Le ali nella spazzatura che riemergono grazie agli uccelli anamorfici di Tom Deininger

Nasce, cresce, si trasforma. Vola, viaggia, piomba sul bersaglio. L’arte che fluttua e si agita nell’aere, su correnti ascensionali che costituiscono il prodotto alternativo della società. Civile, si, da un vasto punto di riferimento. Razionale. Ma anche poco avvezza a mettere su un piedistallo quella serie di concetti e accorgimenti che costituiscono le plurime sfaccettature di un sistema sostenibile ad oltranza. Un’epoca che non distrugge se stessa, non annienta fino all’ultima scintilla di speranza che sussiste nel suo presente. Perciò ben venga l’atto di chi sdrammatizza e riconquista. L’opera di colui che, alle prese con l’oscurità, guarda verso la luce e tenta in qualche modo di mostrarci la via giusta per sbucare dall’oscurità della caverna. Thomas Deininger del Rhode Island (Norwell) a poca distanza dalla città di Boston, è uno di costoro, come chiunque può notare avendo l’opportunità di scorgere una delle sue opere compiute, cui d’altronde sembra mancare ancora qualche cosa d’importante: l’anima intangibile che è sinonimo poetico dell’esistenza. Sebbene ne possiedano, a ben vedere, di un diverso tipo che può essere toccato, manipolato, interpretato in molti modi allo stesso tempo. Prendete, per esempio, uno dei suoi molti corvi, merli, pappagalli. Sculture tridimensionali messe al centro di un riquadro monocromatico, e frequentemente presentate al pubblico attraverso un punto consigliato per osservarle. Questo perché, come un miraggio della Fata Morgana al centro di un deserto riarso, basterà spostarsi innanzi per scoprirne l’improbabile segreto. Scovando l’assoluta moltitudine, in quella gestalt che in origine sembrava presentarsi come un unico insieme. L’avrete certamente visto, a questo punto: lui è quel tipo di creativo che raccoglie oggetti di recupero un po’ qui, un po’ lì (egli stesso è solito chiamarsi: “artista della spazzatura”) per poi usarli come materiale utile a creare l’ultima visione scaturita dai complessi labirinti della sua fantasia. Primariamente figurativo, ossia abile nella raffigurazione iconica di soggetti esistenti, soprattutto animali, la sua forza espressiva risiede primariamente nell’impiego di un ben collaudato sistema. In base al quale gli oggettini colorati, i vecchi giocattoli, i ritagli di reti o recinzioni vengono laboriosamente messi in posa ed incollati mediante l’uso di grandi quantità di colla a caldo. Secondo uno schema attentamente progettato, che è diretta risultanza di molteplici e reiterati tentativi di perfezionamento. Sostanzialmente una sorta di proiezione, concettualmente non dissimile dal metodo delle ombre cinesi. Con una significativa, tutt’altro che sottile differenza: la predisposizione ad essere ammirato in piena luce, affinché l’esatta scelta di colori e sfumature donino all’oggetto risultante un fotorealismo quasi impossibile da prevedere nel momento in cui aveva appoggiato la metaforica prima pietra dell’intricato edificio situazionale…

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L’artista che ha trafitto la foresta usando strali del pensiero anticonformista creativo

La più potente macchina di annientamento del contesto è Internet: attraverso ricondivisioni, gruppi di discussione, anti-librerie e fake-news le circostanze vengono ignorate o sovrapposte, nel superamento delle utili ma restrittive norme di causa ed effetto. Con un punto di vista variabile adeguato all’intento dell’intermediario, taluni soggetti si trasformano in visioni stranianti le cui caratteristiche derivano dal volgere degli attimi, l’inarrestabile ma poco significativa progressione dei momenti. Approccio particolarmente problematico, per l’ambito già fuori dal quotidiano dell’arte. Così visioni di portali ricavati nella prospettiva di una foresta, con perforazioni circolari tra il sottil velo geometrico dei rami, tornano periodicamente a propagarsi da un settore all’altro della sfera digitale, offrendo un’opportunità alla gente di sperimentare con la scrittura creativa. “Certamente trattasi di vie d’accesso per il regno fatato!” afferma qualcuno, No. “È chiaramente colpa di un’arma energetica impugnata dalle misteriose civilizzazioni ultra-mondane.” Risponde anonima la controparte. Quasi come se l’attribuzione a mano umana del bizzarro fenomeno potesse privarlo in qualche maniera della propria unicità, rendendolo il semplice trastullo di un eclettico giardiniere. Il che poi costituisce a pieno titolo, ed al tempo stesso molto vagamente, l’esatto intento e pratica dell’artista finlandese Antti Laitinen, costruttore con forbici e corde di un universo in cui nulla sembra capitare per una ragione precisa, ma piuttosto generando mistiche impressioni “latenti” che poi costituiscono uno dei pilastri sottovalutati di noi moderni. Sempre mantenendo quel rapporto privilegiato ma in diretto conflitto con la Natura, che tanto è stato posto al centro della discussione, sia pur slegata dai suoi metodi creativi, durante l’implementazione metabolica di questa serie nel grande flusso digestivo del Web. Il cui titolo in lingua inglese, Broken Landscapes (Paesaggi Spezzati) poco fa per identificare l’effettiva nazionalità dell’autore, proveniente dalla fredda terra di Finlandia, dove ogni albero mantiene il marchio sacro dell’antico Dio creatore, Ukko delle forze primordiali che congiungono il Cielo e la Terra. La cui furia largamente menzionata nel Kalevala, senza alcun dubbio, non avrebbe potuto fare di meglio che scagliare l’improvvido Kamehameha che nessun materiale appare in grado di arrestare prima dell’infinito. O di più terribile, se osserviamo la questione dal punto di vista dello scoiattolo in cerca di un passaggio tra i recessi dell’alta canopia, come dell’uccello che nidifica alla convergenza dei rimossi rami. Il che in un certo senso, potrebbe costituire proprio l’obiettivo critico & poetico di questo artista di fama internazionale…

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Dimore di un villaggio diafano sospeso tra realtà e immaginazione

Fu in un certo senso l’immagine tridimensionale computerizzata, il primo esito di quel processo futuribile, oggi più spaventoso di qualsiasi mostro di Halloween, che prende oggi il nome di algoritmo generativo. La cosiddetta “intelligenza artificiale” che deriva dall’inserimento del lavoro precedentemente portato a termine dentro il grande frullatore. Che con precisione millimetrica, ri-produce non soltanto la mera illusione, bensì anche l’aroma e lo spirito dell’umanità. Mettete ciò a confronto, dunque, con la perfezione della matematica: una serie di vertici e di punti, a partire da una formula, che sullo schermo avranno la mansione di apparire come aeroplani, edifici, addirittura personaggi non del tutto privi di una certa verve espressiva, protagonisti degli antichi videogiochi. Quello che in un simile settore, viene definito come il wireframe, primo tipo di elaborazione 3D raggiungibile mediante l’uso di tecnologie ormai desuete. Eppure, non sarebbe ingenuo, persino superficiale voler affermare che l’imperfezione degli strumenti limiti la portata del processo creativo? Alcune delle opere più importanti nella storia sono pitture parietali all’interno di una caverna. Statuette in terracotta in cui si vedono le tracce delle dita primitive… E così via. Non si può confondere il MEZZO con l’OBIETTIVO. Almeno che un simile sincretismo non rientri a pieno titolo nel metodo espressivo dell’autore di turno.
David Moreno è l’artista di Barcellona, attivo nel mondo dell’arte tangibile e su Internet almeno per l’interezza dell’ultima decade, che afferma di volersi muovere in quella terra di nessuno che alberga nell’intercapedine tra due mondi. Il disegno e la scultura, o scegliendo di percorrere fino all’estremo l’inerente patto finzionale, l’architettura stessa. Osservare le sue opere, d’altronde, è come perdersi all’interno di un labirinto. Laddove proporzioni e posizioni vengono improvvisamente sovrapposte nello spazio della mente soggettiva del fruitore, che un passo alla volta s’inerpica all’interno di siffatti ambienti. Visioni… Ultramondane. Il punto d’arrivo, piuttosto che una tappa di quel viaggio, all’interno di minuscole città oltre cui traspaiono pareti bianche o elementi mobili di un transitorio fondale. Poiché la misura di quell’arte individuale (difficile, stavolta, dividere il metodo dalla visione) è data dall’impiego di fili metallici e corde di pianoforte, assieme a legno, plastica ed altri elementi da incollare o saldare assieme. Come “I legami che ci uniscono” in base alla semplice didascalia che sembra sempre accompagnarsi a simili creazioni, nel vasto e sacro bosco della comunicazione digitalizzata. Ma non siamo forze innanzi, da molteplici punti di vista, alla visione di un’ineccepibile ritorno alla visione antica del concetto stesso di wireframe?

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L’occhio del discernimento creativo in un sacro dedalo di bambù e spazzatura

L’ineffabile presenza del Divino è spesso resa manifesta da fattori di contesto accidentali, circostanze atipiche o di tipo transitorio. Dal punto di vista soggettivo di Teseo nel Labirinto, l’essere supremo da cui guardarsi e se possibile ricevere il via libera verso un piano d’esistenza superiore (lo stesso da cui, incidentalmente, proveniva) era senz’altro l’uomo con la testa del possente bovino. E non c’è niente che possa scrutare con maggiore tenerezza la malcapitata mosca nella ragnatela, che il proprietario zampettante di quel sospeso ed intricato recesso abitativo. Perché mai, allora, l’uomo del mondo contemporaneo non dovrebbe scendere a patti con l’essenza di ciò che, più di ogni altra cosa, condiziona e detta il ritmo della sua esistenza quotidiana? Quel prodotto inerentemente collaterale, eppur non meno necessario, cui abbiamo attribuito la definizione di “rifiuto”. Eppur mai, per quanto si possa continuare ad auspicarlo, sparirà dal segno e il passo dell’ininterrotto prosieguo della nostra esistenza. Il che presta l’incipiente prospettiva ad una ricca serie di eventualità ulteriori. Come l’emersione di un Demiurgo, quanto meno, per il prolungarsi del precipuo patto finzionale temporaneamente stabilito tra l’artista ed il suo fruitore. Colui, il primo, che domina la testa del draconico contesto. E colui che, invece, tenta di afferrarne per quanto possibile la coda e le ali. Un tema di fondo il quale, se vogliamo, prende vita e si anima rapidamente nelle opere dell’artista indiano Asim Waqif, praticante di una sua particolare versione della creatività di recupero, mirata alla messa in opera di colossali installazioni localmente specifiche in prestigiose gallerie, luoghi pubblici e musei di tutto il mondo. Realizzate, di volta in volta, mediante l’utilizzo preponderante del materiale che meglio sembra esprimere il concetto di fondo. Sebbene nel corso dell’ultima decade, ritrovando l’originale passione dell’inizio della sua carriera, tale plastica sostanza sembri esser diventata primariamente il legno di bambù, cui sembrerebbe in grado di donare una vita, ed al tempo stesso una mente, quasi del tutto indipendenti dal consueto approccio umano alle questioni della vita di tutti i giorni. Verso la creazione di un qualcosa come Loy (লয়, 2020) ovvero vedi sopra, il padiglione creato a Calcutta come tradizionalmente viene fatto in occasione della festa del Durga Puja, la cui propensione al Caos fondamentale degli spazi architettonici, posizionati a circondare ed in un certo senso proteggere la statua della Dea, sembra alludere in maniera trasversale alla questione tematica di fondo: “Schegge lanciate in modo incontrollabile noi siamo. Non questa materia iscritta alle nozioni del razionalismo del senso comune.” Se anche può sussistere una simile dicotomia, una volta che il creatore riesce a fondersi con la sua creazione. In questo caso tanto efficacemente individuabile nel saliente e continuativo rumore di fondo udito dalla civiltà vigente, ogni qual volta un singolo oggetto o materiale da cantiere sopravvive, nonostante i presupposti, all’unico scopo per cui era stato originariamente sottratto al mondo…

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