L’annosa infatuazione internettiana per la cosiddetta banana gigante

Nell’ultimo tra i video virali provenienti dal caotico TikTok, un uomo dai lineamenti orientali impugna l’incredibile oggetto con evidente senso di aspettativa, procedendo con un gesto abile a sbucciarlo in appena un secondo. Candida e perfetta, il suo arco il simbolo di un Universo che non ha misteri, l’individuo spalanca la mascella fino ai limiti permessi dall’anatomia umana. Quindi, lietamente, v’inserisce quella “cosa” straordinaria. Che cosa abbiamo visto, esattamente?
Assoluta unità di colore, sapore ed aspetto: questo in genere pretende la comunità indivisa, per quanto concerne ciò che riempie le sue tavole ed i recipienti dedicati agli apprezzabili frutti della natura. Dopo tutto è ancora una banana quando non è gialla, lunga e curva? Quando non contenga almeno 350 mg di potassio? Il che ci porta a un delicato ed altrettanto pervasivo tipo di fraintendimento. Poiché se qualche cosa tende a presentare l’evidente incontro di queste tre caratteristiche, cos’altro potrebbe mai essere, se non una banana? Genere Musa, ordine Zingiberales, la cui pianta è assai probabilmente originaria delle giungle di Malesia, Indonesia, Filippine… Ma che venne conosciuta in Occidente in occasione della campagna in India di Alessandro Magno, assieme al termine in lingua sanscrita impiegato per definirla: varana. Parola che persiste, con minime variazioni, nell’odierno panorama linguistico globalizzato, quasi a riconfermare la percepita ed altrettanto sacra invariabilità del dolce prodotto della pianta erbacea più imponente al mondo. Sarebbe stato dunque lo stesso Linneo, nel suo Systema Naturae, a stabilire in via preliminare la suddivisione di quelle che costituiscono effettivamente un tipo di bacche tra Musa sapientum e M. paradisiaca, definendo come le prime commestibili direttamente una volta colte, e le seconde che necessitavano di un processo di cottura prima di essere impiegate come ingredienti. In altri termini e secondo la nomenclatura corrente, dei platani. Il che permette di ridefinire in chiari termini la nostra questione d’apertura. Poiché fin dall’epoca della modernità, banana può e dovrebbe essere soltanto una di tre cose: un cultivar proveniente dalla specie selvatica Musa acuminata; oppure dalla sua cognata M. balbisiana. O ancora una combinazione di alleli provenienti dalle due distinte discendenze, combinate grazie all’applicazione di quella che potremmo definire ingegneria genetica ante-litteram. E questo tipo di banane assai difficilmente tendono essere molto più della stereotipica varietà di Cavendish come anche mostrata, tanto orgogliosamente, dal nostro misterioso Virgilio d’apertura. L’iconica rappresentante di un intero Paradiso di sapori ed apprezzabili realtà culinarie…

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Un ladro di rottami non conosce riposo. E il riciclar gli è dolce in questo mare di macerie animate…

Nel quarto secolo ad Atene, dopo essere emigrato per ragioni legali dal suo luogo di nascita nel Ponto, visse un uomo che credeva fermamente nelle proprie convinzioni. Ed a tal punto era sicuro del supremo cinismo nel contesto dell’Universo tangibile, da rifiutare ogni imposizione o costrutto sociale, vivendo in una botte e consumando avanzi di cibo per assicurarsi la sopravvivenza. Il suo nome era Diogene, ma tutti quanti lo chiamavano il Cane. Interi volumi potrebbero essere riempiti delle citazioni di costui, spesso risposte date a personaggi celebri che tentavano di mettere in cattiva luce il suo stile di vita. In un celebre esempio, dopo aver ricevuto come dono beffardo da Alessandro Magno delle ossa da rosicchiare, il filosofo rispose famosamente: “Degno di un cane il cibo, ma non degno di un re il regalo”.
Fondamentalmente trasformato nell’immaginario popolare in una sorta d’ibrido inter-specie a metà tra bipede ed i nostri migliori amici, il personaggio di Diogene rivive in uno scaldabagno grazie all’opera dell’argentino Guillermo Galetti. L’artista noto su Internet come Ladron de Chatarra (Ladro di Spazzatura) non tanto per i propri metodi di applicazione, quanto in funzione della sua capacità di sovvertire un destino di entropia elaborando nuove cose o personaggi dove altri vedrebbero soltanto ragioni di abbandono. Ecco allora quel cilindrico “individuo”, che fatto muovere grazie all’impiego di una barra orizzontale, si piega innanzi mentre il volto assume nuove configurazioni. Come la testa di un Transformer, diviene oblungo e pare pronto ad annusare il cerchio dei dintorni erbosi. Dove c’era l’uomo, adesso tutto è cane. Distanti abbai risuonano nella distratta mente degli osservatori…
È un tipo di arte post-moderna, senza dubbio, poiché dedicata con intento radicale a catturare l’attenzione di chiunque, senza suscitare necessariamente pratici pensieri sulla vita, l’esistenza o lo stato politico dell’uomo. Forse per questo l’operato di Ladron, che egli ha dichiarato qualche volta avere dei “significati nascosti”, risulta tanto popolare su Internet, dove ha trovato la collocazione ideale in lunghi e articolati montaggi di materiale, tratto dai suoi canali social e talvolta accompagnato da vari brani di musica Rock & Pop. Forse il più grande dei colmi, per questo insegnante di Buenos Aires con sede operativa a Villa La Angostura che fermamente dubita della tecnologia, come un moderno Diogene, e va predicando sopra ogni altra cosa l’importanza per i giovani di ritornare a saper impiegare la creatività manuale. Tanto che egli narra, nelle poche interviste e materiali di supporto che accompagnano le proprie opere, di essere stato convinto unicamente dalla moglie, con l’aiuto del periodo d’inedia dovuto al Covid, a pubblicare online le immagini ed i video dei propri lavori. La cui varietà è tanto straordinaria, quanto confusa risulta esserne la cronologia o un’effettiva dichiarazione d’intenti…

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Metallo che ruggisce tra i radiocomandi nati sotto il segno del cataclisma

L’arte all’epoca di Internet non ha le regole e non ha la progressione tipica di alcun ambito accademico o struttura formalmente incaricata di commentarla. Il che significa, in parole povere, che l’iniziativa autogestita di un appassionato può vantare esattamente lo stesso potere mediatico del pluripremiato rappresentante di una scuola o discendenza professionalmente affermata, grazie al plebiscito popolare, idealmente autonomo, dei suoi lavori giudicati degni dalle moltitudini indivise. Un processo con diversi aspetti negativi, vedi il modo in cui preclude un piedistallo a chi persegua metodi o messaggi non del tutto palesi; ma garantisce, se non altro, la maggiore visibilità di colui o coloro che dimostrano capacità tecniche, in determinati ambiti, al di sopra della media umana. Settori presumibilmente inesplorati in precedenza dal senso comune, come quello di creare automobili o motociclette con radiocomando che ospitano veri e propri animatronic esuberanti, autonomi, vivaci nelle presumibili aspirazioni ed espressioni evidenti. Rappresentazioni fuoriuscite dalla mente di un creativo come l’australiano Danny Huynh, famoso ormai da 10 anni per la propria interpretazione estremamente personale di cosa possa rappresentare un mezzo di trasporto in scala, completato da piloti tanto riconoscibili quanto stupefacenti, nel nuovo e incomparabile contesto d’appartenenza. Così emerge per esempio, verso l’inizio dello scorso mese, la sua ultima creazione di una hot-rod con il motore esposto e la carlinga a forma di sigaro, ove campeggia prepotente la Union Jack, ai cui comandi appare il personaggio e macabra mascotte del gruppo inglese degli Iron Maiden, Eddie the Head, con cappello e occhiali da aviatore, quella che sembra una tuta di volo strappata in più punti. E alle sue spalle, schiena contro schiena, il “gemello” con un grosso sigaro stretto in bocca, intento ad armeggiare con una mitragliatrice a canne rotanti. Il che sarebbe già abbastanza notevole, anche senza prendere atto di come i due si muovano in modo realistico, inclinandosi nelle curve del breve video dimostrativo, puntando in giro l’arma mentre i cilindri rotativi del motore esposto paiono imitare la doppia elica di un ipotetico Avro Lancaster o la mitica fortezza volante B-17. Espressione, se vogliamo, maggiormente valida della rule of cool, potente linea guida del mondo immaginifico contemporaneo, ove dovrebbe essere l’innato senso della meraviglia e iniziativa immaginifica del fruitore, a crearne conseguentemente un contesto. Approccio, quest’ultimo, davvero molto valido a comprendere il potere comunicativo delle opere di un tanto eclettico autore, sia magnifiche che terribili, al tempo stesso impressionanti e volutamente rimediate nel proprio aspetto derelitto e “vissuto”…

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La leggenda del piccolo drugstore inchiodato tra terra e cielo

Convergenza: l’incrocio di una multipla sequenza di fattori che, in determinate circostanze, può instradare il senso dei momenti verso la trasformazione dei rapporti tra causa ed effetto. Cambiando le regole, alterando le aspettative, inducendo a nuove connessioni tra le idee. Il tipico escursionista arrampicatore del geoparco dell’entroterra montagnoso nello Hunan, noto con il termine di Shiniuzhai – 石牛寨 (“Villaggio della Mucca di Pietra”) era solito ad esempio giungere al momento cardine della propria spedizione trasportando il carico non certamente indifferente di almeno un paio di litri d’acqua. Ovvero il fabbisogno giornaliero tipico, rivisto verso l’alto in funzione dello sforzo necessario a giungere nel punto panoramico al termine di quel piccolo pellegrinaggio. Mentre a partire dal 2018, in modo indubbiamente inaspettato, un nuovo approccio risolutivo alla questione ha scelto infine di palesarsi; come un orologio a cucù a 119 metri da terra, come una casetta per gli uccelli, come il locale di servizio abbarbicato sulle mura della fortezza per il massimo vantaggio dei suoi abitanti. Ma nel caso specifico, la fonte inalienabile del consumismo, un luogo sacro dove la pecunia può essere scambiata con servizi, oggetti, accoglienza. O più semplicemente ed in modo assai rilevante, provviste per alimentare gli organi e la mente fino al concludersi dell’avventura, acqua, cibo ed energy drink.
Capito, che idea? Fondamentalmente nient’altro che il particolare tipo di rifugio, nella sostanza tutt’altro che infrequente, che viene usato lungo il corso delle vie ferrate come punto di appoggio per chi sente la sua presa indebolirsi lungo il corso verticale di quei difficoltosi tragitti. Con l’aggiunta importante di un intero staff di guide alpine trasformate in commessi e addetti all’approvvigionamento, all’inizio un po’ per gioco. Finché non si è scoperta su Internet l’incredibile risonanza mediatica dell’iniziativa, con un misurabile aumento dei turisti e potenziale clientela sul sentiero della propria realizzazione fisica e personale. Tutti interessati, incidentalmente, a fare compere nel luogo diventato celebre come “il negozio più scomodo al mondo”. Ma ha davvero senso una tale definizione ingenerosa, quando si considera l’eventualità della sua assenza?

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