Le due statue che ruotano come pianeti su un lampione del Manhattan Bridge

La profondissima natura della mente umana può essere inquadrata nel sistema dei tre regni che coesistono all’interno del Creato: Minerale, Vegetale, Animale. Per il modo in cui possiamo tutti essere rappresentati da un’insieme di semplici forme, definite dalla mano esperta di colui che opera con il martello e lo scalpello su di un blocco di pietra calcarea. Per l’intero breve arco della nostra vita, non così diverso dalla nascita, la crescita e la sfioritura di qualcosa di magnifico, creato dalla pianta per accompagnarsi al suo difficile processo riproduttivo. E nella maniera in cui, vedendo una brillante fonte d’illuminazione, non possiamo fare a meno di aggirarci attorno ad una simile luminescenza. Proprio come l’Animale più elegante tra tutti gli artropodi: la falena. Ma ci sono poche statue, forse neanche una, in cui la mente e il corpo degli umani vengono rappresentati con riferimento ai lepidotteri e olometaboli di questo mondo. Mentre ce ne sono almeno due, dedicate a trasformarsi in lampade o per meglio dire, dei lampioni. Per vederle ancora oggi basta prendere un aereo, scendere a La Guardia e attraversare la città verso meridione, fino al grande ponte costruito nel 1909 ed abbinato al nomen-omen di Manhattan Bridge. Sul cui principiare, da quel lato della baia, figuravano in origine due alti pilastri, coronati da presenze femminili frutto della celebrata creatività oggettiva di Daniel Chester French, futuro autore del celeberrimo Abrahm Lincoln seduto sul suo trono a Washington DC.
Figuravano, perché nel 1963 l’importantissima figura di urbanista del più volte criticato, nonché noto discriminatore razziale Robert Moses (1888 – 1981) aveva qui deciso di aggiungere un paio di corsie stradali, oltre a rimuovere le conturbanti tentatrici marmoree frutto di un’epoca e un sentire Liberty ormai lungamente superati, così che mentre il progetto di viabilità sarebbe naufragato, lo stesso non sarebbe accaduto per il presunto sforzo moralizzatore. Tale da portare Miss Brooklyn e Miss Manhattan, come si chiamavano le grandi sculture, fra tutti i luoghi proprio innanzi al vasto ingresso del Brooklyn Museum. A corrompere le menti già perdute d’intellettuali ed altre simili figure di dubbia utilità civile. E questo avrebbe anche potuto costituire il triste epilogo della vicenda, se non fosse stato per l’iniziativa del 2016, promossa e parzialmente finanziata dal collettivo artistico Percent for Art, finalizzato a permettere al creatore di opere contemporanee Brian Tolle di aggiungere un capitolo ulteriore alla faccenda. Offrendo il contributo delle sue splendide riproduzioni degli originali, create in resina polimerica semi-trasparente, e montate sulla cima del più tipico di tutti gli arredi urbani: un lampione. Splendide perché girano costantemente sull’intero arco dei 360 gradi, mentre brillano di luce propria ricordando un faro per i naviganti della strada sottostante. Mentre volgono lo sguardo prima da una parte, poi dall’altra. Comunque tutto intorno, sempre e in ogni luogo. Tentando di abbracciare la chiassosa collettività di una delle più affollate e affascinanti città del mondo…

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Le meraviglie di Mogao, sentiero spirituale del Buddhismo parallelo all’antica Via della Seta

Sebbene non si tratti di una definizione formalmente invariabile, difficilmente si potrebbe affermare che 1.000 persone possano bastare a fare una città… Ma che dire, invece, di 1.000 statue? Facenti parte di un sistema di templi risalente al 366 d.C, lungo quella che potremmo definire come la maggiore Via commerciale della sua Era. Plasmate progressivamente dalla roccia stessa della regione cinese occidentale del Gansu, per iniziale opera e visione attribuite convenzionalmente ad una singola persona, il monaco Yuezun che era stato raggiunto dal proprio dio ed ispiratore nel corso dei sogni. Ricevendo tale incarico da Buddha in persona, o quanto meno uno dei suoi santissimi e operosi Bodhisattva. “Tu costruirai un tempio. Io ti dico che sarà vasto e magnifico, più di ogni altro che l’intero mondo abbia mai conosciuto.” E così camminando, per intere settimane o mesi, finché l’ago della bussola non smise di puntare metaforicamente verso il punto designato, egli si fermò per impugnare lo scalpello. In breve tempo, furono in molti ad unirsi a lui, presso quella che era nota in lungo e in largo come l’oasi di Dunhuang. Tra cui il fedele aiutante ed amico Faliang, un altro membro del clero buddhista, subito seguito da un’intera comunità d’ecclesiastici originari della regione. Finché verso l’inizio della dinastia dei Liang Settentrionali (397 d.C.) il sito era ormai diventato celebre, al punto da attirare i primi pellegrini, assieme significativi contributi in termini di manodopera e risorse dalle autorità imperiali. Forse non ancora tanto magnifico, di certo non altrettanto grande, l’aspetto a quei tempi del sistema di edifici e stanze patrimonio dell’UNESCO delle grotte di Mogao (莫高 – “Immacolate”) doveva già costutituire un importante punto di riferimento per i molti viaggiatori di passaggio, non soltanto come luogo di meditazione temporaneo ma vero e proprio punto di riferimento mnemonico, relativamente alle molteplici complesse storie giunte a Oriente assieme all’importante e sempre più diffusa disciplina proveniente dall’India. Facente parte concettualmente del vasto novero di caverne o altri siti antropogenici scavati nella roccia, tra cui le grotte di Yulin nel Guazhou o i Cinque Templi della regione di Subei, nessuno potrebbe tuttavia pensare di subordinare questo luogo eccezionalmente santo ad un qualsiasi altro repertorio artistico e culturale collegato alla ricerca dell’Illuminazione, per quantità, varietà e importanza delle opere contenute all’interno. Che essendo miracolosamente sfuggite alla persecuzione ad opera dell’Imperatore Wuzong nell’845, in funzione del dominio territoriale tibetano in quegli anni, vanno ben oltre le semplici sculture e bassorilievi nella roccia hanno finito attraverso lunghi anni di ricerche archeologiche per includere dipinti, arazzi ed una delle più rare, nonché preziose tipologie di tesori: un’intera biblioteca rimasta sigillata per svariati secoli, destinata a costituire un’insostituibile fonte filologica sulle abitudini e il sapere di alcuni tra i nostri predecessori…

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La discussa prova che gli antichi messicani avrebbero cavalcato i dinosauri

In base alla teoria dell’inversione periodica dei poli magnetici terrestri, elaborata per la prima volta dall’ingegnere elettrico Hugh Auchincloss Brown (1879-1975) l’asse di rotazione del nostro pianeta non sarebbe stato in alcun modo un assioma invariabile del Creato, bensì uno stato dei fatti in grado di cambiare periodicamente, in forza di fattori esterni e totalmente fuori dal nostro controllo. Sebbene soggetti, fortunatamente, a un certo grado di prevedibilità e persino, al giorno d’oggi, prevenzione. Fu proprio costui d’altronde a descrivere l’ipotetica procedura, complessa ma realizzabile, finalizzata a rimuovere “l’accumulo di ghiaccio dai poli” mediante l’utilizzo di bombe atomiche, come possibile risposta ai dati da lui raccolti sul recente aumento di “oscillazione” della normale rotazione cosmica attorno al nostro asse centrale. Ben più che un mero esperimento (per quanto estremo) bensì un passaggio di primaria importanza, quando si considera le monumentali catastrofi verificatosi, ad intervalli di circa 4000-7500 anni al verificarsi di tali eventi, nella storia pregressa della specie umana. Proprio per questo non così eccezionalmente ben documentata come crediamo, e costellata di misteri irrisolti come l’ipotetica benché probabile esistenza pregressa del continente di Mu o la città di Atlantide, e molteplici altri misteri soltanto menzionati nelle cronache pregresse degli antenati. Luoghi e storie come quella dell’antica cultura pre-ispanica della parte occidentale del Messico dei Chupícuaro, presso l’area maggiormente a settentrione della vasta area geografica e culturale denominata mesoamericana. Connotata dal bizzarro e inaspettato ritrovamento risalente all’estate del 1944, che avrebbe finito per diventare indirettamente una delle maggiori prove a supporto dei presupposti elaborati da Mr Brown.
Tutto ebbe inizio dunque, come spesso capita nei poemi, con una cavalcata all’ombra del Cerro Toro, omonimo della celebre montagna in Spagna e famoso per il suo vino, grazie alla tenuta fondata nel 1956 dalla famiglia giapponese di Makoto Kambara. Non troppo distante dal cui terreno, 12 anni prima, il venditore di attrezzi di discendenza tedesca Waldemar Julsrud si trovava a compiere una tranquilla escursione equina nella zona fuori la cittadina di Acámbaro, quando durante una sosta scorse qualcosa d’inaspettato tra l’erba del pendìo: quella che poteva soltanto essere una preziosa statuetta di terracotta, risalente a quella civiltà ancora largamente misteriosa, che secondo i dati fin qui raccolti sarebbe stata in epoca remota sconfitta, o inglobata dal grande impero azteco di Tenochtitlán. L’oggetto rappresentava un qualche tipo di creatura quadrupede, serpentiforme, rettiliana e soprattutto ricoperta di quel tipo di placche ossee che in base ai ritrovamenti paleontologici di cui possiamo disporre, può soltanto corrispondere a un particolare trascorso evolutivo della natura. Quello preistorico delle creature che avrebbero, in base ai dati raccolti, dominato un tempo le vaste vallate della Terra. Dinosauri, cos’altro? In breve tempo, Julsrud mise alle sue dipendenze un’intera squadra di scavatori locali, che avrebbero lavorato per l’intera decade successiva. Mentre quello che sarebbe emerso a seguire, semplicemente non ha precedenti nelle discipline archeologiche dei nostri giorni: oltre 33.000 figurine di terracotta, molte delle quali raffiguranti esseri umani intenti ad interagire in varie maniere con simili creature di epoca Giurassica o successiva, nonché individui vestiti con fattezze aliene o abbigliamento egizio, africano, indiano. Qualcosa di capace, in altri termini, di riscrivere completamente la cronistoria pregressa dei nostri presupposti ufficialmente ormai acquisiti, e non solo…

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Animazione dettagliata offre uno sguardo alla struttura interna della statua della Libertà

Lo stato basilare di un’idea non può cambiare attraverso il trascorrere dei secoli, a meno di voler individuare un senso di continuità attraverso albe o tramonti dalla tonalità completamente all’opposto. Ciò che muta, normalmente, è la maniera in cui una tale luce si riflette, su ogni superfice lucida che agisce alla maniera di uno specchio, incluso il materiale metallico impiegato nelle torri e le alti effigi delle Nazioni. Finché al trascorrere di un numero abbastanza lungo di generazioni, persino il rame riflettente di quest’ultime può perdere la sua essenziale brillantezza; ma chi può dire che l’ossidazione sia sinonimo di perdere la forza ed il mordente della comunicazione originale? Ciò che era, al giorno d’oggi, esiste ancora. Mentre le allegorie, se veramente meritavano di essere rappresentate, riescono a resistere alla progressione imprescindibile degli eventi. Benché occorra, per capirlo, andare oltre la scorza esterna che costituisce il senso dell’immagine, fin dentro il cuore di coloro che hanno posto in essere la cognizione qui rappresentata. Autodeterminazione per tutti i popoli del mondo. E pace, soprattutto, per la luce della fiamma della verità eminente. Ciò che rende Lady Liberty così reale, tuttavia, per le moltitudini dei newyorchesi e tutti quelli che li guardano con attenzione duratura nelle epoche, è il suo essere tangibile per chi ha la voglia di venire a visitarla. Una forma fisica oltre che concettuale, come un alto pinnacolo sull’isola di Bedloe, dove un tempo si coltivavano le vongole per dare la materia prima ai ristoranti della grande città, e ancora prima venivano impiccati i pirati. E se tutto ciò dovesse anche soltanto cominciare a sembrarvi prosaico, aspettate di prendere coscienza in merito alle significative proporzioni della realtà!
Dire che misura “appena” 93 metri di altezza, piedistallo incluso, non è del tutto sufficiente a dare l’impressione di cosa stiamo parlando. Non di fronte all’importanza niente meno che colossale, occupata da un simile monumento nella comunicazione narrativa e come simbolo fondamentale di quei nostri insigni predecessori, che frapponendosi alle iniquità persistenti si sono prodigati al fine di spezzare le metaforiche catene, da cui la figura della Dea romana Libertas incede maestosamente, benché tutti tendano a vedere soprattutto la sua mano alzata con la luce di potenziale faro nella baia urbana più famosa dell’Occidente. Fin da quando nel 1886 i cinque componenti trasportati via nave dalla capitale della Francia all’altro lato dell’oceano venivano laboriosamente riassemblati, secondo il preciso progetto dello scultore Frédéric Auguste Bartholdi, in cima a quella forma stellare del piedistallo ricavato da un antico forte di mare. E non fu facile, come sappiamo molto bene, raccogliere quei fondi necessari, e convincere i politici, affinché un dono vagamente affine a quello di antiche guerre di Troia potesse giungere trovare la sua collocazione ultima e finale. Senza inoltrarci eccessivamente in tale parte della storia, è altresì degno di venire approfondito l’aspetto collaterale della forma risultante, quell’oggetto che oggi abbiamo modo di ammirare e come questo appaia, per coloro che possono essere abbastanza fortunati da riuscire a visitarlo.
Una struttura notoriamente costruita in due parti, il piedistallo di cemento e l’allegoria metallica posta sopra di esso, la statua della Libertà compare dunque in tutta la sua interessante magnificenza in questo video riassuntivo dell’autore in CG Jared Owen, già creatore d’innumerevoli filmati esplicativi (e sponsorizzati) strettamente interconnessi alla storia pregressa degli Stati Uniti. Che inizia il suo racconto dall’apertura digitale delle porte “centenarie” ricavate nelle mura del sopracitato Fort Wood, per accedere a uno spazio al piano terra dall’ampio salone centrale, che ruota tutto attorno al parallelepipedo posto a sostenere la gigantessa che giustifica l’intero sforzo pregresso. Qui trovava posto fino al 2019 un intero museo comprensivo della torcia sostituita negli anni ’80, soltanto successivamente spostato nell’edificio più moderno all’altro capo dell’isola. Dopo tutto, non è sempre l’ideale esporre i propri cimeli all’interno di una sala a forma di stella e rigorosamente priva di finestre…

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