Pescatore, non mettergli la mano nella bocca…

Monkfish

…Se vuoi riaverla indietro. Fra le acque dei mari del Nord nuota un pesce così mostruoso, tanto cattivo e brutto che mai nessuno, fin dai tempi antichi, aveva pensato di mangiarlo. Sembra un rospo con la bocca di una tartaruga, la coda di aragosta e gli occhi tondi di un tenero cucciolo di foca. Potevano chiamarlo in tanti modi: sgorbio, dragozzo, mozzicatopi oppure sgargamella. Ma siccome la fantasia popolare segue strane vie, l’hanno invece battezzato prete. Anzi, (pesce) monaco, dicesi monkfish. Lo strano ragionamento, a pensarci bene, potrebbe avere un suo perché. A differenza della maggior parte degli esseri marini, infatti, questo mostriciattolo ha entrambi gli occhi nella parte frontale della testa e una protuberanza ossea sopra la bocca, che pare quasi un naso: potrebbe a stento ricordare, quindi, un volto umano. E poi merita rispetto, come un vescovo o cardinale, questo temibile lophius. Pare infatti che la bestia abbia un riflesso inconsulto, praticamente automatico, che la porta a chiudere di scatto le sue forti fauci quando qualcosa, guarda caso, finisce per trovarcisi davanti. Come un pesciolino delle profondità, attratto suo malgrado dagli invitanti filamenti bioluminescenti che spuntano dal dorso del suo divoratore. Oppure, come una mano: questa, per esempio, che appartiene a uno sventurato pescatore russo, trasportato assai lontano dai forti venti del suo mestiere, addirittura presso la splendida regione di Rogaland, nella Norvegia occidentale. Questo luogo, pieno di fiordi, vaste spiagge e isole maestose, può vantare il più basso livello di disoccupazione di tutta l’Europa settentrionale: appena l’1,1%. I suoi musei, le feste di paese e i festival musicali ne fanno una meta preferita dal turismo internazionale. I fondali, ricchi di fauna rara e prelibata, sono altrettanto amati dalle reti a strascico dei pescherecci, che ne traggono tesori da rivendere successivamente, a peso d’oro. Il problema è quando, come dicevamo, in mezzo al bottino ci trovi questo coso qui, il monkfish. Allora chi chiamerai, ghostbuster?

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Il drago robotico più grande del mondo

Tradinno

Ci sono diversi modi per mantenere una tradizione; forse il più suggestivo è questo. Nel comune tedesco di Furth Im Wald, al confine con la Repubblica Ceca, da cinque secoli a questa parte si tiene la processione, festa e rappresentazione teatrale del Drachenstich, l’Uccisione del Drago. Le caratteristiche del programma parlano da se: 1500 persone coinvolte tra attori, figuranti e organizzatori. 750 bambini che sfilano in variopinti abiti d’epoca. 200 cavalli seguiti da quasi altrettanti carri storici, non allegorici. Tornei e accurate ricostruzioni di giostre medievali. E poi…Lui. Un robot animatronico, che sarebbe degno di un film de Il Signore degli Anelli non fosse che oggi, in quel campo, si fa tutto al computer. Che quasi ricorderebbe una macchina teatrale creata per il ciclo operistico dei Nibelunghi, se non per quel piccolo dettaglio. Ovvero l’essenziale capacità di muoversi liberamente attraverso un intero paese, camminando su quattro realistiche zampe. La sua performance, infatti, si svolge all’aperto. Tradinno è il dragone verdeserpe, scaglioso, sputafuoco, cornuto (e mazziato) del peso importante di 11 tonnellate, che dal 2007 ha preso il posto di quattro attori in costume, diventando il protagonista indiscusso di una delle più antiche rappresentazione folkloristiche di tutto il centro Europa. Piuttosto che da una caverna della Foresta Nera, Tradinno, il cui nome sarebbe un’amalgama tra “tradizione” e “innovazione”, proviene dalle officine tecnologiche della Zollner, rinomata compagnia di prototipazione e messa in opera meccatronica, con quartier generale nel pieno mezzo del land della Baviera. È frutto dell’appassionata progettazione da parte di 15 massimi esperti del settore, che dentro ci hanno messo di tutto. Nove unità di controllo modulare, ciascuna dotata di due processori DSP; un motore turbo-diesel da 2.0 lt, con la capacità di erogare 80Kw di potenza, più 10 di energia elettrica; due poderosi circuiti pneumatici, finalizzati alla deambulazione; l’organo fiammeggiante, che poi sarebbe una bombola del gas e l’essenziale sistema “di sanguinamento” con 80 litri di acqua colorata, da trafiggere all’occorrenza, con conseguente inzaccheramento dell’eroe di turno, fra il tripudio di tutti i presenti. Il drago è telecomandato.
Un conto è creare sistemi tecnici di supporto all’atmosfera di un evento, ma qui si è andato davvero oltre; un mostro simile, così perfettamente funzionale, toglie la voglia di fare gli eroi. Chi non vorrebbe, piuttosto, cavalcarlo?

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Elicottero che svuota una piscina

Pool Helicopter

Braga brucia. Nelle aree urbane, moderni assembramenti di edifici con grandi masse di persone, l’incendio è una minaccia costante. Può bastare un incidente stradale, una fuga di gas o un falò di foglie sfuggito al controllo del giardiniere di turno per generare una situazione potenzialmente grave, in grado di arrecare ingenti danni alla proprietà, se non addirittura pericolosa per tutti coloro che dovessero trovarsi o passare da quelle parti. Gli espedienti preventivi sono sempre quelli. L’amministrazione comunale piazza gli idranti sugli incroci. I privati e le aziende dispongono gli estintori all’interno dell’edificio; si fanno esercitazioni, si tracciano piani d’emergenza. Poi, nel momento della verità, un attimo di negligenza e a conti fatti possono succedere due cose: tutto risolto in pochi minuti, oppure l’imprevisto. Tempo di chiamare gli specialisti, che affrontino la situazione per terra e perché no, anche dal cielo. In fondo, come si dice, per salvarti la casa ci vuole l’elicottero. Se ne vedono molti, fra luglio e agosto, che sfrecciano da un arido disastro all’altro con l’iconico secchione pieno d’acqua, da versare spietatamente sui figli più spropositati del dio Efesto, signore mitologico di tutto ciò che possa dirsi in qualche modo igneo o divampante. Purché trovino il fondamentale quibus. Un rapido sguardo all’immagine satellitare della terza più grande città del Portogallo, culturalmente latina fin dai tempi dell’imperatore Augusto, dimostra facilmente l’origine del problema. Perché se c’è una cosa che manca, attorno allo scenario di questo improvvido fenomeno di combustione, sono gli specchi limpidi da cui attingere l’essenziale risorsa H2O. A mali estremi… Ecco un pilota che non ama farsi degli scrupoli. Se c’è bisogno di acqua, lui sa sempre come fare. Anche a costo di doverla tirarla fuori dalla piscina di una casa privata, tagliando quasi, con le sue pale, la verdeggiante cima di una siepe.

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L’uomo degli scheletri fioriti

Laquieze

Molte opere d’arte possiedono un messaggio logico e manifesto, evidente al primo sguardo di chiunque cerchi di studiarle. Perché parlano un linguaggio universale, quello della bellezza, matematicamente misurabile fino al decimo dell’unità. Il gusto del mostruoso, dal canto suo, va ricercato con passione. I pochi artisti che osano intraprendere questa strada, coraggiosi sperimentalisti del mondo visuale, rispecchiano gli ambiti meno apparenti della mente, perseguono finalità misteriose. Cedric Laquieze, il giovane olandese che realizza questi romantici agglomerati d’ossa animali e materia vegetale, rientra a pieno titolo in quest’ultima categoria. Dai suoi cadaveri lussureggianti zampilla il succo di un dualismo, una contrapposizione, che ha origini tanto antiche quanto fondamentali alla comprensione della stessa storia dell’umanità. Prendete, ad esempio, la serie delle sue fate e altri esseri leggendari. Oberon, re di quel mondo, vi ricompare come coleottero lucanide dalle ali di cicala, assiso sopra un trono d’ossa di pappagallo; che fine ha fatto l’elfo sapiente della commedia shakespeariana? È ancora lì, sottilmente nascosto. La chiave per tirarlo fuori non è poi così lontana, giusto l’esatta metà di un periodo millenario.
Tutto ebbe inizio, per l’appunto, a cavallo del quinto secolo dopo Cristo. Clodione detto il Chiomato, re del popolo dei Franchi Sali, aveva una moglie, Basina, che amava farsi il bagno nelle acque gelide dei mari del Nord. Siamo nella regione corrispondente all’odierna Olanda, in prossimità della foce del Reno, sede privilegiata di draghi sputafuoco, nani nibelunghi e altre astute diavolerie fluviali. Ma lei era di origine turingia e non sapeva. Fu così che malauguratamente incontrò una bestia, anzi no, la bestea Neptuni Quinotauri similis, quel figlio di Poseidone che aveva coda di pesce, corpo di uomo, testa di toro con cinque corna tutte intorno, un’insaziabile appetito per la battaglia e… Altre cose. Brutalmente, dunque, la violentò. Da quell’innaturale unione ben presto nacquero due figli: Meroveo, il guerriero, e Alberico, lo stregone. Dal primo ebbe origine una lunga dinastia. Dal secondo la figura di Oberon, gran signore di ogni Notte di Mezza Estate.

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