Svelata l’origine dell’uccello più Inaccessibile al mondo

“Preso, finalmente!” Sembra quasi di udire ancora tra i ventosi promontori, situati a picco sul mare, dell’isola il cui nome contiene una dichiarazione programmatica d’intenti. Inaccessibile, anche nei fatti a causa della sua particolare posizione geografica, le condizioni meteorologiche e la natura delle coste non propriamente favorevoli all’approdo. A parlare, fu il biologo e naturalista Martin Stervander dell’Università di Lund in Svezia, rivolgendo l’esclamazione all’indirizzo dell’invisibile mist net alias “rete giapponese”, usata in tutto il mondo dai suoi colleghi per catturare esemplari di uccelli di vario tipo. Il che dovrebbe convenzionalmente indicare, il più delle volte, creature volanti. Ragione per cui l’apparato presenta delle apposite tasche situate a diverse altezze della sua estensione, in cui le creature in questione possano ricadere senza riportare alcun tipo di danno prima di essere esaminate con tutte le perizie del caso. Ma poiché la sua missione, in quel particolare caso, assumeva connotazioni assolutamente diverse dalle aspettative usuali, persino una simile impresa aveva richiesto uno sforzo maggiore del previsto. E ad agitarsi tra le maglie della trappola, coadiuvata da un registratore con il verso di un pigolante invasore del territorio, un coraggioso piccolo uccello, la cui funzione ecologica locale potrebbe essere paragonata a quella di un topo. Il che significa, in altri termini, che il rallo denominato Atlantisia rogersi (o semplicemente “dell’isola Inaccessibile”) non può assolutamente volare, passando piuttosto le sue giornate nascosto tra l’erba, andando a caccia d’insetti, vermi e altri artropodi, del tutto inermi dinnanzi ai suoi temibili 15 cm di altezza.
Creaturina marrone scuro che, per le implicazioni inerenti della sua stessa esistenza, ha costituito fin dall’epoca della sua prima descrizione scientifica un enigma assolutamente non trascurabile. Com’era effettivamente possibile, si chiesero nel 1922 i membri della spedizione Shackleton–Rowett, prima dei tempi moderni a passare da queste parti, che una creatura non volatile né tanto meno migratoria fosse riuscita a giungere fino a questa particolare isola dell’arcipelago Tristan da Cunha, nel mezzo del nulla a 2.432 Km di oceano da Città del Capo, e 3.486 dall’arcipelago delle Falklands a largo dell’America meridionale? La prima ipotesi è contenuta nel nome stesso Atlantisia, costituendo un chiaro riferimento all’esistenza di antichi paesi sprofondati per l’avanzare di una singola, devastante onda di marea. Dovete considerare che all’inizio del secolo, prima che l’ipotesi di di Alfred Wegener sulla deriva dei continenti fosse realmente accettata dalla comunità scientifica, si credeva che l’esistenza di specie animali simili agli angoli opposti del pianeta fosse essenzialmente dovuta alla presenza pregressa di antiche nazioni che avrebbero svolto la funzione di ponti di terra, come Lemuria, Mu e per l’appunto Atlantide, notoriamente citata da Platone nei dialoghi Timeo e Crizia nel IV secolo a.C. L’evidenza provava, tuttavia, che se davvero l’esistenza del rallo si era svolta in totale isolamento per un periodo misurabile in molti milioni di anni, la sua divergenza evolutiva e genetica da altre specie isolane dell’Atlantico avrebbe dovuto essere maggiore, inducendo gli scienziati a teorizzare un’ipotesi alternativa: gli antenati dell’A. rogertsi (appellativo derivante dal reverendo H. M. C. Rogers, che spedì il primo campione dell’uccello al Museo Naturale di Londra affinché potesse essere analizzato) si presentavano con un aspetto e capacità notevolmente diverse, essendo riusciti a giungere fin quaggiù sulla forza delle loro stesse ali a partire dalle terre emerse più vicine, ovvero quelle del Vecchio Continente. Ma se ci spostiamo in avanti di qualche generazione, fino all’epoca di Internet e dei cellulari con navigatore satellitare, possiamo facilmente renderci conto di come non tutti fossero convinti da quest’idea. Nella coerente formazione di un gruppo di opinionisti all’interno del quale figurava, per l’appunto, anche l’intraprendente svedese Stervander, al punto da ritrovarlo quaggiù nel settembre del 2011, armato di rete giapponese e gli altri attrezzi utilizzabili per catturare un uccello-topo. Ma non lasciatevi trarre in inganno: il suo studio è stato pubblicato soltanto all’inizio di questo novembre 2018 sulla rivista Molecular Phylogenetics and Evolution. Una cosa, per lo meno, è sicura: questo tipo di studi richiedono tempi piuttosto lunghi…

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Gli straordinari pesci fantasma del Mar dei Sargassi

Sospesa nel centro esatto dell’Oceano Atlantico, Madre Natura tratteggia figure appena visibili mediante pochi tratti del suo fine pennello. E ciò facendo, riesce a creare una giustapposizione del tipo più inaspettato: poiché non succede, generalmente, che entro il giorno di Ognissanti si posi già la neve su questa Terra. Halloween, tempo di mostri, vampiri e notte infestata, più di ogni altra cosa, dagli spiriti e i resti ectoplasmici di chi ha vissuto. Ed invece adesso non abita più… In questo mondo. Ma come potrete facilmente immaginare, gli spettri che permeano il mondo abissale appaiono fondamentalmente diversi da quelli che tendono ad aggirarsi nella brughiera, nascondendosi dietro o all’ombra dei vecchi alberi rimasti privi di fronde. Trasparenti, questo può dirsi ampiamente scontato, in ogni loro parte tranne il sottile tubo che costituisce l’apparato digerente, e la scatola cranica situata nell’estremità anteriore del loro corpo allungato lungo fino a 30 cm, piatto quanto il nastro di un’antica videocassetta. Usato, ancor più che allo scopo di proteggere un cervello, per sostenere una serie di lunghi e fragili denti acuminati, sulla cui funzione la scienza ha intrapreso un lungo dibattito privo di conclusioni; questo perché non serve saper masticare, per fagocitare, un poco alla volta, le candide particelle sospese tra l’onde. Neve marina, come accennato, ovvero la soluzione colloidale di residui biologici e vegetali, prodotti da creature più grandi, alla base dell’alimentazione pelagica di esseri ancor più semplici e primitivi, dei predatori di plankton, pirati di minuscoli gamberetti e larve di vario tipo. Del resto, esiste la solidarietà, persino tra i dannati.
Per la cronaca non si tratta ancora di “pesci” benché potreste essere perdonati nel definirli tali. Dopo tutto, cos’è un Leptocefalo, se non la forma giovanile di quegli esseri talvolta definiti serpenti del mare profondo! Tra le cui specie costituenti, ve ne sono alcune da tempo a rischio critico d’estinzione, esattamente come il panda gigante o la tigre di Amur. E potrebbe anche lasciare stupiti, l’idea che una creature simili, capaci di produrre a ogni stagione riproduttiva migliaia e migliaia di eredi possano trovarsi in pericolo, finché non si considera come il complesso svolgersi del loro ciclo vitale, assolutamente unico nel mondo degli animali, porti alla sopravvivenza in media di un solo esemplare su 500. Una volta presa quindi ad esempio la specie Anguilla anguilla, comunemente detta anguilla europea, ci si trova di fronte a un essere la cui vita raggiunge il culmine nell’entroterra del Vecchio Continente, all’interno di fiumi o laghi dove ha trascorso gran parte dell’età adulta. Percepito quindi il segnale biologico più importante della propria esistenza, il pesce nuota fino alla distante foce che soltanto una volta, oltre 40 o 50 anni prima, aveva visto quando era ancora un tenero ed argenteo virgulto. Lasciatosi alle spalle ogni terra emersa per sempre, l’animale comincia quindi a nuotare con tutta la forza concessa dalla sua forma sinuosa, per un’epica trasferta fino ai luoghi del suo accoppiamento finale: i verdeggianti pascoli di quella particolare zona settentrionale dell’Atlantico, situata tra le Azzorre e le Grandi Antille, dove deporranno le loro uova. Uova di spettri che non hanno scaglie, apparizioni stranamente mostruose dei mari…

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Il coraggio di un delfino inizia sempre dove finisce il mare

Mia madre diceva sempre “fischio lungo-sibilo-vibrato-fischio breve-lungo-breve” il che, tradotto nella lingua degli umani vorrebbe dire qualcosa di simile a “Dove vedi vongole, non devi andare. Ma se c’è la sabbia, preparati a salpare.” Alcuni membri del gruppo di caccia insistettero per anni nel dire che si trattava di un antico proverbio, tramandato da generazioni successive di matriarche fin da quando la stirpe scelse di venire ad abitare presso le isole-dei-campi e il mare d’erba spartina… Ma io, personalmente, non l’ho mai sentito dire ad altra anima pinnuta. Ah, già! Dimenticavo: non parlate la nostra lingua. I luoghi a cui mi riferivo sono quelli che voi chiamereste Kiavah e Seabrook Island, nella Carolina del Sud, non troppo distanti dalle vaste coste paludose della Lowcountry, dove l’acqua dolce incontra quella salata, ed i fondali sono bassi, ruvidi e frastagliati. Ma non… Alcuni tratti della costa, e proprio questa qui è la chiave. Curioso come il ritmo e il suono di determinati termini tenda a contenere parte dei significati sottintesi di un’idioma: io e i ragazzi conoscemmo ad esempio, una primavera di almeno due decadi e mezzo fa, un’antica balena che affermava di aver attraversato l’Atlantico. La quale, sentendoci esprimere foneticamente la parola umana strand, ci raccontò di come il suo significato nella lontana terra di “O-landa” fosse semplicemente “spiaggia” invece che, come da queste parti, “rischiare di finire bloccati spingendosi al di là delle onde” il che tra l’altro sembra estremamente dettagliato, per una razza dotata di gambe che trascorre la propria vita camminando tra una costa e l’altra, inoltrandosi soltanto qualche volta in mezzo al nostro regno di persone-degli-abissi, pardon, “delfini”. Chissà che un tempo, tribù specifiche delle nostre due specie avessero scoperto un qualche modo di comunicare tra di loro. Possibile, magnifico…. Dimenticato. Perché dopo tutto tra noi e voi, abbiamo sempre dovuto combattere con l’inarrestabile progresso del provincialismo culturale. Quella tendenza naturale a dimenticare, per cui particolari usanze o metodologie elaborate attraverso innumerevoli generazioni di sacrifici, finiscono per  restare un esclusivo appannaggio di un particolare contesto geografico, mancando di migliorare la vita d’infiniti esseri, che potrebbero invece riceverne un immenso beneficio. Di certo, almeno questo posso ben dirlo; l’antica arte del “fischio lungo-sibilo[…]” richiede condizioni altamente specifiche per essere portata fino alle sue vette più elevate. E per quanto ne sappiamo noi del gruppo di caccia, esse potrebbero anche sussistere in questo particolare luogo. Di un mondo totalmente ricoperto di vongole affilate, fin dove l’occhio può raggiungere la terra dell’eterna secchezza esistenziale.
“Eccoli, guardate, eccoli, guardate lì!” Disse il capitano della piccola imbarcazione turistica Bright’s Bottle, mentre si affrettava a spegnere il motore, congratulandosi silenziosamente con se stesso per essere riuscito, ancora una volta, ad offrire lo spettacolo che solamente il suo prestigioso estabilishment riusciva a garantire “quattro volte su cinque” nell’intera contea di Chesterfield e dintorni. Certo, non era poi così difficile: bastava imparare a seguire GLI UCCELLI. Un silenzio quasi religioso calò sulla decina di persone abbondante, quasi tutte in calzoni corti e maglietta nonostante le temperature stessero già iniziando ad abbassarsi, cellulari e telecamere alla mano. In fondo, a ciascuno di loro era stata spiegata la multa prevista per chiunque disturbasse il naturale comportamento dei delfini, impedendogli di procacciarsi il cibo con la loro tecnica più unica che rara: fino a 11.000 dollari, il massimo previsto da un’infrazione del codice civile americano. Un piccolo rischio da correre, per poter assistere a uno spettacolo di questa caratura. Il capitano si fece scudo dal sole con la mano, per tentare la conferma di quanto, in cuor suo, già pensava di sapere; ed infatti, a capo del gruppo di caccia, c’era il vecchio Stephenson, un’esemplare riconoscibile dalla ragnatela di cicatrici sul suo dorso grigio, forse risalenti a quando la tecnica dell’auto-spiaggiamento non era stata ancora perfezionata dai più celebri cetacei delle coste statunitensi meridionali. Perché in effetti, contrariamente a quanto avviene con la maggior parte degli altri comportamenti animali, non stiamo affatto parlando di una tecnica iscritta nel loro codice genetico, bensì di un’usanza, una vera e propria tradizione, insegnata dai membri più anziani del branco ai loro futuri successori, che avranno il compito di far lo stesso coi figli dei loro figli e così via a seguire. D’un tratto, l’assoluto silenzio venne interrotto brevemente dal suono di una bambina che trasaliva “Sssh!” fece subito la madre. Beh, difficile biasimarla: lo strand feeding, come viene chiamato dagli etologi, rappresenta una scena drammatica e pericolosa. È facile pensare, soltanto per un attimo fugace, che i nostri lontani parenti dell’oceano stiano per restare bloccati a una distanza eccessiva dall’acqua, rischiando di soffrire lesioni interne ed esterne. Quando pesi una media di 500-600 Kg, fare a meno del principio di galleggiamento, restando in balìa della sola attrazione gravitazionale non è proprio un passo privo di pericoli. Non che a loro, all’ora della caccia, sembrasse importargli alcunché.

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La lunga guerra del bombardiere britannico triangolare

Era esattamente l’ultimo giorno di aprile del 1982, quando l’isola vulcanica di Ascensione, nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico, si svegliò al rombo di una vera e propria carovana aerea, la più impressionante fila di aerei che sarebbe mai decollata dal suo piccolo aeroporto militare, costruito dagli americani come punto d’appoggio per la traversata e poi lasciato in eredità agli inglesi, possessori indiscussi di questo, ed innumerevoli altri territori remoti. Luoghi come l’arcipelago delle isole Falklands a largo dell’Argentina, almeno finché il generale Leopoldo Gualtieri,  l’allora presidente di quel paese, non aveva deciso all’inizio del mese di “invaderle” e dichiararle nuovamente parte della sua potestà, in una mossa decisamente poco diplomatica destinata ad essere definita da molti dei suoi successori, per usare un eufemismo, un potenziale passo falso. Così che la risposta delle forze armate di Sua Maestà, assai prevedibilmente, non tardò a farsi sentire, dando origine ad uno dei conflitti più squilibrati, risolutivi e chiari dell’intera storia moderna. Una guerra costata “soltanto” 907 vittime, la cui rapida risoluzione, secondo gli storici nazionali, fu anche il merito di una singola ed ambiziosa follia, una di quelle strane iniziative tattiche, tanto caratteristiche del paese di Robin Hood e King Arthur, che avrebbero in seguito ispirato scene come la distruzione della Morte Nera nel fenomeno su pellicola di Star Wars. Stiamo parlando, in altri termini, del bombardamento più a lungo raggio della storia fino a quel momento, condotto per di più da una coppia di velivoli che all’epoca avevano quasi trent’anni, essendo stati concepiti all’epoca per una specifica missione e soltanto quella: decollare senza preavviso, superare l’antiaerea sovietica volando ad alta quota e sganciare una o più bombe atomiche sulle principale città del blocco orientale. Il che avrebbe richiesto, per dare spazio alla matematica, un’autonomia inferiore ai 4.000 Km, contro i 12.600 che distava l’isola di Ascensione dall’aeroporto di Stanley nella zona militare di Buenos Aires, unico luogo nel paese sudamericano da cui potessero decollare i moderni intercettori Dassault Mirage III. A meno che a qualcuno, mediante l’impiego di bombe rigorosamente convenzionali, non venisse in mente di sorvolare quell’obiettivo, e senza alcun margine d’errore praticare un gran buco proprio al centro della pista principale. Ma chi avesse alzato lo sguardo al cielo, quel giorno, sarebbe stato preso in contropiede: in mezzo a una flotta composta per lo più da 11 aerocisterne Handley Page Victor, dalla riconoscibile prua tondeggiante, figuravano due strani velivoli dalla forma inusitata, il cui rombo in fase di decollo riusciva ad emergere persino da un tale frastuono. Raggiunta la fine della pista, quindi, i poderosi motori salirono fino al massimo dei loro giri. Chi avesse ascoltato senza le conoscenze di contesto un simile grido beluino, probabilmente, avrebbe pensato che la vecchia montagna si era risvegliata, preparandosi alla colata di lava destinata a fare il suo ingresso dalla porta principale di casa.
Una caratteristica ricorrente dei macchinari bellici inglesi, volendo trovare un filo conduttore attraverso le epoche, è la loro tendenza ad assumere un aspetto altamente riconoscibile e distintivo, persino per le mansioni di tipo ordinario. A partire dai carri armati delle origini, dalla caratteristica forma romboidale, evolutisi all’epoca della seconda guerra mondiale nel Churchill, dal design inconfondibile piatto, largo e rettangolare. Per non parlare, poi, della linea elegante degli splendidi Supermarine Spitfire, aerei al tempo stesso leggiadri e “cattivi”, le cui ali dal profilo a petalo bastano ancora oggi ad emozionare gli appassionati di aeromodellismo e storia dell’aviazione. C’è stato tuttavia un caso, una singola, rinomata contingenza, in cui l’aspetto esteriore di un velivolo sembrò esulare completamente dalle aspettative di contesto, sfociando in un micidiale bombardiere dell’epoca della guerra fredda, non meno improbabile, dal punto di vista della sua forma e potenzialità, dell’aereo di Wonder Woman o degli X-Men. Ben pochi in effetti, posando per la prima volta lo sguardo sulle forme geometriche di una simile meraviglia dei cieli, tendono a collocarlo realisticamente al principio degli anni ’50, epoca del suo primo volo, associandone istintivamente l’aspetto al B-2 (l’ala volante) o gli altri aerei ben più recenti della divisione progetti segreti Skunk Works della Lockheed Martin statunitense. Ma il Vulcan, come chiaramente esemplificato dal suo nome completo, è in realtà frutto dell’ingegno puramente britannico della Avro, una fra le prime compagnie al mondo operative nella storia dell’aviazione. Mentre ogni sua più insolita caratteristica, lungi dall’essere il frutto di una semplice ricerca di sterile differenziazione, è una conclusione a cui si giunse per gradi, guidati dalla lanterna della pura e semplice necessità. Ciò di cui stiamo parlando, in effetti, fu il frutto di un lungo periodo di studio e progettazione…

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