Nel volo acrobatico ad alte prestazioni, nient’altro che un diverso giro di parole in grado d’identificare il combattimento aereo, un problema costante può essere individuato nella condizione accidentale nota come G-LOC (G-induced Loss Of Consciousness) ovvero la perdita di coscienza temporanea da parte del pilota, dovuta al deflusso transitorio del sangue dalla zona del cervello verso i piedi durante una virata particolarmente ardita. Un problema particolarmente sentito durante il grande conflitto degli anni ’40, quando nonostante la quantità di duelli condotti nei cieli d’Europa e del Pacifico, le tute a compressione G risultavano una tecnologia poco studiata e dall’impiego limitato nella maggior parte dei teatri di guerra. Dovette dunque far accendere da subito le giuste lampadine, la proposta del rinomato ingegnere aeronautico Jack Northrop, già capo in precedenza di tre compagnie recanti il suo stesso nome, quando nel 1942 presentò ai capi del settore ricerca & sviluppo dell’Aviazione statunitense una nuova interpretazione del concetto di aeroplano. In cui non soltanto coda e fusoliera venivano sostanzialmente eliminate come superflue, in maniera non diversa dal suo recente prototipo N-9M (un’idea di bombardiere destinato a diventare, moltissimi anni dopo, il B-2 Spirit della Northrop Grumman Corporation) ma il singolo membro dell’equipaggio a bordo di quello che avrebbe assunto la denominazione provvisoria di XP-79 assumeva un profilo aerodinamico dall’impatto sensibilmente minore, trovandosi posizionato in corrispondenza di una bolla panoramica in posizione prona di quella che era sostanzialmente una “falsa” ala volante, essendo dotata anche di superfici di volo in posizione perpendicolare al suolo.
Volare come Superman, con la testa sollevata e lo sguardo rivolto in avanti, le mani protese in questo caso a stringere una cloche simile alle corna di un bovino potrà dunque anche sembrare poco pratico. Ma riprende a pieno titolo e in un certo senso migliora la condizione naturale degli uccelli, permettendo in linea di principio a brevi missioni di essere condotte in modo rapido, efficace, predatorio. Aggettivi altamente desiderabili per questa insolita interpretazione di un intercettore ad alte prestazioni, concettualmente non così lontano dal quasi coévo Me 163 Komet, che un paio d’anni dopo avrebbe visto il compatto caccia tedesco proiettato all’indirizzo delle formazioni d’attacco alleato grazie all’utilizzo di un potente motore a razzo HWK. Laddove la versione americana, destinata a scongiurare un reiterato impiego dei bombardamenti a tappeto che tanto erano costati alla città di Londra durante il sanguinoso periodo della cosiddetta Battle of Britain, di impianti simili ne possedeva ben due, originariamente commissionati alla compagnia Aerojet. Almeno finché, ben prima della realizzazione pratica del velivolo in quelle che erano ormai le ultime battute della guerra, non fu deciso di sostituire i suddetti motori con una coppia di Westinghouse 19B da 5.1 kN cadauno. Abbastanza da spingere il potente apparecchio alla velocità di 880 Km/h, con un rateo di salita di 20 metri al secondo, sebbene un ritmo simile non fosse facile da mantenere particolarmente a lungo. Né aveva bisogno, sostanzialmente, di riuscire a farlo. Giacché una volta raggiunto il nemico l’XP-79 non avrebbe certo perso tempo in lunghi e complicati inseguimenti con la sua scorta. Preferendo piuttosto impattare a gran velocità contro le superfici di volo degli aerei più grandi, vulnerabili e perciò preziosi dell’intero schieramento…
aerodinamica
La goccia su ruote creata per analizzare l’interconnessione tra i motori e il vento
Variabile attraverso gli anni, per non parlare delle decadi, è l’ideale di cosa sia “bello”, “attraente” o semplicemente “strano”. Benché esistano determinate realizzazioni tecnologiche, sufficientemente dotate per quanto concerne uno di questi tre canoni, da risultare significative in qualsiasi epoca si voglia dare un voto alle realizzazioni dei tempi passati. Sto parlando in questo senso di automobili, il mezzo di trasporto personale per eccellenza, capace di adattarsi ai gusti di popoli e persone ma anche di trascendere il momento in cui vennero fatte scaturire dalla fabbrica di provenienza. Oppure mere, singole officine; poiché non è in alcun modo scontato che i modelli maggiormente memorabili debbano per forza essere prodotti in serie. Quando l’esperienza insegna, in ogni campo, come l’immaginazione o il gusto estetico di un singolo possa creare spesse volte cose memorabili. Come l’ignoto progettista al soldo della McQuay-Norris, azienda di St. Louis (MO) specializzata in parti di ricambio per motori anteguerra, che nel 1934 offrì ai suoi capi l’opportunità di farsi riconoscere mediante il più attraente tipo di pubblicità semovente: un’automobile che aveva forse delle ispirazioni pregresse, appartenendo ad un filone di comprovata efficienza, ma che la stragrande parte della popolazione non aveva mai visto. Il cui nome fu un diretto e descrittivo Streamliner, l’aggettivo in lingua inglese che potremmo tradurre con “aerodinamico” qui perfetto al fine d’identificare il punto principale di una simile carrozzeria, creata per ridurre la resistenza di quel fluido gassoso, che come fin troppo bene sappiamo costituisce l’ottima atmosfera terrestre. Ecco dunque l’idea, presentata al pubblico attraverso una nuova campagna sui principali quotidiani dell’epoca, di mandare in giro una serie di sei rappresentanti per il paese, il cui semplice passaggio potesse far voltare la testa e focalizzare l’attenzione di chicchessia. Il primo pensiero con l’esperienza degli anni intercorsi va alla celebre Wienermobile a forma di wurstel (vedi articolo) della Oscar Mayer, che ancora oggi costituisce uno dei principali marchi di fabbrica dell’azienda produttrice di alimenti confezionati. Ma la vettura McQuay-Norris, con il suo tenore prettamente sperimentale, costituiva ben più che un semplice punto per focalizzare l’attenzione di grandi e piccini. Incorporando nel suo abitacolo, la cui spaziosa plancia ricordava un tavolo da pranzo, un’impressionante serie di indicatori e strumenti scientifici, capaci d’indicare tra le altre cose il flusso del carburante e dell’olio, la pressione dell’acqua, la temperatura dei gas di scarico, la compressione dell’aria ed in modo particolarmente rilevante per gli affari della compagnia, l’eventuale perdita di gas di combustione dai cilindri dell’olio anche per vetture terze, mediante l’uso di un sofisticato quanto misterioso apparato sul sedile del passeggero. Affinché il giovane ingegnere impiegato come rappresentante, in visita presso il cliente di turno, potesse incoraggiarlo ad acquistare le guarnizioni, i pistoni, i cuscinetti a sfera o altri ricambi facenti parte del suo ricco campionario. Un’idea di business dalla chiara praticità funzionale…
L’impraticabile leggerezza dello Starship, futuribile fallimento nella storia dell’aviazione
Se i tipici compratori degli aerei privati dovessero preoccuparsi in maggior misura proporzionale del costo iniziale del velivolo, vedremmo probabilmente una maggiore quantità di apparecchi concepiti per stupire o impressionare gli spettatori, in maniera analoga ma in proporzione più costosa delle stravaganti hypercar che lungi dal diminuire di numero, hanno addirittura proliferato nel corso degli ultimi due decenni. Se anche il significativo apporto pecuniario da conferire per carburante, mantenimento e riparazione di una tale classe di status symbol costituisse l’ultimo problema, ancora i più bizzarri esempi ingegneristici troverebbero un proprio segmento di mercato, vista l’esistenza del rinomato ed altrettanto problematico 1%, per cui ogni tipologia di crisi economica o disastro finanziario costituisce ormai soltanto l’occasione di generare ulteriori profitti. Ma un mezzo di trasporto alato è soprattutto la punta dell’iceberg di un sofisticato sistema, fondato sulla produzione pressoché continua di pezzi di ricambio. E non è semplicemente immaginabile che una compagnia del mondo capitalista, di fronte a una manciata di esemplari venduti, possa continuare a supportarli in perpetuo. Fu probabilmente questo, tra gli altri fattori ad affossare irrimediabilmente uno degli aerei più avanzati (in linea di principio) ed avveniristici (se così vogliamo definirlo) dei rutilanti, fiduciosi, eclettici anni ’80.
Ci sono bolidi con ali a freccia, ed altri dotati di configurazione aerodinamica con gli alettoni frontali canard. Alcuni sono dotati delle atipiche eliche spingenti, con il vantaggio di ridurre le vibrazioni nell’abitacolo fino ad un valore paragonabile a quello di uno stabile motore a reazione. Ben pochi, d’altra parte, possiedono una “coda” invertita, finalizzata a contrastare l’eccessiva portanza della parte frontale della fusoliera, che avrebbe altrimenti teso ad allontanarsi costantemente ed incessantemente dalla linea dell’orizzonte. E poi c’è il Beechcraft Starship, che incorpora tutte queste caratteristiche e diversi altri anacronismi, intesi come valide anticipazioni di tecnologie all’epoca sperimentali, alcune delle quali destinate a diventare dei capisaldi futuri dell’aviazione. Ecco un piccolo bimotore a turboelica per fino ad otto passeggeri dunque, che potrebbe definirsi la risultanza di una serie di fattori tangenti, ciascuno destinato a contribuire al suo strabiliante eclettismo in termini di estetica e funzionalità. Costituendo, allo stesso tempo, l’imprescindibile genesi della sua inevitabile condanna. L’idea nacque di suo conto nel 1979, dall’intento pratico e condivisibile di commercializzare un nuovo successo appartenente alla categoria dei riusciti King Air, aerei “da turismo” e trasporto su tratte medio-brevi, che avevano dominato il mercato nel corso delle loro ultime quattro generazioni…
L’originale auto aerodinamica, un trascurato traguardo rumeno
Fattore di una certa importanza nella moderna progettazione di autoveicoli è il coefficiente di resistenza dell’aria, un calcolo relativo alla densità di quest’ultima, moltiplicata per l’area di riferimento e la velocità al quadrato, giungendo ad un valore indicativo dell’efficienza nell’impiego della spinta motrice. Con un risultato il quale, oggigiorno, tende ad aggirarsi per le vetture stradali omologate attorno allo 0,25-0,30, grazie alle lunghe decadi di miglioramenti messi in pratica dalla maggior parte delle aziende produttrici al mondo. Caratteristiche che oggi diamo per scontate, quali cabine chiuse con finestrini a vista, ruote incorporate nella carrozzeria e fari che non interrompono le forme armoniose del veicolo, laddove un tempo componenti come claxon, borse o persino il motore sporgevano trasversalmente, imponendosi come forme che accrescevano la resistenza all’aria. Immaginate dunque la frustrazione di un ingegnere progettista d’inizio del secolo scorso come Aurel Persu, che nella sua natìa Bucharest fu tra i primi a rendersi conto di come i suoi contemporanei stessero tralasciando ogni considerazione significativa in merito all’efficienza veicolare, raggiungibile mediante l’applicazione di un simile serie d’accorgimenti utili a far scendere un coefficiente superiore a 1,0-2,0. Fu quindi nel 1922, mentre lavorava come consulente al perfezionamento degli aeroplani, avendo già conseguito riconoscimenti in campo accademico per i suoi studi, che vide l’opportunità di pubblicare un articolo scientifico destinato a rimanere nella storia. Un pezzo molto critico relativo all’industria dei veicoli globale, dominata in base a un gruppo di criteri che non parevano in alcun modo utili ad ottimizzare i consumi, aumentando esponenzialmente l’impatto economico e perché no, l’inquinamento causato dai moderni trasporti a motore. Per poi proseguire con dialettica eloquente, nell’incoraggiare la fondazione di un sindacato internazionale degli automobilisti, che potesse idealmente chiedere a gran voce i miglioramenti opportuni. Detto ciò e rendendosi lui stesso conto di stare combattendo contro una parete inamovibile, decise quindi l’anno successivo di mostrare a tutti il modo giusto di costruire un veicolo, nella speranza forse vana di riuscire ad essere il cambiamento che voleva vedere nella società futura. Il risultato fu l’automobile destinata a portare semplicemente il suo nome, per la quale si sarebbe ispirato, in base a nozioni aneddotiche, alla “forma ideale di una goccia d’acqua che sta cadendo”. Sebbene il primo brevetto conseguito in Germania nel 1924 parlasse piuttosto della forma del corpo di un uccello, “come un piccione” e le non sempre generose retrospettive internettiane amino paragonarla ad una scarpa posizionata al contrario rispetto alla direzione di marcia. Il che non era certo l’obiettivo, mancando ancora il tipo di sensibilità nel design destinate a trovare sfogo nel secolo successivo, benché nessuno potesse negare i meriti della matematica: l’Automobilul lui Persu poteva vantare, infatti, un coefficiente aerodinamico di 0,22, essenzialmente pari a quello di una Porsche Carrera di oltre mezzo secolo dopo…