Riconosciuto dall’UNESCO il patrimonio dei moidam, tumuli sopra le teste della dinastia Tai Ahom

Si narra che originariamente l’unico aspetto dell’Universo fosse un vasto oceano, del tutto privo di terre emerse. Finché il Dio supremo e senza forma Pha Tu Ching non creò dal suo petto il figlio Khun Theu Kham, che non avendo nulla su cui posare i piedi si sdraiò sul fondo, lasciando che un fiore di loto germogliasse dal proprio ombelico. Quindi generò una tartaruga, un granchio ed il cobra dalle otto teste, che si allargò istantaneamente in ogni direzione allo stesso tempo. Non ancora contento, l’antenato dell’umanità decise quindi per la liberazione subacquea di due elefanti dalle zanne d’oro e la creazione di altrettanti Pilastri, destinati a sostenere la volta celeste. Destinata ad essere esplorata da una coppia di ragni, che librandosi nel cielo grazie all’uso delle proprie tele, lasciarono inevitabilmente cadere verso il basso degli escrementi. Questi ultimi, consolidatisi nel giro di qualche migliaio d’anni, diventarono il Mondo. Qui, le genti prosperarono e poterono moltiplicarsi, con particolare riguardo al popolo prescelto dei Tai, discendenti di Khun Theu Kham provenienti dall’attuale Sud-Ovest cinese. Da cui presero la scelta mai eccessivamente facile di emigrare, superando le pendici periferiche dell’Himalaya al seguito del condottiero del tredicesimo secolo Sukaphaa, principe supremo della regione di Mong Mao e sacro fondatore della fazione politica degli Ahom. I cui membri giunsero, in quel particolare, presso la terra promessa della valle di Brahmaputra, destinata in seguito a venir chiamata Assam. Ove costruirono vaste città, svettanti palazzi e luoghi di sepoltura dalla complessità notevole, non a caso chiamati a scopo divulgativo “Le piramidi dell’India”. Riconosciuti finalmente dall’UNESCO all’inizio della scorsa settimana, nella stessa sessione che ha portato la Via Appia dell’Antica Roma a diventare il sessantesimo patrimonio italiano, i loro tumuli (maidam) in particolare dell’antica città e luogo sacro di Charaideo, la “Città della Collina Sacra” spiccano per integrità e complessità architettonica nonostante i saccheggiamenti subiti nel corso dei secoli, a partire dall’apertura forzata dalle truppe del colonialismo durante l’epoca del colonialismo inglese. Giunte in questo luogo ameno ma remoto con la forza delle armi, come non erano riusciti a fare neanche gli emiri dei Mughal, dinnanzi alla considerevole forza marziale e conoscenza del territorio posseduta dai Tai Ahom. Il che avrebbe permesso al loro regno di durare oltre sei secoli, dal 1228 al 1826, data del trattato di Yangbao con cui rinunciavano alla propria egemonia in cambio della “protezione” della Compagnia delle Indie Orientali. Il che avrebbe certamente contribuito a scuotere, ma non cancellare del tutto, la loro incomparabile eredità secolare…

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Le tombe lunghe 150 metri dedicate agli ancestrali capi della Polonia

Provate voi a spiegare a un contadino dell’epoca medievale, il valore intrinseco dell’archeologia. Prendete una persona nata nella semi-indigenza, forgiata dal bisogno, per cui risolvere i problemi quotidiani è un sinonimo diretto di sopravvivenza, e ditegli che non può piantare i suoi sementi in una particolare radura, né prelevarne gli atipici macigni al fine di costruire o rinforzare la sua dimora. Chiaramente egli resterà perplesso, indispettito. Forse persino ostile alle vostre argomentazioni, possibilmente sostenuto dalla percezione secondo cui Dio provvede, laddove antiche culture pagane, ormai dimenticate dagli uomini e dal tempo, possono soltanto essersi estinte per una specifica mancanza di fede. E furono effettivamente fatti dei tentativi, all’epoca del 1870 quando la studiosa autodidatta, giornalista e patriota polacca Natalia Kicka fece dissotterrare per la prima volta i notevoli gruppi di monoliti della regione di Kuyavia-Pomerania, nell’attribuire tali costruzioni agli antenati diretti dei popoli cristiani del suo paese, almeno finché negli anni ’30 del Novecento il celebre archeologo e futuro direttore del Museo Archeologico di Lodz, Konrad Jażdżewski non trovò prove evidenti capaci di collegare tale sito, assieme ad altri sparsi per l’intero paese alla cosiddetta Cultura del Bicchiere Imbutiforme, un gruppo culturale insediatosi nell’Europa Centrale avendo portato a termine una migrazione dalle terre nordiche della Scandinavia, all’incirca attorno al termine del quinto millennio prima di Cristo. Il che faceva della dozzina di tumuli in questione semplicemente uno dei più integri ritrovamenti risalenti a tale epoca, risparmiati dalla cupidigia dei ricercatori amatoriali proprio grazie al loro posizionamento odierno al centro di una profonda foresta, praticamente impossibili da identificare prima che la vegetazione venisse sfoltita, e la terra in eccesso rimossa dalle loro spioventi e lunghe pareti oblunghe. Già perché tali strutture, pur conformandosi almeno in parte all’aspetto generale dei classici tumuli neolitici, presentano proporzioni notevoli considerata la loro funzione principale, di fornire un luogo d’eterno riposo ad una singola persona ciascuna, il cui ruolo e l’importanza nella propri epoca non doveva conseguentemente essere di molto inferiore a quello di un faraone egiziano. Considerate, a tal proposito, lo sforzo ed il tempo necessario per comunità relativamente ridotte come quelle in cui l’agricoltura era ancora una tecnologia sperimentale applicata da pochi, affinché fosse possibile smuovere la terra per un lungo filare capace di raggiungere anche i 50 metri. Senza neppure menzionare le gigantesche pietre disposte ad intervalli regolari sui lati del basso edificio, dal peso unitario di fino a 10 tonnellate, utili a scongiurare il rischio che la pioggia potesse infiltrarsi all’interno della camera sepolcrale. Casistica indubbiamente capace di costituire un fosco presagio, per quelle che taluni hanno preso l’abitudine di definire metaforicamente come le “Piramidi della Polonia”…

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Le alterne vicissitudini del cratere meteoritico meglio conservato al mondo

È sorprendente pensare come, nonostante i letterali milioni di anni prima che l’atmosfera assumesse le caratteristiche necessarie a far vaporizzare la stragrande maggioranza dei corpi estranei provenienti dal vuoto cosmico, fino al 1891 gli scienziati non fossero riusciti ad individuare un singolo impatto meteoritico pregresso sulla superficie dell’intero globo terrestre. Ed il modo in cui, affinché potessero riuscirci, sarebbero servite le circostanze pressoché perfetto di un singolo luogo d’impatto rimasto miracolosamente privo di vegetazione, processi d’erosione o precipitazioni eccessivamente intense. Laddove non sussiste alcuna possibilità, istintivamente, di fraintendere la forma e l’effettiva origine di questo buco largo 1,186 Km nel paesaggio situato ad ovest di Winslow, nel deserto settentrionale dell’Arizona. Il suo bordo preminente, che forma una barriera circolare contro il vento. La presenza di uno strato di terreno e rocce dal colore differente rispetto agli immediati dintorni. E ad un’analisi più approfondita, la sostanziale inversione dei sostrati geologici del sottosuolo, essendo stati rimescolati, per l’appunto, da un cataclisma di derivazione ragionevolmente chiara vecchio di “appena” 50.000 anni. Al punto da giustificare l’adozione del tutto informale, fin dalla sua inevitabile scoperta in era coloniale, del toponimo Meteor Crater. Eppure dopo l’originale parere positivo espresso dallo studioso di mineralogia Albert E. Foote, che aveva analizzato alcuni campioni raccolti in-situ, a novembre di quello stesso anno catartico si sarebbe palesato il contraddittorio di una figura maggiormente rinomata, quel Grove Karl Gilbert, capo del Servizio Geologico Statunitense, che concentrandosi sull’assenza di un campo magnetico dovuto alla presenza di grandi corpi metallici identificò il cratere come la risultanza di un evento vulcanico, analoghi a quelli ritenuti all’epoca come l’origine della particolare conformazione del suolo lunare (Ipotesi che paradossalmente, proprio egli stesso avrebbe in seguito smentito per quanto riguardava il nostro satellite notturno). Detto questo, come avviene in qualsiasi altro tipo di circostanza, non tutti si affrettarono a cambiare i propri preconcetti acquisiti. Uno dei quali, l’agente del Servizio Forestale Samuel Holsinger, si ritrovò a parlare casualmente nel 1903 con l’ingegnere minerario originario di Philadeplhia Daniel Moreau Barringer che aveva fatto la sua fortuna con la miniera di Pearce, nella contea di Cochise. Il quale al sentir parlare di una possibile ingente quantità di metalli utili al di sotto di un luogo isolato e privo di recinzioni pre-esistenti, approdò immediatamente sulle sponde di un’ambiziosa idea: acquisire dal governo i diritti di sfruttamento minerario dell’intera zona del Canyon Diablo incluso il cratere, cominciando a perseguire l’opportunità di riportare in superficie un tesoro. Peccato egli non potesse conoscere, come chiunque altro nella propria epoca, il tipico ed inevitabile destino di qualsiasi meteorite in grado di oltrepassare l’atmosfera terrestre…

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La sacra coppa che fu perduta e ritrovata, diventando l’emblema museale d’Irlanda

“Sbrigati, il bastione del forte non terrà ancora per molto!” Il giovane Coll, con il lungo coltello stretto nella mano sinistra, in assenza del fodero lasciato in casa nella fretta di raggiungere il rath, guardava ansiosamente verso la porta dell’oratorio quadrangolare in legno lavorato, mentre il fratello Sean, secondo aiutante del sacerdote del villaggio, apriva l’armadio con i paramenti, tirandone fuori il calyx ministerialis, singolo oggetto più sacro dell’intero insediamento. Costoro erano i due più giovani membri della milizia e figli di famiglia nobile, inviati a svolgere il doloroso compito proprio perché ritenuti, a torto o ragione, i meno utili nel breve assedio che stava per cominciare contro i razziatori provenienti dal golfo di Corryvreckan, forse gli stessi che avevano attaccato il celebre monastero di Lindisfarne. Uomini spietati, vestiti di metallo e con alti elmi conici, che secondo le storie dei viaggiatori molti avevano iniziato a chiamare i “vichinghi”. Uscendo in tutta fretta dal basso e finemente ornato edificio, Coll fece segno di fermarsi, mentre osservava di sfuggita per un’ultima volta il meraviglioso oggetto, donato con gran sfarzo al capoclan di Ardagh dal suo Re legittimo, a seguito dell’aiuto ricevuto nell’ultima campagna militare con il tuatha (piccolo dominio) confinante. La coppa usata per dire messa, e principalmente costruita in argento, oro, bronzo e vari smalti colorati, conteneva una quantità di altri metalli che nemmeno in due, sarebbero stati in grado d’identificare al di là di ogni ragionevole dubbio. Ed in quel giorno fatidico, nel sesto mese del 723° anno dalla morte e resurrezione di Nostro Signore, essa sarebbe stata sepolta, per salvarla dal pericolo più grande: quello di cadere in mano a predatori spietati ed infedeli, per finire tra i tesori di una stretta e lunga nave di ritorno nell’oscuro settentrione innevato. Così Sean, guardandolo dritto negli occhi, fece un cenno inequivocabile, verso la fossa già preparata coi principali oggetti di valore dell’insediamento. Proprio lì sotto la vecchia quercia, dove un altro calice di bronzo si trovava in attesa, assieme a vari gioielli tra cui le grandi spille circolari dei due esattori delle tasse, inviati qui dal sindaco prima di prendere anche loro le armi. Con la massima deferenza, i fratelli posarono la reliquia tentando d’ignorare i suoi della terribile e disperata battaglia. La vanga, d’altra parte, era ancora lì accanto. Quindi una volta completata l’opera Coll, impugnando saldamente il coltello, alzò lo sguardo oltre le mura circolari del rath: già la punta di un’ascia ed una spada sporgevano oltre il bordo della palizzata. Suo fratello aveva in mano un piccolo arco da caccia, materializzatosi chissà da dove. Era l’ora di tentare il tutto per tutto, dimostrando la propria forza d’animo e convinzioni contro i barbari alle porte della civiltà. A Dio piacendo, nella speranza di essere presi come schiavi e forse, un giorno, ritornare a conoscere la libertà. E forse tornare fino a qui, uomini diversi. E ancor più saldi nella propria fede nei confronti della Provvidenza.
Lieta e pacifica, l’Isola Verde probabilmente non lo era più stata, fin dal posizionamento dei primi vessilli sulle alte colline, strumenti validi all’aggregazione di gruppi sociali in grado di riconoscersi in un antenato comune, con la ferma intenzione di combattersi per delineare i limiti dei propri territori. Ma il tipo di crudeltà e conflitti che questi abitanti poterono sperimentare per la prima volta attorno al sesto e settimo secolo, assieme al resto delle isole britanniche, furono di un tipo e una portata totalmente diverse. Tale da giustificare, in più di un caso, il tentativo di seppellire i propri averi più importanti, nella speranza di un domani migliore. Un giorno che talvolta non aveva proprio alcun modo, né ragione di venire a manifestarsi…

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