In corsa sulla spiaggia da cui nacque l’Auto del Domani

Daytona Beach

Gareggiavano nel 1952. Al volante di quei bolidi pesantemente modificati e tutt’altro che maneggevoli, sulle piste più improbabili del mondo. Erano folli, nonché fieri di esserlo, nonostante il modo in cui venivano guardati. Che l’automobilismo americano, come sport e modo d’interpretare il rombo dei motori, fosse nato ad Indianapolis, questo è largamente noto. Il vecchio campo dei mattoni, come ancora lo chiamavano da quando nel 1909 era stato portato a coronamento il cantiere, tagliando il nastro di quello che sarebbe rimasto per molti anni il principale circuito ovale delle monoposto, al punto che oggi negli Stati Uniti ancora chiamano quel tipo di gare “Formula Indy” in onore della tappa principale di ogni campionato: due rettilinei lunghi da un chilometro, quattro curve da 400 metri, intervallate da sezioni diritte di un altro paio di 200 metri, le cosiddette short chutes. E il popolo che si entusiasma, sugli spalti gremiti in grado di ospitare centinaia di migliaia di persone. Si girava non meno di 200 volte quel complesso, fino al raggiungimento delle celebri 500 miglia (circa 800 Km). Per un mondo patinato e splendido, fatto di cinegiornali appassionati, locandine dipinte a mano e in qualche modo affine agli albori della nostra Formula 1, che già nel 1950, sull’onda dei successi americani, volle inserire in calendario la prestigiosa gara americana, che tuttavia non venne disputata in quel contesto fino all’anno successivo.
Ma la controcultura, come sa bene chi conosce la storia del paese d’Oltreoceano, è un passaggio irrinunciabile di qualsivoglia mondo in grado di colpire il grande pubblico, lasciando un segno indelebile che è il seme di rinascite davvero inaspettate. Così avvenne, negli anni del proibizionismo dal 1920 al ’33, che i contrabbandieri di bevande alcoliche della regione degli Appalachi (stati del Nord-Est) prendessero a scappare in corsa dalla polizia, con auto di serie ma piccole e leggere, a cui erano stati apportati dei significativi miglioramenti negli ambiti della velocità e capacità di carico. Al termine di quel lungo e travagliato periodo, dicono le cronache, se ne andarono tutti giù al Sud, dove parcheggiarono le auto, ma soltanto per un breve tempo. Pare infatti in quei luoghi più di qualsiasi altro, la gente amasse il whisky illegale, la cosiddetta moonshine, dal costo e contenuto alcolico ritenuti maggiormente vantaggiosi. Così, tra una corsa e l’altra, questi banditi intavolavano un gara. Perché? Per cementare lo spirito di corpo, probabilmente, per mantenersi alleati nei metodi utili a combattere The Man, l’amato-odiato stato delle cose. Il fatto forse maggiormente significativo a margine del campionato oggi seguitissimo della formula NASCAR è proprio questo orgoglio nel farlo risalire a un mondo di assoluta illegalità, quasi che le gesta degli illeciti abbeveratòri, a distanza di tanto tempo, ancora possano incarnare quello spirito di ribellione che la gente ha perso, ma vorrebbe prima o poi conoscere di nuovo. È uno strano sincretismo di passioni. Che ebbe inizio, nella forma attuale, proprio sulle sabbie di quel luogo nella calda e accogliente Florida, presso una spiaggia che poteva farsi asfalto quasi pari a quello di Indianapolis, nella mente dei piloti e gli organizzatori.
29 marzo 1927: il maggiore Henry Segrave, a bordo della sua Sunbeam da 1000 cavalli, registra in questo luogo il nuovo record di velocità su ruote. “Appena” 327 Km/h, sufficienti a dimostrare che anche l’America, come il Belgio e la Francia, disponeva di un luogo ideale a correre in velocità, senza dover pagare le costose tariffe di noleggio di una pista vera. Un paio di anni dopo, con il sopraggiungere delle prime avvisaglie della grande depressione, proprio qui si trasferisce il meccanico William France, un visionario proveniente dalla capitale di Washington D.C. Che conosceva bene il mondo delle corse e dei record, ma soprattutto aveva in mente un sogno, il passo e il segno di un’idea che avrebbe modificato in modo significativo la storia dei motori degli Stati Uniti: fu infatti proprio lui, il primo a pensare che la gente si sarebbe appassionata ad una gara di stock cars, ovvero le auto, per così dire (wink; wink) “di serie”.

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Nuove scene di follia motociclistica dall’Isola di Man

Man TT Lockk9

Entusiasmo e sregolatezza, apprezzamento per il genio smisurato ed il coraggio dei piloti: tutto questo, molto altro, scaturisce con orologistica e immancabile veemenza dall’annuale gara del Tourist Trophy; di concerto è innegabile che alla fine, con la gara dei Senior che tradizionalmente chiude l’evento, molti tirino un sospiro di sollievo. Perché di nuovo si è conclusa, in modo straordinariamente roboante, la singola competizione motoristica più rischiosa del presente, passato e forse anche futuro prossimo, liberando dal consueto e funesto senso d’aspettativa le strade di quel verde luogo sito in mezzo al Mar d’Irlanda. E guarda, nonostante tutto…Poteva andare peggio!  Si tratta, come in molte altre cose, di una questione di valori contrapposti: da una parte le 141 morti e il numero incalcolabile di feriti anche piuttosto gravi, inseriti nell’albo nero della tradizionale gara fin dall’epoca della sua istituzione, nell’ormai remoto 1907, dall’altro il senso puro ed assoluto di uno Sport che si trasforma in stile e senso della vita, ben oltre il concetto di semplice competizione. Se anche fosse un singolo praticante, come avviene per i paracadutisti o gli spericolati delle discipline in tuta alare, a compiere un moderno giro della Snaefell Mountain Course (60,720 Km) a velocità che superano facilmente i 330 Km/h, già si potrebbe intavolare un lungo e pregno discorso sull’impegno transumano suggerito da una tale impresa, il modo in cui qualsiasi cosa, per quanto impossibile, rimanga raggiungibile alla mente di chi ha voglia di precorrere il progresso. Ma qui stiamo parlando, nei limpidi e fenomenali fatti, di una vera e propria sotto-cultura, che si perpetra da oltre un secolo nell’auto abnegazione e nella voglia di rischiare se stessi, la propria incolumità, ogni altra cosa, in nome di una verità che il popolo non iniziato assai difficilmente può capire. I piloti del TT, allo sventolare della prima bandiera di gara, girando la fatale manopola, non sono più dei semplici sportivi, nel senso maggiormente tipico del termine. Ma parti inscindibili di un processo che trasporta, per quei giorni rumorosi, una parte del Valhalla sulla Terra, evocato dai centauri per definizio. Che quando scompare tra le nebbie, immmancabilmente, ne trascina via qualcuno assieme a se.
Questo video non è che l’ennesimo ottimo tributo, tra i molti reperibili su YouTube, a questo concatenarsi d’improbabili eventi, realizzato dall’utente di quei luoghi Lockk9, in occasione dell’edizione 2015 della serie di gare, conclusasi giusto lo scorso 12 giugno (l’altro ieri). Un’edizione, questa, con almeno due gravi imprevisti: il tragico decesso del motociclista e meccanico francese Franck Petricola, che ha colpito un muro presso l’incrocio di Sulby il 3 giugno, durante la sessione di qualifiche e l’incidente nell’ultima gara, fortunatamente dalle conseguenze non letali, subito dall’irlandese Jamie Hamilton, che ha colpito un albero lungo uno dei rettilinei più veloci della pista stradale “disintegrando letteralmente” nelle parole di un testimone “la propria moto in una palla di fuoco.” Il fatto che una simile contingenza, costata al pilota un ricovero d’urgenza tramite eliambulanza, non abbia rallentato eccessivamente l’intervento dei commissari di gara, con conseguente riavvio della competizione, fa molto per dimostrare l’abitudine alla pericolosità di tutte le parti coinvolte in una tale cerimonia dei motori, dedita al pericolo e al più puro senso dell’estremo. Che ha permesso, quest’anno, di illuminare nuovamente l’ineccepibile abilità del britannico Ian Hutchinson detto “Hutchy”, pilota ufficiale Yamaha che nel 2010 aveva già trionfato in cinque delle gare del TT dell’Isola (ovvero tutte, tranne quella in coppia dei sidecar) soltanto per subire, più tardi nel corso della stessa stagione, un grave incidente presso il circuito di Silverstone. Sfortuna che richiese ben 30 interventi chirurgici ad una gamba. Calvario brillantemente superato, sia nel fisico che nella mente, alla pura e semplice evidenza dei fatti. Tanto che lo ritroviamo oggi, nell’anno del suo ritorno, trionfare nuovamente in tre delle più prestigiose nonché sconvolgenti gare a Man, le due Monster Energy Supersport TT e la RL360° Superstock TT, seguito in quest’ultima da un altro grande favorito, quel Michael Dunlop che è anche il nipote di William Joseph “Joey”, ritenuto il singolo personaggio più importante nella storia motoristica dell’isola ed uno dei piloti più grandi di tutti i tempi.

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