Una fortezza per difendere l’America dai suoi nemici

Fort Jefferson

Montagne alle mie spalle, mare innanzi a me. Chiunque voglia tentare la fortuna per venire a togliermi il fucile, dovrà attraversare 20, 30 metri di spiaggia bruciata dal Sole, ponendo la sua sagoma nel centro del mirino. Possibile? Probabile? Quante volte, davvero, nella storia dell’umanità, è riuscita l’invasione d’oltremare di una terra simile a un bastione naturale… Poche, pochissime! Ma ciascuna, grandemente celebrata e impressa nella mente degli interi popoli coinvolti. Di certo, non tutti i mari sono uguali. E pur considerata la pessima reputazione della Manica, il valico dei popoli  e del tempo, è innegabile che fu proprio quel tratto, fra i tanti disponibili, a vedere il transito di alcune delle forze armate destinate a far deviare il corso della storia. Vedi Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia, che poco dopo l’anno mille radunò all’incirca 8.000 uomini su 700 navi, per cancellare un’ingiustizia e conquistare il trono d’Inghilterra. O ancor lo sbarco in senso opposto, condotto all’apice della seconda guerra mondiale dalle forze degli alleati sull’Europa in mano ai totalitarismi, il 6 giugno 1944 presso quel di Omaha Beach. Ma se siamo qui a citare due successi, è certamente perché questi erano siti ai lati estremi dello spazio cronologico, quando (a) – non esistevano i mezzi tecnici per difendere un’intero tratto di costa, oppure (b) – l’impiego di tecnologie moderne, quali l’aviazione e l’artiglieria, permettevano di renderle in qualche modo vane. Sebbene al costo di parecchie vite umane. Ma basta prendere in analisi un qualsiasi momento degli intercorsi 9 secoli e mezzo, per trovare la storia d’innumerevoli potentati o città stato site sulla costa, magari circondate dai nemici su ogni lato, che tuttavia mai nessuno si sarebbe immaginato di assalire. Mentre l’introduzione della polvere da sparo, in un primo momento, non fece che esacerbare la questione. Un vero forte a stella, dotato di barbacani (preminenze murarie) su ogni lato, poteva scaricare sul nemico in faticosa avanzata un quantità di palle o bombe virtualmente illimitato, distruggendone il morale prima ancora che questi potesse avvicinarsi per scalare quelle avverse mura. Durante la guerra russo finnica del 1809, la celebre fortezza di Sveaborg poté resistere all’assedio dei cosacchi e dell’intera armata di Alessandro I per un periodo di due mesi, nonostante i pochi fondi di cui aveva potuto disporre e i rifornimenti conseguentemente limitati, prima di dover capitolare per ragioni per lo più politiche, e contro il volere del suo comandante. In forza di simili considerazioni, e dopo l’esperienza della guerra contro gli inglesi del 1812, i giovani ed emancipati Stati Uniti decisero quindi di fornirsi anche loro di possenti e invalicabili bastioni, per proteggersi dall’evidente esuberanza dei maggiori potentati europei. In alcuni dei punti strategici di accesso al continente, già esistevano delle antiche basi militari, come quella di Fort Monroe sulla punta estrema della penisola della Virginia, punto di sbarco elettivo per le flotte provenienti dall’Atlantico Settentrionale. Qui le fortificazioni furono ampliate e rese maggiormente solide, per meglio resistere nell’immediato, ipotetico futuro di guerra. Mentre il altri luoghi di evidente importanza, all’epoca non c’era essenzialmente nulla, tranne spiagge assolate, uccelli migratori e tartarughe.
Pensate, ad esempio, al tratto di mare antistante alla Florida. Un’altra terra peninsulare che essenzialmente costituisce, con la sua naturale collocazione geografica, una delle due porte d’accesso verso le preziose acque del Golfo del Messico, un luogo di transito fondamentale per tutti i commerci dei Caraibi resi celebri nell’era delle grandi esplorazioni. Un punto di passaggio, sopra Cuba, dove lo stabilirsi di un’ipotetica base operativa delle forze d’invasione avrebbe potuto, nel giro di pochi mesi, paralizzare l’intera economia delle colonie unite. Così fu chiaro, in quel fatidico momento storico, che lì occorreva costruire un forte. E che questo sarebbe stato, all’epoca della sua costruzione, tra i più temuti e formidabili del mondo. Ma la via, nonostante tutto, fu piuttosto travagliata. Il primo studio di fattibilità per il progetto fu condotto nel 1824 dal commodoro David Porter, incaricato dall’ammiragliato di contrastare l’ancora dilagante pirateria di questi luoghi, trovando un luogo d’approdo valido per le navi della flotta, che potesse essere utilizzato per rifornirsi e riarmarsi tra un pattugliamento e l’altro. Egli allora individuò, all’estrema propaggine dell’arcipelago delle Florida Keys, la sottile striscia d’isole che si protende ad ovest delle Bahamas, una terra totalmente priva di insediamenti, e naturalmente  protetta dalla furia dell’oceano e degli uragani. Si trattava delle Dry Tortugas, famosamente scoperte nel 1513 dall’esploratore portoghese Juan Ponce de León, che gli aveva dato il nome in funzione di due cose: i circa 200 rettili col guscio che aveva catturato, per l’esportazione e la vendita presso le istituzioni scientifiche di mezzo mondo, e la totale assenza di acqua dolce in questi luoghi, un dato semplicemente fondamentale per qualsiasi navigante che transitasse da quelle parti, al punto da dover essere incluso in ogni carta nautica futura. Il suo collega di un’altra epoca e nazionalità quindi, quasi tre secoli dopo, non poté far altro che riscontrare le stesse problematiche, arrivando alla conclusione che giammai, in quel luogo derelitto e inospitale, gli Stati Uniti si sarebbero trovati a costruire un forte! Davvero egli non sapeva, quanto era distante dalla verità…

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Il segreto per far muovere le uova decorate

Eggstatic

Pasqua, tempo di rinascita. Per Padri, Figli, Spiriti Santi…Ed anche, all’altro lato dello spettro, mostri senza volto, nome o un’epoca di provenienza. Secondo una credenza degli Hutsul, popolazione indigena dell’Ucraina Occidentale, sotto le montagne dei Carpazi è incatenato un colossale serpente, il cui agitarsi causa frane o terremoti. Ogni anno, con il sopraggiungere della stagione primaverile, esso invia i suoi dodici servitori nel mondo, affinché gli dicano se è giunto il suo momento. Pare infatti, per quanto sia incredibile, che la lungamente temuta liberazione della bestia sia in realtà unicamente connessa alla nostra capacità di mantenere una particolare tradizione. Finché gli esseri umani continueranno a decorare delle uova offerte alla memoria del Salvatore, recita la profezia, quelle scaglie non potranno mai conoscere la libertà. Se invece i messaggeri dovessero trovare nelle città e nei paesi una quantità insufficiente di pysanky (questo il nome della relativa arte nell’idioma locale) questi faranno subito ritorno nell’oscuro labirinto sotterraneo, ghignando con diabolica soddisfazione. Per allentare, come concessogli da un patto molto antico, le catene del loro padrone, che in tutta risposta potrà muoversi di qualche metro in più, causando ulteriori orribili disastri naturali in giro per il mondo. Se poi un giorno, addirittura, non dovesse venire riscontrata l’esistenza di una sola singola pysanka, allora, una calamità suprema ed orribile cadrà sopra di noi! Perché il draco sarà finalmente libero. E allora l’universo intero, conoscerà finalmente la sua grande fame. Sembra una situazione estremamente precaria, a descriverla in questa maniera. Ma non temete: innanzi tutto, perché la decorazione del tipico guscio che produce la gallina, o di altri uccelli più imponenti o nobili, è diffusa in innumerevoli paesi, e per di più comune sia al Cristianesimo d’Occidente che a quello Ortodosso. Per il quale ultimo, incidentalmente, la Pasqua deve ancora arrivare, per il fatto che una semplice espressione come: “La prima domenica dopo la prima luna piena dopo l’equinozio” è in realtà condizionata da fattori di contesto, quali il calendario utilizzato (giuliano, gregoriano) ed il tipo di fase presa come riferimento, che può essere astronomica o ecclesiastica (formale). Per non parlare dei diversi tipi di equinozio, non sempre corrispondenti all’effettivo moto dei pianeti, fissati dalle due culture in date differenti. Quindi, c’è ancora tempo! Pensate che quest’anno, addirittura, l’attesa festività giungerà in tali paesi unicamente per il primo di maggio…
Nel frattempo, il secondo motivo per cui conserviamo la facoltà di farci beffe degli sforzi del diabolico rettile, eternamente condannato nel suo esilio sotterraneo, è di un tipo più contemporaneo e tecnologico. Esiste in effetti, strano a dirsi, un metodo automatico per fare le pysanky. Come una sorta di macchina CNC, o per usare un termine più casalingo, la stampante del nostro PC. Prodotto e messo in commercio da niente meno che la Evil Mad Scientist Laboratories, in collaborazione con l’artista americano di fama Bruce Shapiro, a cui per primo venne l’idea. Il suo nome, neanche a dirlo, è già un programma: EggBot. Per usarlo basta sostanzialmente prendere l’ovetto, e metterlo sopra un apposito bastoncino motorizzato. Quindi inserire la propria programmazione nella macchina, che tramite alcune agili movenze del proprio braccio meccanico, impiegherà la selezione ritenuta appropriata di matite o pennarelli per creare un qualche tipo di magnifico design. Datelo in mano al mondo delle aziende, un simile strumento incomparabile, ed avrete unicamente in cambio un sacro logo stampigliato sulla superficie candida del pegno di sedere di gallina. Fornitelo magari ad un creativo, e quello lo userà per esprimere le proprie idee, per la prima volta, lungo la superficie curva della più semplice e comune meraviglia naturale. Ma che succede se a disporre di un simile apparato, per gli alterni casi del destino, fosse invece la facoltà di Ingegneria Elettronica dell’Università di Praga? Ce ne saranno, assai probabilmente, da vedere delle belle. Come dimostrato, guarda caso, in questo video più che mai intrigante, nel quale Jiri Zemanek (Prof.? Ric.? PhD?) procuratasi del tempo di utilizzo dell’Eggbot, lo mette al servizio delle sue equazioni preferite, costruite e messe alla prova grazie all’ambiente di programmazione MatLab, attorno al concetto di spirografia applicata al mondo naturale (Fillotassi: l’armonia naturale delle cose viventi). Il risultato è…Ipnotico, a dir poco.

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Apriti Google: un viaggio a 360° nel covo segreto del web

Data center 360

Dev’esserci stato un momento, in un’epoca lontana ma non troppo, in cui si è creduto che l’intelligenza dei computer fosse priva di un limite di contesto. E che le variabili fossero unicamente la quantità e il tempo: così come nella celebre novella teorica delle infinite scimmie, che battendo a caso su altrettante macchine da scrivere, “prima o poi” avrebbero molto probabilmente riscritto l’Amleto (dove tale intervallo poteva anche richiedere generazioni), qualcuno, o per meglio dire qualche entità aziendale, ad un certo punto ha preso tutti i suoi computer. Grandi, piccoli, potenti oppure no; quindi li ha portati in una stanza e collegati assieme. E al momento di accenderli, dopo una lunga pausa davanti alla macchinetta del caffè, ha pregato con un’enfasi importante. Che l’interfaccia del monitor usato per parlare col sistema, all’improvviso, scomparisse di sua propria iniziativa. Per essere sostituita da un volto divino, perché no, pronto a pronunciare la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e…Si, è una vecchia storia. Di pura, sconfinata, incommensurabile e completa fantasia. Perché un PC, per non dire la sua versione inamovibile dei primi anni dell’informatica, o la sua evoluzione iper-specializzata dell’odierna sala server, non è mai stato una creatura poco intelligente. Ma piuttosto, un semplice oggetto, in qualche modo capace di simulare il quantum dell’autocoscienza, ovvero una sorta di sfuggente raziocinio. Il che non significa, del resto, che metterne assieme tanti, sia stata un’impresa priva di significato. Giacché, come nel celebre romanzo umoristico dell’autore inglese Douglas Adams, la Guida Galattica per Autostoppisti parte II, non è possibile arrivare alla domanda. Ma se la risposta è un numero…I computer… Ora, ovviamente, nella realtà dei fatti fuori dalla quarantaduesima pagina del quarantaduesimo volume, sarà una cifra molto grande. Talmente lunga da calcolare, e quasi inavvicinabile, che soltanto una quantità infinita degli uomini più intelligenti del pianeta, rinchiusi in una stanza, potrebbero giungere a comprenderne una parte pressoché infinitesimale. E ciò, se pure gli va bene. Ma che dire, di quell’altra metodologia…
Così ebbe ad evolversi, l’occulto e misterioso Sancta Sanctorum delle odierne compagnie, fino al raggiungimento di uno stato di coscienza (di prescienza) superiore. E chiunque abbia frequentato, anche soltanto per un breve periodo, il mondo dell’IT aziendale, ben sa che ce ne sono di ogni tipo. Talvolta un semplice armadietto, con dentro qualche router o un paio di switch. Oppur nel caso opposto, un’intera stanza, rigorosamente priva di luce e rimbombante del ruggito dell’aria condizionata, onde evitare il surriscaldamento dell’intero ambaradàn. Il data center è spesso totalmente buio, per risparmiare la corrente. La sua porta viene raramente aperta. Occasionalmente, tra gli alti cabinati carichi di cavi, si aggira la figura di un custode pallido, l’addetto alla manutenzione informatica, che nessuno ha visto in volto fin dall’ultima riunione sindacale. E se c’è un aspetto interessante di una tale cosa, un luogo addetto al calcolo della somma sapienza, è il suo essere naturalmente modulare, in quanto scalabile sulla fondamentale base del bisogno. Da un singolo ambiente a tutto un piano, quindi una pluralità di questi, infine, interi edifici. Così, di pari passo alla salita di un titolo borsistico determinante, un’altra stanza che poteva essere usata dagli umani viene assimilata, resa buia e messa sotto chiave. Per contribuire alla ricerca senza fine della cifra complessiva degli angeli, o dei diavoli del mondo. Ma tutto questo, è naturale, avviene all’insaputa della collettività. Ed è anzi, totalmente ignoto addirittura ai progettisti e agli ingegneri stessi di un simile meccanismo arcano, che di esso sfruttano soltanto la funzione meramente basica, l’utilità senza significato. E così: “Vedi, Sandeep…” Il nostro Virgilio in questo caso è un dipendente di etnia indiana: “Questo è il nostro data center. Ce ne sono molti come lui. Ma questo è migliore.” Apoteosi. Anzi, l’opposto: anti-deificazione (per non dir defecazione) sul concetto mistico e sacrale di cui sopra, per mostrarci, con finalità probabilmente pubblicitarie (in effetti è poco chiaro) la realtà di un tale luogo, e nello specifico l’installazione di Dalles, Oregon, proprietà niente meno che di Google, l’azienda per cui tutti vorrebbero lavorare. Senza neppure conoscere quello che fa. Il tutto per di più assistito, tra il probabile entusiasmo collettivo, dall’impiego di un sistema nient’affatto nuovo, ma che negli ultimi tempi sta minacciando di farsi preponderante. Il video ruotabile a 360°, tramite gesti saettanti del mouse, oppure ancora meglio, ri-orientando il proprio sguardo grazie all’uso di un visore virtuale. Va pure bene, anzi viene addirittura consigliato, il semplice Cardboard, il sostegno di visualizzazione adatto a molte tipologie di cellulare. Giacché tali dispositivi, nell’era contemporanea, sono già dotati degli adatti ausili giroscopici e sensori. Mentre noi dovremmo credere che fosse un caso?

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Estate 2016: la lunga stagione delle zanzare robot

SCAMP Robot

Molte parole sono state spese sulla presunta inutilità del dittero succhiasangue, che disturba le nostre notti, si riproduce con estrema efficacia e talvolta finisce per diffondere problematiche malattie. Piccole forme saettanti, appena visibili nella luce del Sole al tramonto; creature ronzanti (persino il rumore dà fastidio!) che ben pochi esitano ad uccidere, persino tra coloro che si dicono amanti degli insetti. Perché in fondo, cos’ha di paragonabile, la vicina genetica del pappatacio o del flebotomo comune, con un utile e benamata ape, o persino una feroce vespa predatrice, che per lo meno elimina la diffusione di altre piccole creature invasive…  Esse semplicemente sono, e attraverso quel fitto e insistente svolazzare, mettono alla prova l’umana pazienza? Certo. Eppure, a volerla comprendere, c’è anche un’utile lezione che possiamo apprendere dalla vicenda esistenziale di simili creature. Se c’è qualcosa di cui sarebbe difficile dubitare, in effetti, è proprio la sua efficacia nel portare a termine quello che fa. Un animale parassita, naturalmente, dovrebbe essere del tutto incapace di sopravvivere sulle sue forze, totalmente incapace di procacciarsi il cibo sulle sue forze. Mentre la forma della zanzara, per invertire una famosa citazione del web sul calabrone, attribuita, a seconda dei casi a personalità del calibro di Albert Einstein o Marilyn Monroe, è perfettamente adatta a volare. E lei lo sa benissimo. Come anche il qui presente robotista, parte del gruppo di ricercatori del laboratorio BDML dell’Università di Stanford (Biomimetics and Dextrous Manipulation Lab) il quale ne ha ripreso le caratteristiche assieme ai suoi colleghi, per creare un dispositivo volante che non solo rivoluziona il concetto di drone, ma apre la strada a numerose innovazioni tecnologiche che di qui a pochi mesi potremmo anche ritrovare nei campi più diversi, incluso quello militare.
C’è un che di lievemente inquietante, in effetti, nel vedere il gesto disinvolto con cui il  giovane lascia decollare il suo SCAMP, questo l’acronimo del robo-quadricottero, dal palmo aperto di una mano, soltanto per vederlo fluttuare verso il muro ed attaccarvisi, iniziando la sua inesorabile scalata verso la cima. La suggestione è un po’ la stessa creata a suo tempo dalla scena del film Dracula di Bram Stoker, con l’attore Gary Oldman nel ruolo dell’improbabile Conte, che risaliva la torre del castello aggrappandosi come una sorta di gigantesco ragno umano. Ed anche l’utilità, sostanzialmente è quella: giacché possiamo presumere, nell’analisi scientifica di quell’altro goloso d’emoglobina, che la “modalità pipistrello”, per così dire, comporti un dispendio di energie vampiresche relativamente congruo. Mentre possiamo presumere che sfruttare la propria agilità e forza sovrumane, per aggrapparsi alle asperità di un vecchio maniero e fare ritorno alla propria bara (rigorosamente prima dell’alba) sia un’impresa assolutamente da nulla, per il signore delle tenebre perennemente redivivo. Lo SCAMP ad ogni modo, nonostante il suggestivo acronimo, che sta per Stanford Climbing and Aerial Maneuvering Platform ma significa anche un qualcosa di affine a “simpatico malandrino”, è uno strumento creato rigorosamente al servizio del bene. Come già altri progetti comparabili fuoriusciti dallo stesso ambito accademico, la sua presunta finalità in tale forma sarà l’assistere in caso di disastri naturali, volando sulla scena per effettuare rilevamenti e trovare i sopravvissuti. Con in più il vantaggio aggiunto, come dicevamo, di poter risparmiare la limitata energia a disposizione nelle sue piccole batterie, posandosi a riposare sulle superfici verticali, prima di spiccare nuovamente il volo verso località maggiormente accoglienti. Così facendo, inoltre, potrà aggrapparsi e salire verso l’alto, guadagnando quota senza ricorrere alla dispendiosa accensione continuativa delle sue quattro pale. Ed è una visione certamente inaspettata, questa di un essere così evidentemente artificiale, che tuttavia si comporta in maniera del tutto paragonabile a quella dell’insetto più odiato del mondo! Che di sicuro, mentre risaliva gli edifici dell’università, deve aver fatto voltare parecchie teste, dando adito a un senso diffuso d’entusiasmo misto a sorpresa. Quest’ultima, tuttavia, soltanto per le matricole, o tutti coloro che si trovavano lì in via occasionale. Questo perché in effetti, il robot in questione non è un’invenzione che viene dal nulla, ma soltanto l’ennesima, e forse più affascinante applicazione di un vasto ventaglio di concetti, che il laboratorio BDML sta prendendo in analisi da ormai diversi anni, portandoli fino alle loro conseguenze più estreme. Un progetto trasversale, che mira a dimostrare, reimpiegandola, l’utile capacità di certi animali ad aderire alle superfici, trovandosi quindi avvantaggiati nella loro locomozione, o dotati di una forza di molto superiore al dovuto. Pensate, ad esempio, a una formica che trascina un qualcosa di molto superiore al suo peso. Potrebbe davvero farlo, se non avesse l’innata dote di “aggrapparsi” al suolo, prima di ciascun singolo oh, issa! Seguito da un singolo passo e poi di nuovo, piedi ben saldi e tirare? Un’impresa che la camminatrice può compiere, unicamente grazie a una cuticola flessibile presente sotto ciascuna delle sue sei zampe. Mentre la zanzara robot di Stanford, in effetti, sfrutta un sistema notevolmente diverso…

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