Gli stambecchi che salgono sulla diga del Paradiso

C’era una volta un giovane re d’Italia, il cui nome era Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso, destinato a passare alla storia come il “galantuomo” che avrebbe continuato l’opera del suo insigne predecessore Carlo Alberto, firmatario della costituzione. Grazie anche a lui, sarebbe iniziato il Risorgimento Italiano. Ma prima di poter giungere a questo, il nuovo sovrano avrebbe dovuto superare un problema: il fatto di non assomigliare particolarmente a suo padre. Questa atipica condizione, poco più che un fastidio per una persona normale, è generalmente una tragedia all’interno delle casate reali. Poiché la gente mormora e concepisce, generalmente, l’ipotesi peggiore. Fu nel 1821 quindi che, successivamente a un grave incendio sopravvenuto nel palazzo dei Savoia, ad un rinomato macellaio di nome Tanaca sparì il figlioletto. Costui parve, inoltre, ricevere un’inaspettata e significativa somma di denaro. Si profilò quindi l’ipotesi di una sinistra sostituzione, operata a scopo di garantire la successione della dinastia nonostante il disastro. Mere dicerie. O quanto meglio, una scelta del tutto azzardata, visto che soltanto l’anno successivo sarebbe nato un ulteriore figlio maschio, Ferdinando il futuro duca di Toscana, che tra l’altro, si dimostrò essere fisicamente simile al fratello maggiore. I due crebbero, quindi, con educazione militaresca e furono molto vicini. E continuarono ad esserlo, tanto che lo stesso anno in cui Vittorio Emanuele succedette al trono nel 1849, ritroviamo i due fratelli che si recano a caccia assieme nel territorio delle valli valdostane. E fu qui che il re, cavalcando fino alla quota di 2828 metri, fece fuoco col suo fucile ed uccise, tra gli altri, una capra selvatica dalle lunghe corna ricurve. Il sacrificio di questa nobile bestia nel giro di un paio di generazioni, avrebbe salvato la sua intera specie.
Capra ibex, comunemente detta lo stambecco delle Alpi, era un tempo diffuso in Francia, come testimoniato dalle celebri pitture parietali preistoriche della grotta di Lascaux. Si trovava inoltre in Svizzera, Austria e Germania. Ma verso l’inizio del XIX secolo, ormai, esso rimaneva soltanto nel Nord Italia, a causa di lunghi secoli di caccia ed annientamento sistematico privo di un criterio. Nel momento stesso in cui il re, dunque, diede il suo personale contributo all’eccidio, successe qualcosa di molto particolare. Egli disse al fratello: “Questi magnifici animali… Dovrò continuare a cacciarli per gli anni a venire.” Così il fratello maggiore fece ritorno a Torino, e da lì emanò una nuova direttiva: che tutte le patenti di caccia emanate da suo padre a vantaggio dei valligiani fossero ricomprate dalla corona, e che nei territori della valle di Champdepraz, Fénis, Valgrisenche e Brissogne fosse istituita una riserva, la più vasta nella storia d’Italia, che avrebbe preso il nome di Gran Paradiso. All’interno della quale, la caccia allo stambecco fosse severamente proibita, dietro immediata punizione da parte di un corpo speciale di Reali Cacciatori Guardie (strana scelta dei termini…) Fu così che le maestose capre prosperarono come mai prima d’allora, al punto che nelle generazioni successive, fosse possibile mettere in atto diversi programmi di spostamento nei territori limitrofi, allo scopo d’introdurre popolazioni locali. Zone come la valle Antrona, situata al confine con la Svizzera, circa 20 Km ad ovest di Domodossola. Poi il tempo passò, e la gente continuò a costruire.
Dov’è scritto, in effetti, che preservare la natura non possa andare di pari passo con lo sviluppo del territorio? Fu così che nel 1925, proprio mentre a Milano continuava la brusca impennata del potenziale industriale italiano, fu deciso di costruire una serie di dighe per l’energia idroelettrica presso i torrenti e fiumiciattoli della regione, costituendo l’origine di alcuni significativi bacini artificiali. Tra cui quella che avrebbe presso il nome di Cingino. Ora ci sono diversi luoghi, nell’intero Piemonte e Val d’Aosta, in cui lo stambecco incontra questa specifica tipologia di strutture, che contengono ed instradano l’acqua all’interno di dinamo e generatori. Ma in nessun altro ciò sembra avvenire con la stessa casistica, che porta il quadrupede a scalarne le pareti scoscese con regolarità, in quella che sembra essere, a tutti gli effetti, un’espressione animale della nostra pratica del free climbing estremo. Come spesso avviene, tuttavia, le apparenze ingannano. E dietro una simile attività, c’è una ragione ben precisa…

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Il duello di un uomo con la goccia super-solida di vetro

“Mio re, dovete credermi! Non può essere distrutta. Questa goccia non può essere distrutta.” Era il principe Rupert del Reno a parlare, ovviamente, uno degli uomini militari più eclettici al servizio del re in esilio. Recentemente nominato Generale Supremo dell’armata, in quel marzo del 1645, dopo aver condotto la sua cavalleria in posizioni di vantaggio strategico determinante durante le battaglie Powick Bridge ed Edgehill, portando poi sollievo all’armata realista presso il castello di York. Cresciuto lontano dal seggio che sarebbe appartenuto di diritto a suo padre, esattamente come il sovrano che l’aveva accolto al suo servizio, il tedesco in armi pareva guidato verso le vittorie militari da un filo invisibile al servizio della Storia. O come affermavano alcuni, qualcosa di più malefico, legato al regno dell’occulto e della stregoneria sovrannaturale. Eppure tutto, fra i due uomini, faceva pensare a un’amicizia più che mai sincera, nata all’epoca della loro difficile esistenza giovanile, nell’Olanda sconvolta dalla cruenta guerra contro l’Impero Spagnolo. “Si certo, come no. Allora ascoltami bene, lo vedi quel martello che hanno usato stamattina per montare la mia tenda? Ora lo prenderò a due mani. E dopo aver tratto un grande respiro, colpirò con tutta la mia forza la parte bulbosa di questa presunta meraviglia della tecnica. Se si rompe, mi riprenderò tutti i titoli nobiliari di cui ti ho omaggiato.” Re Carlo II d’Inghilterra, nonostante le voci che venivano fatte girare per il regno dai suoi molti nemici, non era affatto un ultra-trent’enne obeso e claudicante, con la salute rovinata da anni di vita dissoluta ed abuso dell’alcol. Benché le ultime due osservazioni, nei fatti, fossero assolutamente vere. Ma la sua passione per la caccia e gli sport, unita ai rigori delle campagne belliche di cui aveva trovata costellata la sua vita, l’avevano reso perfettamente in grado di mantenersi in forma, al punto da poter abbattersi da solo gli alberi per accendere il fuoco durante una scampagnata. Non che avesse alcun bisogno di farlo. Rupert sorrise da sotto i suoi fantomatici mustacchi: “Se è questo che volete, accetto la sfida, ma a una sola condizione: sarò io a tenere la goccia, dalla parte della sua coda.” Qualcuno tra i presenti disseminati nel campo trasalì, altri si diedero vistose pacche sulla spalla. Il consenso generale sembrava essere che dovesse trattarsi di uno scherzo e si tendeva alla sdrammatizzazione. Il re impugno il maglio, mentre il principe indicava, verso il centro della radura, un piccolo ceppo appena sufficiente allo scopo: “Ah, ah, ah. Avete qualcosa a che vedere con questo?” Mormorò. Mentre tirava fuori la goccia e la metteva sopra il patibolo d’occasione, il fido cane Boy proveniente dalla Bohemia, un barbone da caccia che si diceva potesse sputare fuoco, prevedere il futuro e pietrificare i suoi nemici, si sedette d’un tratto e prese a fissare le operazioni. “Qui va bene, allora?” “Benissimo, mio signore.” Rupert tirò fuori una tenaglia da forgia, che a quanto pare teneva nella tasca posteriore del suo mantello. “Sei sicuro?” La cautela prima di tutto: molto evidentemente, doveva trattarsi di un metodo per risparmiare alle sue tenere mani un impatto accidentale vibrato dal re. “Non mi rimangio mai la parola data.” Il sovrano alzò le braccia sopra la testa, quindi le calò bruscamente in avanti. Con un urto formidabile, la goccia di vetro rimbalzò sul ceppo. Quando i due partecipanti all’esperimento riuscirono di nuovo ad individuarla, la realtà apparve fin troppo chiara: l’oggetto trasparente era ancora perfettamente integro in ogni sua parte. Sfolgorando nella luce del primo pomeriggio, veniva tenuto dritto dinnanzi allo sguardo del re, dal suo amico e principe tedesco, che lo rigirava da un lato all’altro, mettendone in evidenza le fantomatiche sfumature iridescenti. D’un tratto, il cane abbaiò. Il re si voltò. E la goccia, senza una ragione apparente, esplose!
Una scoperta accidentale. Un nuovo gioco per le corti d’Europa. Un indizio sulle vere e più profonde ragioni dell’esistenza? Nessuno sapeva esattamente, che cosa aveva (ri)scoperto l’abile militare durante una pausa delle sue campagne, oppure in gioventù, durante gli studi di filosofia naturale, o ancora durante una notte di plenilunio, sotto la luce delle stelle distanti, grazie al sussurro degli spiriti del Profondo. Qualcuno avrebbe in seguito affermato, parlando sottovoce, che non c’era in realtà alcunché di nuovo nella curiosa invenzione, trattandosi piuttosto di un passatempo dei vetrai tedeschi, che forse l’avevano appreso a loro volta da Nickel, lo spiritello malevolo delle miniere. Ma non era forse vero che l’Inghilterra era il centro del mondo, e che quello che in essa veniva portato per la prima volta, soltanto allora diventava importante? Così che da quel giorno, o un altro simile ahimé sconosciuto agli annali del tempo, la terribile “goccia” sarebbe diventata famosa come Prince Rupert’s Drop. Era un tempo di grandi Rivoluzioni quello, e nel contempo, enormi Rivelazioni. Persino, talvolta, inutili Ossessioni, in grado di trascendere la chiarezza del più puro destino. Destin, sapete chi è? No, non il concetto estemporaneo, ma la persona. Ovvero l’utente di YouTube a capo di quel format internazionale che è diventato il canale Smarter Everyday, orgoglioso padre di famiglia, personalità curiosa, individuo dai mille e più contatti nel mondo della scienza e tecnologia, che ormai da anni ci allieta con le sue improbabili sperimentazioni. Il quale, a partire dal dicembre scorso, sembra aver colto anche lui. Che come tutti gli americani, ha trovato una via specifica ed un calibro (anzi, diversi) per l’interpretazione dell’intera faccenda…

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La fortezza sul macigno nel cuore dello Sri Lanka

Possenti regni ed enormi imperi sono crollati per una vasta gamma di situazioni svantaggiose, come mutamenti sociali, invasioni barbariche, crisi del commercio e dell’economia. Nel corso di battaglie cruciali al culmine di un conflitto epocale, può essere bastato un imprevisto, come condizioni climatiche avverse o un errore dei generali, per modificare lunghi secoli o persino millenni di storia. Resta tuttavia profondamente impressionante, tornare col pensiero alla fulgida ascesa e l’altrettanto rapido crollo dell’era del re Kashyapa nel 495 d.C, per l’effetto disastroso del mero capriccio di un elefante. Ovvero il suo pachiderma da guerra, per essere più precisi. Del quale si narra, nel momento in cui egli scese in campo per sfidare il suo più acerrimo nemico, che deviò di lato all’improvviso, portandosi dietro il suo padrone e tentano almeno in apparenza di fuggire via. Il che bastò a gettare l’intero esercito nello sconforto. Ed a portare a molti dei suoi comandanti più fidati ad ordinare la ritirata, se non addirittura un repentino cambio di bandiera. Certo, è inutile specificarlo: se il nemico fosse stato uno straniero, o il portatore di uno spietato cambiamento dell’elite al potere, tutto questo non sarebbe mai successo. Ma il nemico di Kashyapa, in quel fatidico giorno, altri non era che il suo stesso fratellastro Moggallana, unico vero erede al trono dei Moriya, dal momento esatto in cui l’altro aveva assassinato crudelmente il loro padre, murandolo vivo in una stanza del palazzo reale ben 18 anni prima di quella data. Un gesto imperdonabile secondo qualsiasi cultura, che l’aveva probabilmente indotto, fin da allora, a trasferire la sua capitale dall’ancestrale seggio di Anuradhapura. In un luogo che veniva ritenuto, a torto a ragione, del tutto inespugnabile da chicchessia.
Il senso di colpa ed uno stato di paura costante possono indurre le persone a fare molte cose. E specialmente quando le risorse a disposizione sono virtualmente infinite, come nel caso del monarca di un predominio sul popolo concesso dagli Dei stessi, edificare delle vere e proprie meraviglie dei loro tempi. Come le piramidi in Egitto, ritenute l’unico strumento per mantenere l’importanza di un sovrano dopo la sua morte. O la ricerca, relativamente più immediata, di una vita lunga e serena, all’interno di un sontuoso palazzo completo di giardini (pensili) svariate concubine, opere d’arte, incalcolabili ricchezze ed una vista ininterrotta verso l’orizzonte, al fine di scrutare l’arrivo dell’ora temibile della vendetta. Fu così che Kashyapa, secondo alcune teorie portando a termine un progetto già stilato dal suo sfortunato padre e predecessore Dathusena, decise di far costruire il nuovo centro del suo regno in un luogo dotato di qualcosa che fosse letteralmente unico nell’intera terra di Tambapanni (antico nome dello Sri Lanka). Ciò che in termini moderni viene definito una monadnock, oppure un inselberg: l’enorme macigno, in questo caso alto più di 200 metri, che costituiva l’unico residuo tangibile di un precedente vulcano. Come la celebre Uluru (Ayer’s Rock) australiana, ma nel territorio di un popolo dotato delle risorse tecnologiche, e la propensione culturale, necessari a sfruttarne a pieno l’imponente presenza. E questa fu la nascita di Sigiriya, che sembrava dovesse garantire al suo proprietario una vita eterna. Finché l’elefante, che come sua natura non dimenticava mai nulla, non decise di porre fine ad un simile ingiustizia di fronte al popolo di questo mondo e il successivo.
Ma non prima che egli facesse, della sua preziosa gemma sopraelevata, uno dei luoghi più magnifici che il mondo avesse mai conosciuto fino ad allora. La fortezza di Sigiriya, il cui nome significa “Roccia del Leone” prendeva il nome da una colossale porta scolpita posta in fondo a 1200 ripidi scalini, raffigurante l’animale più feroce noto alle genti dello Sri Lanka. Da lì, quindi, si accedeva ad un camminamento sopraelevato lungo 140 metri, completamente ricoperto di affreschi raffiguranti più di 500 Apsaras, le leggendarie consorti degli dei del cielo. In un tratto successivo, dove un tempo continuavano i dipinti, l’alto parapetto lascia il posto ad una parete ricoperta di un marmo lucido, affinché il sovrano e i suoi sottoposti potessero osservare la loro immagine assieme a quella delle divinità. Ma soltanto ai più fidati tra gli uomini, o alle più desiderabili tra le donne, sarebbe stato permesso di penetrare ulteriormente nel sancta sanctorum del despota patricida…

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