Il fumo e la sregolatezza del meccanico che dominò le contraddizioni dell’agonismo statunitense

In un famoso ma difficilmente verificabile aneddoto di metà secolo relativo alla storia della NASCAR, la formula motoristica delle vetture cosiddette “di serie”, Henry “Smokey” Yunick, veterano di guerra, pilota di aerei ed automobili, personalità di spicco nel settore e padrone del Dannato Miglior Garage di Daytona Beach (l’effettivo nome del suo negozio) venne avvicinato prima della partenza dai giudici di gara. I quali con ciglio severo, sottoposero a un’analisi approfondita la sua vettura. Nel giro di alcune ore durante cui smontarono persino il serbatoio, gli fu dunque sottoposta una severa relazione: nove infrazioni al regolamento andavano corrette, o sarebbe stato squalificato prima ancora di gareggiare. Con un sorriso di circostanza, allora, Smokey salì a bordo dell’auto e mettendola in moto, esclamò: “Perché non dieci?” Quindi con un ritmo sostenuto, uscì dai box passando agevolmente accanto al serbatoio smontato. Si scoprì a quel punto come, inaspettatamente, ben cinque galloni di carburante si trovavano nel suo speciale tubo che conduceva al motore, lungo e attorcigliato come un serpente. Nessuna norma specifica lo avrebbe, almeno in linea di principio, vietato. È una storia bizzarra, probabilmente vera almeno in parte, come quelle secondo cui lo stesso preparatore famigerato avrebbe in altre occasioni utilizzato un pallone da basket per limitare la benzina contenuta all’interno, poi sgonfiato e rimosso dopo l’ispezione. O ancora raffreddato il più possibile il prezioso liquido, così da infilarne qualche litro in più nelle sue celebrate, e spesso vittoriose stock cars. “Non si gareggia contro gli avversari, ma contro le regole” Era solito affermare. O ancora, la sua preferita: “Non avevano mai detto che non potevo farlo.” Potrebbe apparire alquanto strano, in effetti, che un noto piegatore delle circostanze a proprio vantaggio con metodi non sempre leciti fosse riuscito ad acquisire fama imperitura, al punto da figurare oggi in numerose hall of fame dedicate alla storia dei motori, finché non si considera il coraggio ed il valore della trasparenza. È nella natura stessa delle gare, a quell’epoca, che si cercasse in varie maniere di ottenere vari tipi di vantaggi in modo più o meno lecito. Ma era la maniera in cui egli tentava di restare entro le linee tratteggiate, rendendo allo stesso tempo chiare le proprie intenzioni senza un briciolo di segretezza o vergogna, a renderlo davvero unico tra i suoi molti colleghi.
Soprannominato Smokey non tanto per la sua inseparabile pipa di pannocchia, destinata a diventare un simbolo né per il cappello da cowboy appiattito, Henry Yunick nacque nel 1923 in una fattoria in Pennsylvania, da figli di immigrati Ucraini. All’età di soli 12 anni, secondo un’altra vicenda riportata nelle biografie, pensò bene di sostituire l’ostinato cavallo da traino per l’aratro con un trattore che lui stesso aveva costruito, a partire da pezzi recuperati presso uno sfasciacarrozze locale. All’età di 16, lasciata la scuola successivamente al decesso del padre, iniziò a gareggiare nelle competizioni locali con una moto particolarmente incline a rilasciare fumo nero (smoke) già pochi secondi dopo la partenza. Fu probabilmente proprio quello, l’inizio della sua leggenda…

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Le lunghe notti dei robotaxi urlanti: disanima di un imprevisto esperimento stradale

Immaginate adesso se l’intera moltitudine di un formicaio, durante le proprie operazioni diurne, cominciasse a emettere un qualche tipo di rumore. Come una sorta di ronzio insistente, un chiacchiericcio fastidioso, il ripetuto squillo roboante di un’acuta sirena… Di sicuro, questo priverebbe i giovani esponenti della specie umana di uno dei piaceri più inerenti del vivere in (parziale) natura, l’osservazione di un gruppo di minuscole entità distinte, cionondimeno perfettamente in grado di lavorare assieme ad uno scopo comunitario. Trovarsi molto in alto ha d’altra parte i suoi vantaggi, e può permettere a una vasta varietà di esseri o creature di essere stravolte nelle proporzioni. Trasformando in imenotteri, persino veicoli dotati di un volante, quattro ruote ed una sorta di “antenna” sul tettuccio non più apribile che tende a caratterizzarle. Trattandosi nel caso specifico, di vetture elettrice Jaguar I-Pace, dal tipico colore bianco diventato un quasi sinonimo, a San Francisco, dell’ex-costola di Google, Waymo, probabilmente l’entità aziendale che ha fatto di più negli ultimi 15 anni per far affermare la guida autonoma in una grande città dell’emisfero occidentale. Sebbene nulla di simile fosse mai successo, prima della fine dello scorso luglio in questo parcheggio della zona residenziale SoMa (South of Market) ove gli abitanti dei palazzi limitrofi hanno cominciato a svegliarsi ripetutamente nelle ore più buie della notte. Al riecheggiare, massiccio ed insistente, del tipico verso veicolare. Un vero e proprio concerto di clacson, è ciò di cui stiamo parlando, qualcosa che in circostanze per così dire umane difficilmente avrebbe avuto la ragione di generarsi. Soprattutto nella consapevolezza dei propri simili che in tranquillo stato d’incoscienza, si preparavano ad un’altra lunga giornata d’impegni entro i confini della Parigi dell’Ovest statunitense. E poi, perché mai emettere un tale baccano, durante le operazioni relativamente semplici di una manovra di parcheggio? E perché poi farlo sempre ed esclusivamente quando la Luna è situata in alto nel cielo, quasi a incrementare l’effetto straniante desiderato nei confronti delle vittime situazionali delle circostanze… La realtà, come spesso capita in ambito informatico e dell’intelligenza artificiale, è da ricercarsi nella programmazione. Quel vasto libro di criteri che governa, in ogni varietà di circostanze, l’effettivo comportamento di un qualsiasi essere artificiale…

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L’auto pesce creata come simbolo dell’ipertrofismo californiano

Non tutti hanno la fortuna di vedere realizzati i propri sogni, per quanto ardui o remoti possano sembrare in linea di principio, sulla base del presente in cui dovranno essere contestualizzati: momenti come il Los Angeles Auto Show del 2013, quando i visitatori dello show floor principale si trovarono al cospetto di qualcosa di assolutamente privo di freni inibitori inerenti. Un veicolo con quattro ruote, senza dubbio, ma la familiarità poteva fermarsi a questo punto; per la grandezza di quest’ultime, più simile a quelle di un trattore, accoppiate ad un design estetico che avrebbe avuto, pur con tutta la sua bizzarria, collocazione idonea ai margini di un catalogo di supercar dei nostri giorni. Non fosse stato per le dimensioni dell’oggetto in questione, lungo poco più sei metri e largo 2,3 distribuiti in una carrozzeria che non si sarebbe trovata a disagio nella zona mesopelagica di uno dei principali oceani di questo azzurro pianeta. Rigonfia, piuttosto che stondata; mostruosa, prima che aggressiva; insolita fino al punto di voler sfuggire a qualsivoglia tentativo di categorizzazione, nelle sue 3,4 tonnellate paragonabili al peso di un piccolo autobus cittadino. Ecco a voi la Youabian Puma, probabilmente tra le one-off più assurde della storia dei motori, che tale avrebbe dovuto rimanere se non fosse stato per l’inaspettata celebrità internazionale acquisita, grazie ai numerosi articoli moltiplicatosi, online e altrove, nell’ostinato tentativo di qualificarla come “orrore degli orrori” o “terrificante pugno in un occhio”. Come se il gusto dettato dalle regole comuni del senso estetico fosse l’unica maniera di relazionarsi con il mondo e le cose più sfrenate contenute al suo interno, manifestazioni identitarie di una sovra-personalità che grava sulle spalle di ognuno di noi. Fatta eccezione, possibilmente, per l’esclusivo club dei creativi avanguardisti, a cui avrebbe pieno diritto d’appartenenza l’eclettico chirurgo plastico di Los Angeles Kambiz Youabian, dalla cui mente è scaturita, come progetto del tutto collaterale, l’imponderabile presenza del titolare miracolo (o terrore deambulante) nel campo spesso trasversale del design con sottotesto e simbolismo delle circostanze accidentali. Creata in base alle informazioni reperibili su Internet a partire dal telaio di una Volvo C70, profondamente modificato e appesantito dall’impressionante carrozzeria in fibra di vetro, l’automobile sembrerebbe aver trovato la sua forza interiore mediante l’aggiunta di un motore sportivo “ispirato alle corse” di tipo V-8 in alluminio pressofuso da 427 pollici e 505 spropositati cavalli di potenza, capace di spingerla fino a 100 Km/h nel tempo di appena 7 secondi. Poiché per quanto lo stesso creatore avesse dichiarato, nel corso dei suoi 5 minuti di celebrità, di non considerare le prestazioni o la velocità di punta particolarmente importanti, era pur sempre necessario giungere a giustificare l’alto prezzo di acquisto e l’appartenenza ad un settore popolato di Ferrari, Porsche e Lamborghini nei garage dei miliardari della baia californiana. “Chiaramente, quest’auto non è pensata per chi ha appena un milione di dollari da spendere, e nessun toro o cavallino nel suo garage. Ma per coloro che già possedendo i tipici simboli dell’opulenza motorizzata, adesso vogliono qualcosa di assolutamente diverso…”

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La cubica vettura in parte camper, per il resto antica Ford Model T

È un’astrazione di matrice fondamentalmente moderna, l’idea che il viaggio possa costituire un’attività di svago, piacevole e divertente. Avventuroso, impegnativo, illuminante e spesso fonte di pericoli inaspettati, un tempo muoversi dal proprio luogo di nascita costituiva l’impresa di coloro che, pronti a rischiare la propria incolumità, avevano soppesato i pro ed i contro di una vita sedentaria, scegliendo per se stessi un destino alternativo. E d’altra parte non tutte le destinazioni potevano essere raggiunte via mare, a bordo di scafi dotati di cabine e almeno la parvenza di opportuna confortevolezza e praticità abitativa. Per quanto nobili o potenti, così come persone benestanti appartenenti al mondo della cultura, potessero dotarsi di carrozze imponenti, la loro dotazione a bordo non era mai paragonabile a quella di un salone costruito su solide fondamenta. Le cose cominciarono a cambiare, fondamentalmente, grazie all’invenzione dei primi motori: così il Duca Costantino Petrovich di Oldenburg, nei suoi spostamenti attraverso la Francia, si era fatto costruire nel 1896 una sofisticata diligenza, trainata non da un gruppo di cavalli bensì un veicolo a vapore. L’organizzazione degli spazi, completa di letti ribaltabili, armadi a scomparsa e spazi ove rilassarsi durante il tragitto, avrebbero fatto molto per mostrare il sentiero necessario a far progredire un tale campo tecnologico dalla sensibilità rinnovata. Soltanto 18 anni dopo, avremmo avuto questa: una letterale casa su quattro ruote, tutta in uno, dove l’eleganza era una parte integrante della funzionalità. Così come una coerenza progettuale in cui ogni singolo dettaglio, dai fari appesi esternamente alla buca per le lettere prevista per la “porta principale”, passando per le tende alle finestre rigorosamente quadrangolari, contribuivano a un’estetica quasi fiabesca nel suo complesso. Capace di apparire, al giorno d’oggi, piacevolmente retro-futuristica, come un pezzo di tecnologia mostrata in un cartone animato sulla “comoda” vita degli Antenati. Si tratta di CR 4134 del 1914, come viene chiamato in funzione della propria targa (non è chiaro se possa essere ancora omologato) il camper one-off costruito dalla compagnia britannica Baico a partire dall’umile ed ubiqua Ford Model T, con un corpo in legno di pino assemblato dalla Dunton di Reading. Il tutto su specifica commissione della facoltosa famiglia Bentall, proprietaria dell’omonima catena di grandi magazzini di lusso. Una letterale capsula temporale motorizzata dunque, vecchia un secolo e venduta con grande rilevanza mediatica un paio di estati a questa parte durante una grande asta indetta dalla Bonhams, ad un compratore anonimo che giunse ad investire la cifra di 63.250 sterline per possederla. Troppo? Troppo poco? Ai posteri l’ardua sentenza. Ah, i posteri siamo noi! Vorrà dire che dovremo, a questo punto, Contestualizzare…

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