È quasi pronto il vaso più grande della città di New York

La prima domanda che molti si pongono, in materia d’architettura, è quale sia esattamente la funzione. Quasi come se l’assenza di una risposta immediata e sufficientemente chiara, nella maggior parte dei casi, condanni l’oggetto dell’analisi ad essere relegato nel mondo collaterale dell’arte. Quel regno privo di sostanza, ma non di valore, in cui tutto esiste per il solo scopo di esistere, o suscitare nell’osservatore un senso di comprensione ulteriore, funzionale a comprendere il perché debba continuare a farlo. E c’è un budget, secondo la morale comune, che dovrebbe essere destinato alla costruzione di cose “utili”. Ed un altro per lo svago, ovvero tutto ciò che esula da una mera logica di convenienza. Il che tende inevitabilmente a generare problemi, in un paese come gli Stati Uniti in cui molti di coloro che realizzano opere pubbliche sono dei privati, come parte dello sviluppo per nuovi quartieri dai grossi propositi di guadagno o per semplice esenzione dalla morsa costante e spietata delle tasse. Situazioni che permettono, un giorno, di svegliarsi sapendo che una vasta area dismessa sarà presto trasformata in un punto di riferimento importante. E non c’è niente che i suoi vicini abitativi possano dire o fare, per tentare d’influenzare la marcia inarrestabile della modernità.
The Vessel: come Stonehenge, come una piccola piramide o per essere più moderni, un qualcosa di concettualmente simile alla Tour Eiffel. Con un’altezza comparabilmente inferiore benché niente affatto indifferente: 45 metri esatti. Pur non avendo nulla da invidiare, in materia di piani: esattamente 16, rappresentati da 80 spazi aperti liberamente percorribili e interconnessi da 2.500 scalini. Già, perché in effetti è di questo che stiamo parlando: una gigantesca struttura modulare traforata, completamente aperta agli elementi, concepita per permettere alla gente di salirci sopra e… The Vessel, eccolo qua. Non c’è (quasi) nient’altro da dire. Esso aveva fatto la sua comparsa, nella mente del suo architetto londinese di 44 anni Thomas Heatherwick, almeno dall’epoca in cui frequentava il Politecnico di Machester, quando ebbe modo di sperimentare, tra gli edifici del campus, la naturale funzione di una grande scalinata dismessa. Chiunque abbia vissuto intensamente un luogo ad alta percorrenza per lunghi periodi, incluse le tempistiche prolungate d’attesa tra una lezione e l’altra, sa perfettamente di cosa sto parlando: simili luoghi ad estensione ascendente, in cui la gente tene a sedersi e sostare, per conversare, studiare o fare merenda… “Compresi a quei tempi che un simile contesto poteva assumere una funzione primaria anche senza rispondere a comuni esigenze di utilizzo. Da un punto di passaggio, a un vero e proprio arredo sociale…”
Il che ci lascia intendere, in maniera tutt’altro che velata, ciò a cui ci troviamo di fronte: non il progettista che studia l’ergonomia di un luogo, rispondendo ad effettive esigenze poste di fronte a lui dalla moltitudine o i suoi interpreti e committenti. Bensì la realizzazione materiale di una visione in se stessa pura, finalizzata a modificare la visione stessa di cosa sia accettabile, funzionale e soprattutto, in che modo. Tanto che i lavori per l’inusitata struttura, iniziati nel settembre del 2016 con un annuncio del sindaco Di Blasio, nel contesto del vasto progetto di recupero dell’ex-area ferroviaria degli Hudson Yards, non hanno mancato di attirare una vasta sequela di proteste per lo più organizzate spontaneamente, da un popolo, quello dei newyorkesi, che ha fatto del pragmatismo uno stile di vita e il simbolo stesso della propria beneamata città. Ruotando sempre attorno, essenzialmente, alla stessa tesi: “Tra tutti i modi per spendere 150-200 milioni di dollari, possibile che l’1% non fosse in grado di trovarne uno meno… [prego completare la frase, rispettando il caratteristico idioma nordamericano]” Critiche a cui del resto, il Heatherwick non era affatto nuovo, sopratutto tra i confini di questa stessa megalopoli, dove da anni deve smistare le proteste preventive per il suo Pier 99, un avveniristico giardinetto galleggiante che dovrebbe essere costruito, prima o poi, presso i molti antistanti questa stessa concentrazione di astio, opulenza e conflitti sociali che prende il nome celebre di Manhattan… Ma ormai a poche settimane dall’inaugurazione, diamo adesso uno sguardo più approfondito a The Vessel, forse la sua creazione di maggior impatto visivo tra gli ultimi anni di lavoro.

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Una piramide modernista nella capitale del Venezuela

Incredibile, svettante, spropositata. Grandiosa è la tomba del faraone, poiché essa commemora le spoglie terrene del dio vivente, il cui spirito non svanisce come quello dei comuni esseri umani, ma si perpetra e rafforza, attraverso le generazioni. Eppure, che cosa è successo all’ultima di tali costruzioni, impossibile da completare prima che il regime finisse, e in assenza di un potere centrale, soprasseduta da più semplici priorità mondane? Ciò che è stato costruito, anche se soltanto a metà, non può essere de-costruito, ma soltanto demolito, un’operazione a sua volta complessa, costosa, talvolta sconveniente. Le vestigia restano mentre il futuro avanza, le corrobora e diventa l’oggi. Per poi dissolversi nel vento del passato. Monumenti di un ottimismo ormai perduto; luoghi come El Helicoide, l’Elica d’asfalto e cemento, il più riconoscibile edificio di Caracas in Venezuela, ciononostante tutt’oggi, per lo più sconosciuto dall’estero. Le ragioni sono molteplici, ma la prima resta quella più rilevante: brutti, bruttissimi ricordi. E un ancor più triste utilizzo nei nostri giorni. E dire che tutto era iniziato, nel 1956, con i propositi migliori: costruire un nuovo tipo di centro commerciale. Qualcosa che il mondo non aveva mai visto e che ben presto, sarebbe stato l’invidia dell’intero continente americano. Un luogo di sogni e opulenza, con albergo, sala conferenze, auditorium, luogo d’esposizione ed oltre 340 negozi, sormontato da una cupola geodetica ispirata alle opere dell’inventore Buckminster Fuller, mentre l’estetica delle mura era infusa di un gusto riconducibile a Frank Lloyd Wright. Grazie all’opera dell’architetto venezuelano Jorge Romero Gutiérrez, che in questo modo pensava di scrivere una nuova pagina della storia del movimento Modernista. E ci arrivò, oh! Così vicino. Se non che, al momento di ultimare l’ultima colata di cemento e passare all’allaccio dei servizi di acqua e luce, nel 1958, il faraone venne cacciato via. E con esso, chiunque desiderasse portare a compimento le opere che lui stesso aveva sognato.
Il supremo vertice del potere costituito nelle mani di una singola persona, come la sommità di una struttura a gradoni svettante verso il cielo, percorsa da un numero di automobili che non avrebbe mai avuto fine. È davvero questa la natura della società umana? Il popolo che sostiene i funzionari, e sopra di essi la polizia segreta. Che a sua volta, sorregge Costui. Nella fattispecie del momento storico preso in esame, Marcos Pérez Jiménez, generale dell’Esercito del Venezuela e Ministro della Difesa, in grado di salire sul Trono di Spade al termine di un colpo di stato sul finire della seconda guerra mondiale. E da allora, governare con pugno affilato, scacciando gli oppositori, finché nel ’58, dallo stesso popolo disagiato dei barrios, assistito soltanto in parte dai militari, iniziò l’ennesima Rivoluzione. Il problema di El Helicoide non era tanto il fatto di trarre le sue risorse dal potere costituito: si trattava anzi, tranne che per minime sovvenzioni, di un’impresa privata, finanziata in anticipo con l’acquisto degli spazi espositivi da parte dei futuri negozianti ed espositori. Ma è indubbio che ci furono circostanze sconvenienti. In primo luogo, lo stile comunicativo vagamente patriottico del materiale di marketing prodotto a sostegno del progetto, che imitava, e per certi versi si appoggiava, alla propaganda di regime. Al punto che, nell’immaginario comune, l’oggetto spropositato che aveva sostituito la familiare vista della Roca Tarpeya, rupe pietrosa nel centro di Caracas, rimaneva indissolubilmente associato al despota ormai spedito in esilio in Brasile. Lo stesso architetto Gutiérrez, nel frattempo, avrebbe iniziato a chiamare il progetto come affetto da una maldición, forse dovuto al luogo stesso della sua costruzione, il cui nome riprendeva direttamente quello della rupe Tarpea di Roma, da cui al tempo della Repubblica venivano gettati i condannati a morte che si rifiutavano di prestare testimonianza. Ma forse è sbagliato parlare di edificio costruito SOPRA la rupe. Poiché essa faceva in effetti parte della rupe STESSA.

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