L’antenna che riceveva solo ghiande

Acorn Woodpecker

Gli abitanti di Bear Creek, piccolo comune fra i verdeggianti boschi dell’Alabama, avevano un problema. Da qualche tempo, per motivazioni niente affatto chiare, non gli riusciva di navigare su Internet col proprio cellulare. Niente più Google-are i risultati della partita di Football, hockey, etc…Del più recente fine settimana. Difficoltà notevoli nel caricare le foto di amici dell scuola, sul gruppo Facebook e sui vari blog nominativi del paese. La situazione, ecco, si faceva grave. Nei luoghi rurali, raggiunti da un segnale debole, si finisce per trovarsi legati al ripetitore del proprio gestore telefonico con un sottile filo serpeggiante. Ogni albero, palazzo e orso di passaggio costituiscono un ostacolo da superare, aggirare in qualche modo, al fine di raggiungere gli amati spazi virtuali. Porte o finestre della casa diventano le prese d’aria di un respiro sempre più affannoso, in cerca di quell’ossigeno ristoratore, l’enciclopedica via d’accesso per l’inter-mente digitale. E non c’è niente che sia primario a questo mondo, tranne il desiderio. Così, dovunque spuntano le antenne, empi obelischi acciaiosi, ricolmi d’escrescenze fungoidali e gongolanti, estetica devastazione dei paesaggi naturali. Qualcuno, con ottime intenzioni, cerca di mimetizzarle. Le tinge di verde, costruendole affusolate, come fossero cipressi. Non che questo basti ad ingannare l’occhio umano, ricco di discernimento. Chi mai scambierebbe una di quelle.. “Cose” per un vero albero? Soltanto colui che, ingenuamente, l’avrebbe fatto in ogni caso. Proprio perché, dotato dell’intelligenza del bisogno, guarda il contesto e non le forme. Lo sciocco. Il variopinto, l’operoso e caustico picchio delle ghiande americano (Melanerpes formicivorus) ispiratore, col suo insistente verso, del cartoonoso Picchiarello (alias Woody Woodpecker).
Questa è la storia di un tecnico antennista, con il mandato gestionale di una specifica antenna a microonde, che si recò sul posto, richiamato al suo dovere dalle numerose lamentele ricevute. Che salì sopra la sua scala, trovandosi davanti al favoleggiato attrezzo telematico, stranamente inefficace. E lo aprì!

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La frenesia dell’uccello sghignazzante

Kookaburra

Difficile descrivere il verso del chiassoso kookaburra. Come un ululato, una risata, mille scimmie impazzite o il delirio derisorio di una iena innamorata sul finire dell’estate. Hollywood, nonostante le sue molte prerogative creative e immaginifiche, tende a riciclare di continuo certi elementi. Tutti avranno sentito, almeno una volta, il celebre grido di Wilhelm, l’ululato in dissolvenza prodotto da un personaggio colpito da qualcosa, che cade rovinosamente dentro l’abisso senza fondo. E se tale gemito è da sempre un elemento fondamentale dei film western o d’azione, puntualmente riemesso dai cattivi sconfitti in prossimità del pirotecnico finale, ecco qui una prestigiosa controparte, altrettanto importante eppure decisamente meno nota. Lo produce naturalmente questo uccello, altamente stimato in funzione della straordinaria dote. Sarebbe il classico suono di sottofondo per ogni scena ambientata nella giungla, irrinunciabile in ciascun capitolo dell’eterna saga di Tarzan o negli exploit dei suoi molti imitatori. Sotto l’ombra degli alti alberi pluviali, grondanti d’umidità e di vita, risuona in questo modo: (vedi video, registrato presso lo zoo di San Diego). Se si potesse prendere tutta l’Amazzonia, concentrarla in un barattolo come quelli della serie cow-in-a-can, poi aprirlo e guardarci dentro, spunterebbe fuori uno di questi kookaburra. Ci starebbe un po’ strettino, poco ma sicuro. Una volta uscito, meglio correre ai ripari.

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Un anfitrione per 100 colibrì

Colibri

Un singolo cucchiaino di zucchero bianco granulato ogni quattro bicchieri d’acqua. Da servire in grandi quantità, possibilmente. Si prende la dolce mistura, la si bolle per pastorizzarla, poi si lascia raffreddare e si aggiunge del colorante alimentare rosso, prima di versarla nell’apposito recipiente. Qualcuno usa una semplice caraffa, altri dispongono di contenitori più specializzati, costruiti per uno scopo ben preciso: appendere quanto si è realizzato a una grondaia, presso l’accogliente ombra di casa propria, in attesa che la natura faccia il suo corso. Semplicemente stupendo. Fatelo anche voi e verranno dozzine di mosche, vespe o formiche, più l’occasionale passero solitario. Potreste attirare persino un peloso pipistrello, se siete davvero fortunati. Poi riprovateci nel sud degli Stati Uniti ed avrete un risultato di tutt’altra caratura. Prima però, assicuratevi di aver messo in radio la Cavalcata delle Valchirie e di avvicinarvi bisbigliando “Adoro il profumo del nettare di prima mattina!” Perché sta per iniziare l’ultimo capitolo di una vera e propria guerra, accompagnata dal tintinnare di mille cinguettii. Il colibrì possiede la suprema specializzazione di un elicottero, riproposta a misura d’animale. Può volare all’indietro, ha il metabolismo iperveloce di un toporagno ma non lo svantaggio della sua breve vita, un becco pensato per succhiare e piume lucenti ricoperte di cellule prismatiche, in grado di riflettere la luce in un arcobaleno di colori armonici e gaudenti. È ferocemente territoriale e scaccia i suoi simili da ogni fonte di buon cibo, almeno che non ve ne sia una spettacolare, incalcolabile abbondanza. Per questo si mettono le mangiatoie, come fatto in questo campeggio vicino Creede, nel Colorado. Nel video, realizzato da Jason Garren, youtuber, e Aldertree, cameraman cum redditor, si osserva la rara contingenza di un paio d’uomini che si ritrovino circondati da un turbine di colibrì affamati. Tutti d’accordo, per una volta, nel perseguire un singolo obiettivo. Deliziosamente succulento.

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Pappagallo che fischietta la sigla di Totoro

Poko

Poko ha visto, Poko ha sentito e per finire si è pure innamorato. Stimolato dalla simpatia fiabesca di un coniglio gigante, ha scelto quindi di mettere in musica tutto il suo profondo entusiasmo. E il sentimento di quel sensibile pappagallo, candida calopsitta, coinvolge e trascina gli animi di chi lo ascolta, mentre, appoggiato sulla pianola del suo padrone, lui riproduce alla perfezione il tema principale del film Tonari no Totoro, uno dei cartoni animati giapponesi più famosi al mondo. Tutta l’armonica composizione, l’ironia narrativa, lo stile delicato di un simile capolavoro sono stati ottimizzati per un pubblico umano, eppure in quel film c’era una chiarezza d’intenti e un messaggio di fondo che potrebbero dirsi, appropriatamente, eterei, fluttuanti; lo spirito della foresta non passava certo il suo tempo all’interno di un albero di canfora. Era molto più che un roditore orecchiuto col pancione da matrioska, immagine ulteriormente rafforzata dalle due versioni in scala che sempre lo accompagnavano, costituendo una sorta di bizzarra trinità pelosa. Ogni notte, da quella svettante casa vegetale si alzava in volo, grazie all’ombrello magico, in cerca di boccioli da far dischiudere e nodi gordiani da sciogliere, seguìto talvolta anche dal suo fedele gatto gigante, un mezzo-autobus assolutamente non convenzionale. Molti degli esseri pennuti di quei luoghi, sentito il suo ruggito, presa coscienza dell’aspetto del suo entourage, devono essere fuggiti in tali spaventevoli occasioni. E il pappagallo Poko, il pappagallo Poko? Totoro affonda le sue radici nel folklore tradizionale del popolo giapponese. I kami, le antiche divinità Shintō degli alberi, dei fiumi e delle grandi rocce non erano certo entità puramente buone; in perfetta coerenza con le credenze animiste di ogni altro paese del mondo, secondo il ricchissimo leggendario che li riguarda erano anzi caratterizzati da un grado variabile di malignità e avversione ai loro “vicini”, fossero questi persone, uccelli o altri animali. Imparando a conoscerli, tributandogli un giusto grado di rispetto, dagli occasionali incontri con tali esseri era possibile trarre un qualche tipo di giovamento. Vedendo il film 10, 100 volte, ascoltando pazientemente il suo padrone impegnato di continuo sugli sfuggenti tasti del pianoforte, guadagnandosi una conoscenza musicale davvero approfondita di quel particolare, indimenticabile brano, Poko ha di gran lunga acquisito i requisiti minimi per entrare nelle volubili grazie del coniglione. Lui, crestato volatile senza un pensiero al mondo, non chiamerà magari il nome del kami per farsi aiutare nel ritrovamento di una sorellina smarrita, imitando la protagonista umana della storia originale. Forse gli basterà il piacere di poter sentire l’adorabile melodia, ancora e ancora. Facendosi eco da solo (quasi) in eterno.

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