Scie di fuoco intiepidiscono i binari americani? C’è un perché

Il 24 gennaio del 2019, senza nessun altro preavviso che una vaga preoccupazione tra i principali interpreti dei dati meteorologici a disposizione, il vortice polare si è abbattuto sugli stati del Midwest e il Canada Orientale, causando effetti ad ampio spettro e conseguenze largamente deleterie. Nel giro di una settimana appena, le temperature sono scese fino ed oltre il punto d’incontro tra i gradi Celsius e Fahrenheit (-32) in diverse regioni del Michigan, l’Indiana e il Minnesota, mentre il record veniva raggiunto dall’Illinois, presso la cui capitale Chicago il vento gelido faceva registrare una temperatura percepita di -41 gradi. Sensibilmente più bassa di quelle registrate attualmente in Antartide, dove tra l’altro, trattandosi del punto più meridionale del nostro intero pianeta, è al momento estate. Nel corso della scorsa settimana quindi, i media locali e internazionali hanno potuto assistere alle misure preventive messe in atto da un centro amministrativo il quale, pur trovandosi alle prese con un caso limite, possedeva ben più di una nozione per far fronte alle ondate gelide, essendosi trovato più volte nel corso delle ultime decadi a far fronte a simili anomalie. Come ci si sente, dunque, ad essere il più precoce baluardo che deve affrontare per primo gli effetti geopolitici del mutamento climatico terrestre? Saldi, forti nei propri principi e lievemente bruciacchiati. Come avranno certamente pensato i pendolari ferroviari che, nel corso della scorsa settimana, si sono ritrovati ad assistere a uno spettacolo piuttosto insolito: il personale della Metra, principale linea ferroviaria cittadina, che in preda ad una sorta di follia collettiva sembravano gettare kerosene ed altri liquidi infiammabili sui più remoti recessi della loro preziosissima strada ferrata. Mentre con un ghigno indotto dallo sforzo psicologico e sentimentale, appiccavano un incendio nella pozza risultante, per poi starsene a guardare i risultati.
Ora tutto questo può sembrare strano, ma il fatto è che per quanto concerne un treno elettrico o alimentato a diesel, non c’è semplicemente nulla che possa prendere fuoco nella sua parte inferiore: soltanto il metallo delle ruote e potenzialmente le condotte di alimentazione di un fluido il quale, per ardere, non può accontentarsi delle sole temperature elevate, ma necessita di fiamma “e” pressione. Ciò che in molti hanno tardato a interpretare, dunque, non era una sorta di atto vandalico indotto da una sorta di follia collettiva, bensì una procedura di assoluta urgenza, pena il letterale disgregamento della ferrovia.
Tutto inizia dalla reale natura di un binario, un concetto ingegneristico che da sempre appare, erroneamente, certo ed immutabile lungo il sentiero. Quando la realtà dei fatti è che l’acciaio utilizzato, fin dalle origini di un simile dispositivo, è assai flessibile ed al tempo stesso, capace di espandersi e contrarsi in base alla temperatura. Il che porta a un procedimento d’installazione che potremmo paragonare, con una similitudine efficace, a quello di un elastico allungato fino all’estensione massima, per poi essere fissato tramite una serie di puntine. Si chiama, in lingua inglese, rail stressing e prevede il surriscaldamento entro linee guida molto generose dell’intera estensione di strada ferrata ben prima della sua inaugurazione, spesso mediante il fuoco stesso, al fine di evitare il caso limite peggiore: un binario che, allungandosi per il calore estivo, possa deformarsi e causare un qualche tipo di deragliamento. Caso vuole, tuttavia, che il freddo eccessivo di questi giorni, almeno senza nessun tipo di contromisura, possa causare danni forse meno gravi ma altrettanto duraturi…

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Il doppio volto dei mostri di neve del monte Zao

Nella lunga e stratificata tradizione mitologica del Giappone, innumerevoli luoghi nascondono uno spirito ulteriore o l’aspetto intangibile del mondo segreto, da cui Dei e creature sovrannaturali possono influenzare l’esistenza degli umani. E il più caratteristico dei fenomeni atmosferici, capace di un alto strato candido le più svariate superfici, non fa certamente eccezione. Esistono almeno due macro-gruppi di yōkai (妖怪 – apparizioni) appartenenti in via specifica a quel tipo di paesaggio: la Yuki Onna, donna della neve, e il Yuki Jiji ovvero il vecchio, oppure nonno, dello stesso gelido elemento. Sulla base di questi due personaggi, o vere e proprie maschere del teatro popolare, si affollano varianti: lo spettro che cavalca le valanghe in occasione di speciali ricorrenze; la strega dalla testa enorme che saltella su una gamba sola, poco prima di rapire e divorare gli incauti bambini del posto; la diafana fanciulla che incontrato un samurai presso il sentiero, gli mette in braccio il suo bambino, il quale diventa progressivamente più pesante fino ad immobilizzare il malcapitato e portarlo ad una lenta morte per congelamento.
È perciò del tutto naturale, nonché stranamente rassicurante in maniera inversa, che ogni essere inumano che trova collocazione nel sostrato di acqua congelata debba necessariamente avere intenzioni malevole, come si confà a questa ricca categoria di prodotti della mente immaginifica di lunghe generazioni d’artisti e poeti. Tutti tranne uno specifico tipo di mostro, che è possibile incontrare in molti luoghi ma che resta strettamente interconnesso, nell’immaginario comune così come nei fatti, alle ripide pendici del monte Zao, vulcano ormai soltanto lievemente attivo nella prefettura di Yamagata al confine con Miyagi, in quella stessa regione del Tohoku che venne colpita, nel 2011, da uno dei terremoti più terribili a memoria d’uomo. Abbastanza forte da distruggere edifici, rendere deserti interi villaggi, spazzare le coste con la furia delle onde che ogni cosa annientano mentre liberava la furia di un potenziale disastro atomico a Fukushima, ma NON cambiare le antichissime e immutabili regole della natura. Parte di un sistema per il quale, ogni anno tra ottobre e marzo, il vento siberiano soffia verso meridione inerpicandosi su tali pendici dopo aver attraversato il Mar del Giappone, per causare, senza falla, lo spaventoso ritorno dei Juhyō (樹氷). Mostri di neve, come vengono chiamati a beneficio dei turisti, benché i due caratteri da cui è formato il loro nome abbiano il significato ben più descrittivo di “alberi ghiacciati” e i locali preferiscano impiegare la metafora della coda di un gambero, vagamente richiamata dalla sagoma che formano tali misteriose presenze. Dovete sapere a tal proposito che l’intera regione del monte di Zao è un’importante resort sciistico nonché una rinomata onsen (温泉 – stazione termale) ragion per cui, come succede spesso in queste terre, i visitatori negli anni hanno fatto il possibile per individuare un carattere specifico, ed in qualche modo capace di caratterizzare un viaggio fin quassù, dove le aspettative non potevano, semplicemente, restare deluse. E c’è da dire che sulla base di una simile interpretazione, il fitto manto boschivo che incapsula le piste del vulcano, tale da prevenire ogni accenno di creatività sciistica da parte dei visitatori, assume in tale modo un merito bizzarro ed ulteriore, che può essere inserito con orgoglio nelle guide e le brochure locali. Non che i Juhyō, del resto, possano essere descritti come altro che un prodotto di condizioni estremamente raro delle condizioni atmosferiche vigenti…

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Il topo nato senza la pazienza di restare congelato

Ci sono individui che, piuttosto di sentire il peso della variabile miriade degli impegni quotidiani, danzano a una tale musica e in qualche proficua maniera, riescono a trarre giovamento da quel senso di essere “importanti” o “utili” a uno scopo superiore. Già, il ritmo. Un principio secondo cui, attraverso una delle più trasversali e rare leggi trasversali della fisica, la giusta vibrazione può riuscire a demolire le montagne. Così vibrano, costoro, e raggiungono uno stato che in qualche maniera definisce i limiti delle proficue circostanze. Senza più fermarsi, baffi coda e tutto il resto, fino all’ultimo dei loro giorni su questa Terra. O acqua che dir si voglia: vi siete mai chiesti, a tal proposito, cosa può permettere di dare un senso a quel sottile spazio, gelido e intangibile, che costituisce la barriera tra i due unici elementi che tendono ad accumularsi sul fondo? Non è solo, o necessariamente, quello stato concesso dall’alto di “esseri anfibi”. Poiché dove manca di assisterci la biologia, può giungere, talvolta, il supremo potere del desiderio.
Ciò hanno visto con i propri stessi occhi, e questo potrebbero riconfermare in modo enfatico, i due pescatori sul ghiaccio russi che, dopo aver scavato un profondo buco sull’involucro non-molto-trasparente di un non meglio definito specchio d’acqua, hanno visto a un tratto fuoriuscire la creatura non più lunga di 7-8 centimetri, più altrettanto per la coda. Ovverosia una palla, con un folto pelo, quattro zampe zig-zaganti, il naso lungo e arcuato come quello di un coboldo in cerca di… Qualcosa. L’unica cosa possibile, per chi possiede un’organismo che vive letteralmente al volgere dei singoli minuti, rischiando ogni giorno di morire se non mangia l’equivalente del proprio peso. Neomys fodiens, toporagno d’acqua eurasiatico, potremmo a questo punto definirlo, se soltanto stesse fermo quel momento necessario per scattargli la foto della patente. Non che abbia bisogno di nessun veicolo, al fine di raggiungere la meta. Perché tutto quello che succede nel corso della vita, dal suo punto di vista, avviene al rallentatore. Siamo onesti: questa è una creatura che può arrivare a contare, nel migliore dei casi, un massimo di tre anni (se non viene divorata prima da uno dei suoi molti predatori) e se in un tale periodo si prendesse anche il tempo necessario per andare in letargo, dormendo tutto il tempo, difficilmente avremmo basi logiche per definire la sua vita… Interessante. Ecco, quindi, la sua soluzione a un simile problema: restringere se stesso ed abbassare le sue aspettative di alimentazione, con il cervello e gli organi che in autunno, perdono almeno un terzo della loro massa complessiva. Nella vaga speranza che la Provvidenza dei topi ed altri piccoli mammiferi, in un frangente particolarmente lieto, gli offra l’occasione di provare il gusto e la felicità dell’abbondanza…

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I virtuosi della pala da neve sui tetti dei samurai

Col progredire dello stato di torpore che comunemente segue al tramonto, l’oscurità della notte iniziò a farsi gradualmente più silenziosa. Eppure il vento, che soffiava intensamente dal profilo distante del monte Zubakuro, non sembrava essere calato d’intensità. Al lento muoversi di una luce in cielo, affermazione esistenziale di un aeroplano solitario, si aggiunse improvvisamente il serpeggiare di un milione di particelle. Le quali, muovendosi in alternanza, sembravano accompagnate da un senso incrollabile di nostalgia. “Rendi quella donna / senza cuore, o vento di montagna (yama-oroshi 山颪) / del tempio di Hatsuse, / ancor più crudele! – Questo non è / lo scopo della mia preghiera, eppure…” Sussurrai. In breve tempo, il colore dominante del paesaggio iniziò a farsi pallido e uniforme, mentre il bagliore della luna veniva riflesso da ogni possibile angolazione. A quel punto apparve chiaro che la strada asfaltata per il Ryokan di Yamada era ormai del tutto scomparsa, sotto uno strato compatto e candido, inarrestabile quanto l’erba di primavera. L’inverno, come previsto, era arrivato nella parte centrale dell’isola di Honshu. Ben presto, le finestre del primo piano avrebbero sostituito le porte, mentre il familiare scintillìo della doppia impugnatura di metallo sarebbe tornato attuale, come sui campi di battaglia di molte generazioni fà. E il nome poetico di questo luogo, “paese della neve” (yukiguni – 雪国) avrebbe trovato la sua attesa quanto imprescindibile riconferma stagionale.
Esiste un concetto largamente diffuso per cui i paesi più freddi, ovviamente, debbano essere i più nevosi. Il che trova una logica riconferma in molti luoghi segnati sugli atlanti benché, ce lo insegna l’esperienza, non debba essere necessariamente né sempre vero. Vedi, ad esempio, alcune regioni centro-settentrionali del grande Giappone, dove una particolare confluenza di fattori cospira nel generare un particolare macro-clima, definito per antonomasia nordamericana il cosiddetto effetto lago. I cui effetti risultano estremamente noti a tutti coloro che vivono nella regione del Superiore, il Michigan, lo Huron, l’Erie e l’Ontario, enormi masse d’acqua sopra cui si generano flussi ventosi e carichi di neve, tali da ricoprire completamente persino il più popoloso contesto urbano. Perciò immaginate adesso, soltanto per un attimo, l’effetto di un flusso d’aria che tragga l’origine dall’area di Vladivostok in Siberia, per attraversare con pressante inerzia la vasta distesa del Mare antistante. Il quale, essendo costituito da acqua salata e relativamente calda, non riesce a gelarsi, ma genera condensa, portata immancabilmente a salire per l’effetto della bassa pressione. Quindi questa massa gelida e carica di precipitazioni potenziali raggiunge il cosiddetto paese degli Dei, dove gli stessi rilievi sopra cui trovavano posto gli antichi spiriti fungono da barriera. In attesa che giunga il momento propizio, per scendere a valle e far conoscere alla gente del posto il significato ultimo della parola “bianco”.
Esiste un’espressione in giapponese che, come capita spesso per questo idioma, implica un doppio senso nella sua omofonia: spalare la neve (yuki-oroshi 雪おろし) richiamando il già citato yama-oroshi o vento invernale, con una parte verbale sillabica che riesce a implicare di nuovo il concetto di “buttare giù” qualcosa. Stavolta, tuttavia, da molto meno alto rispetto agli svettanti picchi delle montagne distanti. È l’eterno problema dei tetti delle case, purtroppo incapaci di sostenere pesi al di sopra delle 20, 25 tonnellate di panna montata…

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