Cosa mangia un pesce azzurro come il mare

Donna misteriosa in barca alle Bahamas con un grosso pesce in mano. Possibile che sia un pupazzo, del colore della plastica creata per attrarre l’attenzione dei bambini? L’origine di una foto come queta, per quanto affascinante, non è sempre facile da rintracciare online. Certe immagini tuttavia, anche in assenza di un contesto di provenienza, risultano comunque come delle porte spalancate verso un viaggio di scoperta degno di essere compiuto, verso le regioni più essenziali, e qualche volte ripide, della sapienza. Vedi il caso della cognizione, largamente lasciata in secondo piano, per cui molte delle più straordinarie meraviglie della natura non siano affatto rare (non ancora) abitando semplicemente in luoghi o recessi che si trovano al di fuori della portata dell’occhio umano. Circa 15, 30 metri sotto la superficie del mare, dove le barriere coralline iniziano a sussistere nei luoghi sufficientemente tropicali, il pesce pappagallo blu è solito vivere secondo i metodi di una complicata, benché ripetitiva esistenza. Nato femmina, poi diventato maschio oppure nato maschio e rimasto tale, con una livrea capace di virare di tonalità in conseguenza del sesso di giornata, oltre a una macchia gialla sulla testa che può anche non esserci ma se presente, tende ad ingrandirsi tanto più l’animale riesce a sopravvivere nel tempo. Mestiere non particolarmente semplice, per lo Scarus coeruleus, data l’assoluta mancanza di propensioni mimetiche oltre a quella generica del disegno immaginifico di un bambino, anche vista la semplice impossibilità di ricreare il vortice di colori che caratterizzano il suo ambiente di appartenenza. Dal quale d’altra parte, esso non può certo fare a meno, data la propensione biologica a nutrirsi di una cosa e soltanto quella: le alghe che crescono, attraverso i secoli, sopra le propaggini in carbonato di calcio prodotte dalle più tentacolari colonie del corallo. Una mansione supremamente utile, portata a compimento giorno dopo giorno grazie agli affilati denti della sua piccola bocca, usata come negli altri membri del genus Scarus per raschiare via il materiale commestibile, piuttosto che frantumare letteralmente il corpo stesso dell’orto subacqueo di provenienza, pur se dovesse trattarsi di solida roccia. Una creatura notevole ed al tempo stesso delicata nei gesti, quindi, lungi dal violento approccio all’ora di pranzo delle specie Leptoscarus, Nicholsina o Cryptoscomus, appartenenti al sotto-genere informale di pesci pappagallo noti come “frantumatori”. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, forse, osservandone le significative dimensioni, capaci di raggiungere il 1,2 metri di lunghezza e un peso di 9.1 Kg. Prolifici abbastanza da mantenere alti i propri numeri in questo mondo ecologicamente soggetto ad un periodo critico dell’esistenza, questi vivaci abitanti dell’Atlantico nord-occidentale sono soliti deporre le proprie uova una volta al mese in quantità di molte centinaia, liberandole nella corrente stessa come parte del flusso planktonico in seguito all’accoppiamento e nella consapevolezza che almeno una parte di esse possano raggiungere la relativa sicurezza del fondale, per poi arrivare a schiudersi nel giro di sole 25 ore. Affinché ancora una volta, l’azzurro giardiniere del profondo possa continuare a offrire i suoi servigi dietro il pagamento di una certa somma in puro & commestibile corallo…

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Il sangue del ragno corazzato che muore salvando il mondo

É primavera, svegliatevi bambine… “Sulle banchine, creature aliene, trovano l’amor!” Potremmo essere nel Delaware, oppure a meridione lungo il tratto di costa che si affaccia nell’ampio bacino noto come golfo del Messico, ove annualmente migrano gli unici rappresentanti dell’ordine Xiphosura, parola il cui significato letterale in greco antico è “coda [a forma di] spada”. Caratteristica evidente, da qualsiasi lato le si osservi sulla riva relativamente asciutta dell’oceano Atlantico, mentre giungono al coronamento della lunga migrazione necessaria prima di accoppiarsi, mediante un rituale vecchio di 450 milioni di anni. La limula lunga 60 cm che giunge sulle sabbie presso cui è nata, per mettersi a scavare con le zampe nascoste sotto il guscio, poco prima di deporre nella buca un numero variabile tra le 15.000 e 64.000 uova. Ed il suo lui più piccolo a fargli da seguace, come il successivo membro di un trenino danzante, estremamente concentrato nel fondamentale compito di fecondare quel dono genetico direttamente nella sabbia, così come è stato fatto, lungo il corso dei millenni, dai suoi innumerevoli predecessori. Creature che ci guardano, coi loro molti occhi situati in vari punti del corpo, dall’alto di una discendenza al confronto del quale i più nobili tra gli uomini non possono che far sorridere, per l’illusione coltivata della loro presunzione d’importanza. Quattro sono le specie, d’altra parte, in cui è suddiviso il cosiddetto horseshoe crab (granchio a ferro di cavallo) il quale nonostante il nome, risulta essere in effetti più strettamente imparentato con artropodi di terra, come i ragni e le zecche, cosa che appare ragionevolmente chiaro dalla sua distintiva anatomia. Ma la più importante, per l’economia e la sopravvivenza degli umani, risulta essere nei fatti quella del Limulus polyphemus o versione Atlantica dello stesso, di fatto oggetto ancor più dei suoi simili di una certa branca dell’industria farmaceutica, consistente nel produrre una sostanza importante nel contesto ospedaliero di moltissime nazioni, responsabile di salvare una quantità stimata di 11 milioni di persone l’anno. Sto parlando del lisato di amebociti di Limulus (LAL) liquido prodotto dalla particolare versione dei globuli bianchi che scorre nelle vene di queste creature, dotata della caratteristica di coagularsi immediatamente non appena giunge a contatto con batteri di tipo Gram negativo, tra i più pericolosi in quanto capaci di causare la sepsi negli umani. Ecco dunque il triste, se non tragico destino a cui 600.000 di queste creature vanno incontro subito dopo la deposizione delle uova, a fronte della sistematica cattura e successiva estrazione della loro linfa vitale di un caratteristico colore azzurro dovuto alla presenza di emocianina con atomi di rame piuttosto che ferrosa emoglobina, in quantità teorica del 25-30%, affinché possano essere successivamente rilasciate nella natura. Se non che, secondo le statistiche, c’è sempre una quantità pari al 30% di esse che non sopravvivono al processo, mentre un ulteriore 25% muore successivamente, una volta fatto ritorno al di sotto della superficie del mare. Il che lascia comprendere, in maniera più che mai evidente, come una tale industria non possa essere effettivamente sostenibile ad oltranza, oltre a mettere a rischio la sopravvivenza futura di questi animali, avendo nei fatti dato luogo a successivi tentativi di trovare una via diversa. Tra cui la sintetizzazione in laboratorio, a partire dal 2003, di un prodotto capace di assolvere la stessa funzione tramite l’ingegneria genetica, dal nome di Fattore ricombinante C, la cui natura brevettata e prolungata assenza dal codice farmaceutico della maggior parte dei paesi ha tuttavia condizionato la diffusione attraverso gli anni. Ecco dunque il nuovo studio pubblicato all’inizio di aprile sulla rivista Frontiers in Marine Science, da ricercatori della Kepley Biosystems Incorporated, mirato a proporre l’ipotesi, più volte giudicata impercorribile causa minore efficacia del prodotto finale, di allevare in cattività queste creature. Poiché talvolta, una cura preventiva imperfetta, ma pur sempre funzionale, può comunque assolvere allo scopo che ci si era prefissati…

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L’uomo con la sfera d’acciaio proiettata nelle oscure profondità del mare

“…Percepisci, essere della superficie, la nostra sconosciuta irrealtà.” Forme danzanti ai margini del campo visivo, spettri luminescenti nelle tenebre senza fine, ormai prive di colore ed alcun punto di riferimento alla profondità di oltre 400 metri, tranne la potente lampada, proiettata attraverso lo spesso vetro in quarzo della terza finestra, al di fuori della curvatura del veicolo corazzato. Spinosi, bulbosi, zannuti esseri predatori. “Otis, li hai sentiti anche tu?” Aggrappato al corrimano interno, per non risentire dei colpi inferti dalle imprevedibili correnti sottomarine del mare delle Bermuda, il famoso naturalista ed esploratore William Beebe alzò momentaneamente la penna dal taccuino, per guardare in volto l’amico e collega, inventore materiale dell’ingegneristica contingenza che i due si trovavano a vivere, in quel drammatico momento. Intento a calibrare la valvola della bombola d’ossigeno per prolungare il tempo di funzionamento dell’impianto rebreather, l’interlocutore sollevò il volto comprensibilmente teso, mentre con la mano sinistra continuava ad agitare lentamente il ventaglio in foglie di palma, usato per garantire un’idonea circolazione dell’aria. “Sentito cosa?” Rispose dopo qualche attimo di esitazione, sospettando il peggio. Ma la voce di Otis Barton, inventore destinato a diventare un attore di Hollywood, sembrò impattare un’impenetrabile muro di gomma, tanto cadde nel vuoto riecheggiante dell’angusta camera d’immersione. “Si, si, continuate a parlare!” Esclamò invece l’esimio professore dalle mille pubblicazioni, che lui aveva convinto a seguirlo fin laggiù: “Tutti potranno conoscere, ciascuno dovrà sapere. Quanto indegni, ed inconsapevoli, siamo al cospetto dell’universo.” Sospettando una lieve ebbrezza per mancanza di ossigenazione, l’unico orecchio umano presente aprì del tutto la valvola. Giusto mentre un volto mostruoso, che neanche la sua stessa madre avrebbe potuto amare, appariva per fargli una smorfia infastidita all’altezza del suo sguardo, momentaneamente incapace di guardare altrove…
Anni ’30 o per meglio dire, estate del 1929: l’attimo sul percorso della storia in cui Barton, avendo letto sui giornali dell’apertura di un nuovo centro di ricerca oceanografico statunitense presso l’isola di Nonsuch nelle Bermuda, pensò di scrivere al suo direttore, rendendolo pienamente partecipe del suo principale progetto ed aspirazione. Effettive immersioni in profondità, in effetti, a quei tempi risultavano del tutto impossibili, con un massimo raggiunto di 160 metri grazie all’impiego della tuta da palombaro, mentre secondo la sua opinione sarebbe stato possibile ottenere fino cinque volte tanto, mediante l’impiego di uno specifico veicolo di sua esclusiva concezione. E di sicuro, il mondo non aveva mai visto niente di simile alla batisfera: 2,25 tonnellate (nella versione definitiva) per 1,45 metri di diametro, con uno spessore di 25 mm, attaccata ad un lunghissimo cavo d’acciaio e dotata di una serie di aperture che potevano essere chiuse mediante dei tappi semi-permanenti a seconda dei bisogni, affinché risultassero attentamente protette dall’immane pressione del mondo oceanico sommerso. Dopo un fortuito incontro organizzato da un amico comune, dunque, Beebe e Barton raggiunsero un accordo e la divisione delle spese, portando all’effettiva realizzazione dello strano veicolo entro l’inizio dell’anno successivo, dopo il la fusione e seconda colata dell’acciaio per un errore trascurabile nel calcolo del peso che l’aveva portato, sfortunatamente, ad essere semplicemente troppo ponderoso per qualsiasi argano navale. Entro maggio dell’anno successivo, quindi, il dispositivo poteva dirsi pronto ed a seguito di alcune prove tecniche, i due scelsero di fare una prima seria immersione alla profondità di 245 metri…

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L’estrosa leggiadria dell’albatro-gabbiano innamorato

“Destra-sinistra, destra-sinistra mia cara. Osserva/guarda un lato e l’altro di questa magnificenza, le piume nere delle ali e la lunghezza del mio collo. Muuu!” Il vento forte dell’atollo continuava a muovere le fronde, producendo un suono ripetitivo vagamente simile ad un sottofondo musicale. “Sopra-sotto, sopra-sotto. Il mio interesse, ritengo/affermo, è misurabile secondo gradi logici e apparenti. Se veramente credi alla possibilità della nostra unione, avvicinati ora e baciami, baciami compagno dai piedi palmati su quest’erba piena di ottimismo per il domani.” Dopo mezza piroetta, i due uccelli lunghi circa un’ottantina di centimetri marciano all’unisono, quindi avvicinano le teste e iniziano a duellare: “Tu, no tu, no tu!” Si dicono a vicenda, sciabolando con falsa ferocia i propri becchi giallo pallido, uncinati per meglio afferrare il proprio pasto tra le onde. E quindi ancora, oscillazioni, l’ala alzata da lui e lei. Il tutto inframezzato dall’occasionale sguardo verso il sole, seguìto dalla cosa più simile ad un muggito bovino che fosse mai stato udito in tali luoghi, almeno fino all’arrivo dell’uomo. Dove discoteche, non ne abbiamo. E neanche il tipico abbinamento di elementi elettronici ed acustici connesso alla corrente, che nella maggior parte dei casi siamo soliti chiamare “altoparlante”. Eppure nelle Midway, così come tutta la parte settentrionale del Pacifico, non è molto insolito vedere con i propri occhi una simile scena, quella memorabile di due esemplari di Phoebastria immutabilis, anche detti Albatros di Laysan, intenti in una delle loro pratiche più distintive: la danza che precede l’attimo fatale, ovvero quel momento, imprescindibile, che anticipa l’accoppiamento aviario. Un’effettiva complessità rituale capace di rientrare tutto sommato nello spettro del possibile per quanto riguarda molte specie di uccelli marini, accomunate dalla soluzione evolutiva di un processo mirato a selezionare, per quanto possibile, un compagno sufficientemente paziente e attento ai desideri della sua consorte. Prospettiva che diventa tanto più importante per uccelli, come gli albatri, che sono inclini ad accoppiarsi per la vita ed il cui singolo pulcino altriciale, più d’ogni altro, richiede grandi cure e quantità di cibo rigurgitato, per un periodo di circa 165 giorni al termine dei quali dovrà imparare, in tutta fretta, a volare, nuotare e nutrirsi, causa l’improvviso disinteresse da parte dei suoi genitori. La cui coppia nonostante questo è fatta per durare e a meno d’imprevisti, potrà farlo fino al raggiungimento delle ultime spiagge dell’esistenza, capace di spostarsi innanzi per queste creature fino alla veneranda età di 50-55 anni (periodo misurato in cattività). Per un risultato effettivamente paragonabile, fatte le debite proporzioni, a quello delle nozze d’oro di una coppia d’umani, il che sembrerebbe riconfermare senza nessun tipo di dubbio residuo l’eccezionale merito di una danza, nello scoprire ed interpretare l’effettiva compatibilità di una coppia d’individui. Anche quando la musica di sottofondo, considerata la situazione vigente, parrebbe riecheggiare soltanto nella loro entusiastica mente…

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