Che cosa è peggio di un palazzo ululante

Beetham Tower

Presso la ridente cittadina di Terrace, lungo il corso del fiume Skeena nella Columbia inglese, tra sequoie secolari. Presso il Giardino d’Inverno di Homel, un centro abitato bielorusso non così distante dalla centrale di Černobyl, che all’epoca dell’incidente irradiò terribilmente la regione. A Houston. A Denver. Di nuovo, Kiev. In luoghi urbani o in mezzo alla natura più selvaggia; all’ombra di montagne o in larghi spiazzi pianeggianti e in un periodo che si estende, grosso modo, dal 2005 all’anno attualmente in via di conclusione, durante il quale questo fenomeno è stato più forte che mai. Una questione definita a più riprese come “Lo strano suono udìto in vari luoghi della Terra”. Nelle descrizioni dei video che ne sono stati tratti per YouTube, letteralmente centinaia, si affollano le spiegazioni più improbabili: chi lo definisce simile a un UFO che atterra, altri vi riconoscono le trombe stesse dell’Apocalisse. Ma in realtà, era soltanto il vento.
Il fatto stesso che possa nascere una simile diatriba, in un’epoca e un millennio tanto proiettati verso il futuro, è l’ennesima dimostrazione di quante variabili influenzino l’ambiente naturale e di come persino una cosa tanto familiare, che da sempre esiste e che dovremmo conoscere davvero molto bene, possa coglierci del tutto impreparati nelle sue infinite variazioni. E come l’occulta complicazione riesce a colpire e tanti improvvisati scopritori del sovrannaturale, lo stesso avviene per chi progetta ambienti per mestiere, l’estremamente informato, sempre attento autore di edifici. Architetti che studiano per una vita carichi e portate, iconostasi e impiantiti, fino all’acquisizione di un preciso repertorio di quello che può essere idealmente costruito, in determinate condizioni e nello spazio disponibile per il progetto, fino a perdere di vista a questione del SE, fosse davvero il caso di dare una forma a una particolare cosa. È una situazione veramente sfortunata. Si tratta di un incidente di percorso che difficilmente si poteva prevedere. Una dannazione, terribilmente persistente, che ha colpito gli abitanti di Machester a partire dal 2006, con la conclusa costruzione della Beetham Tower, uno dei grattacieli più sottili il mondo, nonché il 12° più alto dell’intero Regno Unito, superato unicamente dai colossi edilizi della capitale. Si tratta di una storia, lanciata dai giornali locali per la prima volta poche settimane dopo l’inaugurazione, che periodicamente viene fatta rimbalzare ad opera agenzie di tutto il mondo, cogliendo sempre in contropiede l’opinione pubblica distante, che mai e poi mai, si sarebbe immaginata l’esistenza di un simile problema. Che a conti fatti, se davvero vogliamo considerare le remote implicazioni, non è neppure la peggiore inaspettata caratteristica di un alto palazzo inglese, quando si considera l’alternativa ancora più terribile del 20 Fenchurch Street di Londra, che invece d’incanalare l’aria si dimostra il dominatore di un ben più problematico elemento…Ma non affrettiamoci eccessivamente. Prima di analizzare l’alternativa, vediamo esattamente che cosa sta succedendo nella città che fu celebre per la sua produzione tessile meccanizzata, durante l’epoca della prima rivoluzione industriale.
La Beetham Tower, di proprietà dell’omonima compagnia d’investimenti, è il prodotto dello studio di architetti con sede locale SimpsonHaugh and Partners, e in particolare nasce dalla visione di Ian Simpson, uno dei principali fautori del grande rinnovamento urbanistico iniziato nel 1994. Parzialmente anche sua fu infatti l’opera di un piano per la ricostruzione del centro cittadino intitolata A Guide to Development in Manchester, concepito per ricongiungere in spazi comuni la parte sud della città, più ricca, con quella sita a nord. Un progetto fortemente voluto da Lesley Chalmers, direttrice del consorzio Hulme Regeneration Ltd. e che avrebbe portato, negli anni immediatamente successivi, al totale rinnovamento della storica area di Cathedral Street, con l’edificazione di una grande piazza e parco cittadino. Ma che non includeva, almeno in origine, il piano per un grattacielo alto 169 metri nel quartiere centralissimo di Deansgate, un qualcosa a cui la popolazione locale non poteva dirsi, nei fatti, ancora pronta.
Il piano fu infine proposto al Consiglio Comunale di Machester soltanto nel 2003, con il prestigioso supporto dell’English Heritage Trust, un’organizzazione accademica posta a tutela dei beni culturali. In breve tempo, fu dato il via libera e il grattacielo cominciò a prendere forma.

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Quando Kyoto brucia tra la gioia della gente

Hi no Matsuage

Di ritorno dalla grande caccia, il sommo Izanagi fuoriuscì dagli alberi della foresta del Cielo, in sella al sacro cavallo, con l’arco divino stretto in una mano e l’altra a farsi scudo dalla luce dall’astro nascente dell’unica ed infinita alba, in questo mondo ancora privo di una dea del Sole. Dinnanzi a lui, nel mezzo della valle ricoperta dai fiori d’ibisco, sorgeva il magnifico palazzo Yahiro-dono, dai tetti aguzzi ricoperti da maestose tegole, con figure di draghi, fenici e nuvole di terracotta. Egli si voltò brevemente, per osservare il suo ristretto gruppo di servitori, quattro spadaccini ed un lanciere, che s’industriavano nel trasportare la grande carcassa del Qilin, la belva chimerica con corpo scaglioso, testa di drago e zoccoli da cervo, le sue corna ramificate anch’esse simili a quelle di una tale bestia del reame sottostante. Con gesto imperioso, il dio fece cenno agli uomini di proseguire verso la dispensa ultraterrena. Poiché egli, d’improvviso, aveva percepito un grido trasportato dall’aria, come di una donna che gridava la sua rabbia ed impotenza. Assicurato l’arco alla sua sella, galoppò veloce lungo le pendici, verso la grande veranda della sua dimora, da cui tante volte aveva osservato la Luna assieme alla sua consorte, la splendida Izanami-no-Mikoto, Colei che Riceve. Giunto a pochi metri dal tatami rialzato sopra il suolo del giardino, il Dio balzò giù dalla cavalcatura, e in un solo fluido movimento sembrò disgregarsi, per riapparire con incedere maestoso, la veste agitata dal vento, il volto severo e determinato.  Sull’apertura che conduceva alla sala centrale del palazzo, tuttavia, dovette fermarsi poiché lì, con immediato senso d’angoscia, notò la presenza della somma levatrice inginocchiata, con la fronte che toccava terra e le braccia divaricate, poste a sostenere il peso della sua vergogna senza fine. Con la voce stravolta dai singulti, la vecchia faticosamente parlò: “Mio Signore! Come avevate previsto nella Vostra infinita saggezza, la Signora ha dato i natali a un altro essere sovrano… Kagutsuchi, il dio del Fuoco. Tuttavia, si è verificata una terribile tragedia! Adesso lei è, è…” Izanagi resto immobile per tre, quattro secondi. Quindi con un semplice gesto imperioso, chiamò il vento che scaraventò la levatrice in fondo al corridoio, sfoderando la sua luminosa spada in ferro meteoritico, mentre l’infelice servitrice, manifestazione del suo stesso desiderio di creare la vita, già accettava il suo destino. Ma con somma sorpresa di quest’ultima, il dio voltò di lato, per dirigersi verso gli appartamenti di Izanami, dove la disgrazia si era compiuta. Il sollievo lasciò allora il posto allo sgomento, quando apparve chiaro ciò che stava per succedere. La levatrice, i capelli bianchi sciolti dall’impatto subìto, si affacciò zoppicando sulla sala antistante, appena in tempo per assistere alla scena: il sommo dio era di schiena, intento ad osservare questo suo ultimo indesiderato figlio. Kagutsuchi era fuoco puro, la capigliatura di scintille, gli occhi simili a dei pozzi incandescenti. La piccole manine artigliate, simili a quelle di un tanuki mutaforma, protese verso il dio paterno con la ferrea spada in pugno. Il corpo della partoriente Izanami, gravemente ustionata, giaceva in un angolo, momentaneamente dimenticato. D’un tratto, si udì risuonare una singola parola: “No.” Allora Izanagi, colpì. In un solo fluido movimento, fece il neonato in due volte quattro pezzi, che con suono roboante parvero ingrandirsi a dismisura, poi scomparvero precipitando attraverso il pavimento. Ciò perché l’uccisione di un sommo essere, naturalmente, risultava del tutto impossibile. Questo, la levatrice lo sapeva molto bene. Quando il suo signore finalmente si voltò a guardarla, lei comprese ciò che era appena successo: il dio del fuoco era stato suddiviso in otto vulcani, che da quel giorno sarebbero sorti nei territori sottostanti, lungo l’arcipelago che aveva il nome di Giappone. Tale si era dimostrata la sovrana Volontà.
Non c’è davvero da sorprendersi, a ben pensarci, se nella maggior parte delle mitologie l’origine del fuoco ha sempre una storia drammatica e terrificante, tale da condurre a un senso d’angustia i bimbi prima dell’ora di andare a dormire. Tra tutti gli elementi, questo è infatti il più potente, ed al tempo stesso terribile, ustionante, belluino, che tuttavia conduce l’uomo a ciò che egli fondamentalmente, è. Così fu deciso ce le genti di Yamato non avrebbero mai conosciuto la sua somma personificazione, poiché bastavano le sue manifestazioni terrigene, per fare danni senza fine. Ciò perché smembrando Kagutsuchi, il padre aveva in realtà ottenuto l’effetto contrario all’esorcismo desiderato, assicurandosi in realtà che un tale essere si diffondesse fecondo per le quattro direzioni cardinali, dando l’origine remota ad infiniti e orribili disastri. Con il passare delle generazioni, finì l’era degli dei e iniziò quella degli uomini. Attraverso innumerevoli tribolazioni, la gente di Yamato crebbe in saggezza e raffinatezza, fino a stabilire i crismi di quell’epoca che ha il nome di Heian, in cui poetesse nazionali raccontavano le storie di un amore senza tempo, tra gli edifici di una capitale quale il mondo non aveva mai veduto prima. Finché nel 940, le porte di Kyoto non si spalancarono di scatto. Il dio del fuoco era tornato, per esigere vendetta.

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La strategia dei ragni che impugnano la propria tela

Deinopis

La tecnica di caccia dell’aracnide gladiatore è così attentamente perfezionata, nei metodi e le procedure, che tende a suscitare nel pubblico del web un istintivo senso d’ansia, cui fa generalmente seguito un debole tentativo di sdrammatizzare grazie all’ironia. “Ah, ah, ah. All’improvviso mi sento osservato. Che…Strano” Oppure: “Se fossero lunghi diciamo due metri, puoi contarci, la razza umana si sarebbe estinta da un bel pezzo!” Esclamazione spesso seguìta dalla classica serie di invettive, ormai di carattere più memetico che personale, contro tutto quello che abbia otto zampe che si diramano dal proprio addome e due cheliceri assassini, usati per colpire prede piccole o in alternativa, per lo meno nel senso comune collettivo, piombare sugli umani impreparati, allo scopo d’iniettare orribili veleni. Ora, la realtà è che gli appartenenti il genere Deinopis, talvolta anche chiamato dei ragni lanciatori o “dalla faccia di demone”, per il paio d’occhi frontali bulbosi e sporgenti, non sono dotato di armi chimiche particolarmente nocive, tanto che non si riportano notizie di morsi ai danni di persone. E questo per il semplice fatto che, grazie alla loro straordinaria tecnica per procurarsi il cibo, di simili rischiosi implementi non ne avrebbero neppure la necessità. Pensate che la loro ragnatela, se così può essere ancora chiamata, non è nemmeno appiccicosa!
C’è questa presunzione, estremamente tipica di noi altri umani, secondo cui l’intelligenza delle creature vada misurata unicamente nella somiglianza dei loro processi cognitivi ai nostri. Il che ci porta, generalmente, a tenere in maggiore stima un barboncino che riesce ad eseguire tutta una serie di numeri e graziose acrobazie, rispetto alla volpe che trova un’apertura nella recinzione, striscia silenziosamente tra gli edifici della fattoria e s’insinua nel pollaio, per ghermire una gallina o due. Secondo questa metrica, nulla dovrebbe essere più anonimo e incolore dell’aracnide medio, una creatura perfezionatasi attraverso secoli di evoluzione per compiere il particolare gesto d’intessere una trappola, poi porsi nel suo centro ed aspettare. Peccato che esistano particolari specie, a questo mondo, che non fanno assolutamente questo. Tra cui, per l’appunto, l’erede concettuale del retiarius, quella figura combattente e/o teatrale (le opinioni sono divergenti, ormai da quasi un secolo) che entrava nell’arena dei romani armato di un tridente in una mano, e un equipaggiamento simile a una rete da pesca nell’altra, usato per intrappolare l’avversario, che il più delle volte poteva essere il mirmillone o il trace. Mentre in quest’epoca di artropodi guerrieri, spesse volte è il grillo ensifero o la cavalletta, creature dalla massa facilmente pari o superiore a quella del temuto predatore di 25 mm (la femmina, 23 il maschio) che deve quindi catturarli giocando sapientemente d’astuzia. Così il suo piano tecnologico, eternamente ripetuto, prende il via al tramonto.
I ragni del genere Deinopis sono piuttosto timidi, soprattutto in funzione delle loro limitate capacità di mimetismo. Possono essere talvolta avvistati sotto le foglie dei giardini delle aree tropicali e subtropicali del mondo, con le due specie più famose rispettivamente attestate nel sud degli Stati Uniti e in Venezuela (D. Spinosa) e nella parte orientale dell’Australia e della Tanzania (D.Subrufa) che oscillano lievemente nel vento attaccati ad un filo, tentando per quanto possibile di ricordare dei rametti. Ma la loro attenzione, in quei momenti, è sempre orientata alla creazione del particolare strumento che gli permetterà di sopravvivere ancora una volta, il prodotto dei seritteri sulle sue zampe e del cribellum, una struttura che gli permette di separare le fibre di seta combinandole in una struttura lanosa. Più resistente, ma soprattutto, più elastica. Il che diventerà assolutamente fondamentale, di lì a poco.

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Dove vanno a finire le biciclette d’Olanda

Fishing Bikes

Nel frattempo ad Amsterdam… Stof tot stof: polvere alla polvere. As tot as: cenere alla cenere. Pneumatico alla gomma vulcanizzata. Telaio al blocco d’alluminio. Da ferro speso, ormai coperto dalla rugine del tempo, a materiale pronto da forgiare per nuove creazioni, ritornate finalmente utili alla scopo. Ciò che eri, tornerai di nuovo, morbido sellino. E così tuo fratello, il rigido manubrio. Però consideriamo, prima, le ragioni di contesto. Chiunque abbia mai tenuto il passo di un timone, navigando tra le onde degli oceani senza vie ciclabili, avrà percepito il segno e il peso dell’antichità: sulla sabbia e tra gli scogli, centinaia, migliaia di decine di imponenti imbarcazioni, un tempo la ragione dell’orgoglio di marine di ogni nazionalità, ormai ridotte a luridi rottami, sprofondati per le cause sfortunate di tempeste, manovre improvvise, la semplice usura che deriva dall’aver dimenticato il punto dell’approdo, a seguito di un cambio della dinastia. Eppure mai nessuno le avrebbe volutamente abbandonate, simili miniere d’oro pronte a quel riciclo, cui alludevo poco sopra, che può dare la ragione d’esistenza all’ennesima generazione dei natanti, nuovamente pronta a visitare coste dei paesi più remoti. Con l’occhio del più vero cercatore di tesori, soprattutto ciò che è spento e rovinato, scrostato e al tempo stesso ricoperto di telline, può meritare di essere salvato, per tornare nuovamente dentro al ciclo di utilizzo degli umani. E… Una bicicletta. Cos’è il tipico veicolo che impiega la potenza muscolare, se non l’imbarcazione di chi naviga nel quotidiano, rifiutando orpelli motoristici e costosi! Splendido, fiammante ammasso di risorse e funzionalità, nel giorno dell’acquisto ormai remoto, progressivamente destinato a sprofondare, come tutto, verso gli abissi impercettibili dell’entropia. Ovvero la discarica, nella MAGGIOR parte dei casi. Esatto, un destino ben più banale di questa metafora marittima della domenica mattina. Non c’è tomba liquida nell’esìzio di un veicolo a pedali. A meno di trovarsi, nel preciso attimo presente,  presso la città talvolta definita “Venezia del Nord” (dell’Europa, non semplice cima dello stivale) un altro luogo in cui acque e case coesistono felicemente, senza che le prime erodano le fondamenta delle seconde. Il che già è un tutto dire. Mentre non è insolito, come potrete immaginare, che il canale si trasformi in disponibile, accogliente discarica, per tutto ciò che ha terminato la stagione della sua esistenza. A torto o a ragione, visto come quasi ogni cosa, dopo tutto, possa dare luogo all’utile processo del riciclo.
Si potrebbe descrivere, volendo, come una sorta di pesca miracolosa. Gli operatori della Waternet, agenzia di stato olandese che si occupa, tra le altre cose, di effettuare la manutenzione delle vie acquatiche cittadine, si trovano alle prese con la loro singola mansione più affascinante, alla guida di una doppia chiatta veramente insolita, appositamente concepita per lo scopo. Che è rimuovere uno stratum, straordinariamente sorprendente, eppure eternamente rinnovato giorno dopo giorno, a seguito dei casi più diversi. Sotto l’occhio affascinato dei turisti, ma anche degli abitanti locali, perché una cosa simile non cessa mai di suscitare un senso di sorpresa, nel rimorchio sorge un cumulo, alto e gibboso, fatto di ruggine e metallo, ruggine con il metallo. Le cui singole parti costituenti, sono velocicli. Lo stesso gesto di una simile estrazione, ha un che di veramente straordinario. Sulla prua del primo natante è stata infatti collocata una gru con pinza, non così diversa da quelle tipiche del luna park. Colui che la manovra, quindi, sembra intento nella singola mansione professionale più divertente del mondo! A iterazioni ripetute, lo strumento cala in mezzo ai flutti, chiude la sua morsa. Senza un grammo di fatica, il manovratore tira la sua leva, vedendo riemergere di fronte a lui…Diverse cose. Vecchi elettrodomestici, carrelli della spesa, componenti metallici d’arredamento. Ma soprattutto, anzi quasi esclusivamente biciclette. Volete sapere quante ne riemergono, ogni anno, dai canali della sola Amsterdam? Secondo l’intervista dell’estate del 2015 di Public Radio International (PRI) a Jan de Jonge, uno dei tecnici della Waternet, si parlerebbe di 15.000 unità. Quindici migliaia di veicoli a pedali: cifre da far girare ben altro, indubbiamente. Ma a questo punto appare lecito chiedersi, perché succede questo? Si tratta di uno strano virus che occasionalmente contamina la gente d’Olanda? Una sorta di propensione collettiva all’auto-privazione, dopo la privazione delle auto? Più meno. Non esattamente.

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