udire addirittura dei colpi d’artiglieria in lontananza, mentre i due giovani aspiranti scienziati, che su Internet si fanno chiamare Kreosan, parevano del tutto noncuranti della grave situazione, trascinati com’erano dalla loro passione per ciò che stavano facendo. Questo montaggio degli esperimenti che avrebbero seguito il primo, finalmente proposto con commento in lingua inglese, è stato invece un prodotto relativamente recente, pubblicato su un secondo canale usato per sfruttare commercialmente il successo internazionale ottenuto nelle primissime battute di questa vera e propria follia procedurale. Il tutto inizia in maniera relativamente tranquilla, con il “portavoce” che smonta un forno descrivendone le caratteristiche. Questo dispositivo, afferma, ha una potenza che la gente ignora, risultando in grado di emettere onde radio comparabili a quelle di 10.000 router wi-fi, 5.000 cellulari o trenta torri per le telecomunicazioni. Un’affermazione comparativa oggettivamente corretta, ma che raramente ci si preoccupa di dimostrare (per ovvie ed ottime ragioni) come invece si apprestava a fare lui in quel particolare quanto atipico frangente. La situazione inizia molto presto a scaldarsi…

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La tecnica dell’incastro di piastrelle del Maghreb

Zellij

In una luminosa officina di Marrakech, Agadir o Casablanca, un uomo pratica l’antica arte a lui trasmessa dall’anziano maâlem (letteralmente: colui che sa) attraverso anni di laborioso apprendistato, fino al perfezionamento di una tecnica che è scienza ed arte al tempo stesso: l’espressione di un particolare tipo di mosaico tipico dell’arte islamica, detto della pietra lucidata o zellige. Del resto, lui non è che l’ultimo di una filiera altamente specializzata, in cui ciascuno svolge il proprio ruolo, per creare qualcosa che sia degno di essere ornamento dei momenti e monumenti migliori. Osservare è doveroso. Qualsiasi tipo di sapienza tecnica, nel momento della sua applicazione, dimostra un fascino procedurale totalmente degno di essere apprezzato; in questo caso specifico, tra l’altro, è indubbio che l’intero contesto sia valido nell’arricchire e potenziare i meriti estetici della sequenza, nel suo complesso una delle migliori disponibili sull’argomento online. Il battere ritmico del martelletto, nell’apparente silenzio delle circostanze. Il contesto rigoroso dell’intera operazione, che pare assumere connotazioni dal significato mistico e poco apparente. La precisione di ogni gesto, nella fase di deposizione dei singoli pezzi, che vanno incastrati come fossero pezzi di un puzzle, senza nessun margine di errore…
Tutto comincia, come spesso avviene, dalla terra e dal fuoco. Siamo infatti, almeno a quanto si può desumere da questa pubblicazione (purtroppo) priva di ulteriori chiarimenti, presso un sito in cui viene curato ogni singolo aspetto della creazione del mosaico, a partire dalla cottura delle stesse mattonelle costituenti. In una serie di rettangoli dalle pareti di metallo, l’addetto alla prima fase depone la giusta quantità di argilla, rimuovendo l’eccesso direttamente con le mani. Niente attrezzi, tranne quelli indispensabili: quasi tutto, in un simile luogo luogo, viene fatto interamente a mano. E non è già ciò incredibile, di questi tempi? I mattoncini sono pronti. Si passa quindi ad una fase di appiattimento ulteriore, in cui il materiale, ancora caldo e reso friabile dalla luce del sole, viene posto sopra un parallelepipedo di pietra, facente le veci dell’incudine. Per essere colpito ritmicamente e poi tagliato, rendendolo conforme alle specifiche richieste. A questo punto è ancora opaco ed incolore, ma non per molto: un terzo addetto, questa volta estremamente giovane nonché dotato di un aiutante suo coetaneo, immerge la parte frontale delle piastrelle, una per una, in una ciotola piena d’acqua e polvere di silice, componente principale dello smalto di vetrinatura, in grado di proteggere e rendere splendente qualsivoglia materiale. Questo non verrà invece applicato ai lati o sotto, affinché le altre sostanze usate nella processo creativo possano far presa migliore. Segue, dunque, la cottura. Attentamente disposte come fossero le componenti di un castello di carte, le piastrelle vengono portate ad almeno 1000 gradi, grazie agli espedienti d’isolamento termico di un forno antico quanto il mondo, frutto di un progetto del Neolitico ancestrale. Ma usato in questi specifici luoghi, a partire dal VI-VII secolo d.C e per tutto il periodo cosiddetto moresco, come preambolo di un processo estremamente particolare, frutto di una particolare visione filosofica e delle cose. Per assistervi, basterà continuare ad osservare. Ecco infatti le piastrelle già dipinte di un profondo azzurro (purtroppo, il passaggio non viene mostrato) che raggiungono il momento di cui parlavamo in apertura, l’attimo di distruzione controllata che è poi anche rinascita, creazione di un mandala senza tempo, né fine.
Ritagliare la ceramica porcellanata, ovviamente, non è un processo alla portata di chiunque. Non soltanto sbagliare mira, ma anche usare troppa forza o troppo poca, potrebbe causare incrinature tali sulla superficie del materiale, con prevedibili conseguenze sulla qualità del pezzo finale. Il fatto poi che l’attrezzo impiegato sia da manovrare a braccio, senza nessun tipo di guida o supporto, non fa che accrescere la complessità della situazione mostrata. Ciascun pezzettino, geometricamente ineccepibile, troverà nel penultimo passaggio la sua collocazione a faccia in giù, all’interno di un’area appositamente definita tra la polvere del pavimento. Qui, ad incastro effettuato, l’intera composizione verrà quindi ricoperta di uno strato d’intonaco cementizio ed acqua, in una miscela che non è meno segreta, né attentamente tramandata, di ogni altro fondamento dell’operazione. Quando tale collante avrà fatto presa, la creazione risultante sarà del tutto saldo e indivisibile, come forgiata dalla stessa natura. Eppure, niente di simile poteva nascere su questa Terra, se non attraverso la mano e l’opera dell’uomo.

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