L’allegra casa del patriottismo russo tra Ekaterinburg e Nizhny Tagil

Immagino non vi siate mai chiesti quale potesse mai essere, secondo le valutazioni ufficiali, la residenza privata più bella di tutta la Russia. Un tipo di quesito particolarmente improbabile, qualora si scelga di prendere in considerazione l’unico paese che misura i suoi confini in letterali milioni di miglia, con una popolazione dislocata in una quantità imprecisata di minuscoli villaggi, disseminati tra le più remote propaggini della Siberia Orientale e le immediate vicinanze dell’Est Europa. Non dovrebbe perciò sorprendervi in modo particolare che un tale titolo sia stato attribuito da soggetti a me ignoti nel 2003 proprio ad una delle innumerevoli capanne, costruite originariamente in legno e secondo la tradizione dei falegnami dell’oblast di Kirov, situate del piccolo insediamento di Kunara, dislocato lungo l’antico sentiero di Starotagil. Originariamente dalla figura del cercatore d’oro Evdokim, di cui abbiamo soltanto un ritratto, e poi abitata da suo figlio Ivan Evdokimovich, sovrintendente della fattoria comune del villaggio. Ma sarebbe stato soltanto l’erede di quest’ultimo, il fabbro Sergei Ivanovich Kirillov, a trasformare le avite mura in qualche cosa che fosse realmente degno di comparire sugli elenchi nazionali, riuscendo nell’ultimo ventennio addirittura, grazie al cinema ed Internet, a diventare famosa in tutto il mondo. Si tratta di arte, essenzialmente, ma non quella dei creativi d’accademia, addestrati dal sapere dei predecessori ad esprimere una visione fatta in egual parte di abilità tecnica e sentimenti venuti dal profondo. Bensì il regalo al mondo di un uomo che faceva altro nella vita, pur possedendo il fuoco segreto di un’ispirazione soltanto sua, tale da condurre a un’espressione duratura di rara intensità e bellezza. La casa di Kirillov dunque, o casa del fabbro come viene talvolta definita, fu destinata a diventare una celebre destinazione turistica entro l’epoca degli anni ’50, quando foto della sua facciata più unica che rara iniziarono a circolare sulle riviste e pubblicazioni locali. É ancora difficile negare, d’altra parte, che alcunché di simile sia mai comparso negli elenchi residenziali del più grande paese al mondo.
Riccamente ornata secondo i crismi di uno stile che potremmo definire la versione naïf del barocco di Naryshkin, la casa si presenta dunque come un letterale tripudio di colori, tra cui dominano il rosso, blu cobalto e bianco, probabilmente mirante a riprendere il ruolo dell’arenaria candida impiegata in tanti edifici di culto fatti costruire a partire dal XVII secolo dai boiardi moscoviti. Così come l’alto comignolo, pieno di bandiere e figurine di metallo, sembrerebbe occupare il ruolo che era stato della torre campanaria nelle chiese definite per l’appunto “sovrapposte”, con la stessa funzione programmatica d’incoronare il resto dell’edificio. Mentre soltanto ad un’analisi lievemente più approfondita, si scoprirà come ogni singola parte di queste notevoli quattro mura sia stata laboriosamente ricoperta di ferro battuto e forgiato, nella foggia di stemmi, slogan, ritratti d’importanti figure politiche ed altri validi segni di riconoscimento. Tra il 1954 e il 1967, quando l’edificio andò incontro alla sua prima e più significativa trasformazione, a seguito della scoperta da parte del suo possessore di una voce creativa che quasi gridava, per il desiderio di essere finalmente ascoltata da tutti gli altri…

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Il castello sul fiume Bega e la torre del rammarico imperituro

Duecento anni sono un periodo piuttosto lungo, soprattutto da passare all’interno di una singolare rovina nella periferia di Ečka. L’ombra della stari vodotoranj, vecchia torre dell’acqua, si allungava come quella di una meridiana, ormai, mentre l’ora del vespro si faceva progressivamente più vicina e la musica del pensiero iniziava a risuonare nell’aria tersa del Banato, antico territorio a cavallo di Serbia, Romania e Ungheria. Il fantasma del primogenito del conte Lazar Lukač volse lo sguardo al di là delle sottili merlature del suo cadente “castello”, verso le terre fertili un tempo appartenute al villaggio pannonico di Lukino Selo. Un insediamento formatosi in maniera analoga, e nello stesso luogo in cui un tempo furono piantate le tende dell’orda di Attila il Flagello di Dio, per preciso volere del suo stesso padre, trasferitosi nella regione dal suo feudo in Transilvania, verso la fine dell’anno del Signore 1785, con un copioso investimento presso la corte dell’Imperatore Viennese. Ma di Egli non v’era più alcuna traccia, in questo luogo, come appariva chiaro per l’effetto della sua maledizione. Vita eterna, e irrimediabile espiazione del peccato più terribile su questa Terra: quello di aver ucciso, in uno scatto d’ira, il suo stesso fratello.
Egli non riusciva, dopo tutto questo tempo, a ricordare cosa esattamente avesse suonato il giovane genio, un ragazzo di appena 9 anni destinato a diventare, entro il giro di mezza generazione, “il” Franz Liszt, un musicista giudicato degno di rivaleggiare con l’immortale Amadeus. Tempi lieti di un’epoca di pace, quando persino gli esponenti della potente famiglia nobiliare degli Esterházy venivano a corte da suo padre assieme al gotha di tutta la Serbia e l’Ungheria, per poi lanciarsi al galoppo in tracotanti e gloriose cacce tra i boschi della Voivodina. Come quella durante la quale due membri dello stesso sangue, rabbiose controparti di una disputa sul possesso di bestiame, entrarono tra gli alberi in totale solitudine. E ne ritornò soltanto uno, col coltello insanguinato ed un rimorso privo di confini. Assai grama gli sarebbe apparsa la sua stessa vita, a partire da quel fatidico giorno… Meditando sugli eventi, il fantasma senza nome cominciò a discendere le scale all’interno della torre ottagonale, un residuo marcescente che probabilmente avrebbe ceduto immediatamente sotto il peso di un corpo vivente. Con uno sguardo sfuggente ai graffiti tracciati sulle mura secolari, attraversò il portone della torre nell’unico giorno in cui gli fosse consentito. Il secondo centenario della grande festa del 1820, quando tutto era iniziato. E finito, al tempo stesso.
Il gorgogliante canto del fiume accompagnava i suoi passi, mentre sul lato destro si profilava l’alto campanile della Chiesa Cattolica di Giovanni Battista, principale luogo di culto di quella cittadina, che si diceva avesse preso il nome della figlia, o moglie di Attila stesso, morta di malaria causa le paludi che un tempo si estendevano in questo disabitato territorio sul confine europeo. Ma lui continuò a camminare, fino alla facciata del castello chiamato Kaštel, proprio perché avrebbe dovuto rappresentare, nell’idea paterna, la perfetta ricostruzione di un maniero per la caccia di concezione inglese, con la sua pianta rettangolare prima che i successivi proprietari la cambiassero nella forma di una “L” dell’alfabeto latino.
La statua commemorativa era lì ad attenderlo e fissarlo, naturalmente. Suo fratello minore immortalato col bastone da passeggio, assieme al cervo che l’aveva accompagnato all’altro mondo; la cornuta bestia di quel Sant’Uberto, manifestazione terrena del divino, con la croce tra le corna, che uno scultore determinato aveva posto tra le sue gambe. Ma oggi, stranamente, mancava all’appello! Per una missione da portare a termine, prima di ritornare a correre tra i boschi dimenticati…

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Filo ininterrotto col Neolitico: i primi 5000 anni di Skara Brae

In un buco nel terreno, presso le verdeggianti regioni settentrionali della Terra di Mezzo, viveva uno hobbit. Ma quanto profondo, esattamente, era questo buco? In che numero di stanze si divideva? E che prove abbiamo, ad esempio, che l’abitazione in questione non fosse più che altro una sorta di magazzino in penombra, dove il proprietario teneva i suoi formaggi, la carne, i cereali? Gli hobbit, a differenza degli elfi, non sono immortali ed ipotizzando uno scenario in cui futuri archeologi si fossero trovati a riscoprire una Contea sepolta, chissà cosa sarebbe stato possibile desumere, dal contesto di quel sito rimasto in silenzio da innumerevoli generazioni… Probabilmente, abbastanza da riuscire a farci un’idea. Se vogliamo usare come modello il metodo scientifico di questo mondo, per come è stato applicato a un luogo antico e rinomato come le rovine semi-sotterranee di Skara Brae, villaggio riportato alla luce del sole da una tempesta nell’ormai remoto 1850. Non che all’epoca il laird (governante) della vicina baia scozzese di Skaill, nelle isole Orcadi, fosse stato in grado di approfondire eccessivamente la questione, scavando e documentando soltanto quattro delle otto case costituenti l’insediamento ed attribuendole a una non meglio cultura preistorica della regione. Ma William Watt era in effetti più che altro un appassionato di storia, che lavorava da solo e coi limitati strumenti filologici e d’approfondimento a sua disposizione, ragion per cui nel giro di qualche anno il sito venne nuovamente abbandonato. Almeno fino a quando nel 1927, spronata dall’avvenuto saccheggio ad opera d’ignoti ed il successivo danneggiamento causa un’ulteriore perturbazione meteorologica, l’Università di Edinburgo decise d’inviare in questo luogo il professore di archeologia Gordon Childe, che ricercò in maniera più approfondita l’origine precisa di una simile testimonianza architettonica, giungendo ad attribuirla in via preliminare all’Età del Ferro. Ma ancora una volta, si trattava di un errore. Sarebbe stato infatti solo con l’arrivo degli anni ’70 e l’invenzione della tecnica di datazione al carbonio, che la vera e impressionante antichità di un tale luogo sarebbe stata finalmente documentata dallo studioso David Clarke: 3100/2500 a.C, ovvero in altri termini, un tempo antecedente alla Grande Muraglia, la Piramide di Giza e potenzialmente lo stesso cerchio di pietre di Stonehenge. Facendone, a tutti gli effetti, il più cronologicamente remoto e ben conservato di tutti i villaggi ritrovati nell’intero territorio europeo.
Questo intonso agglomerato, quindi, si presenta come una serie di abitazioni scavate nel terreno con mura costruite in lose, pietre sottili spaccate in larghezza e disposte a strati, e minuscole porticine probabilmente usate al fine di tenere fuori il freddo e il vento di questa regione. Gli antichi tetti, forse costruiti in legno, sono del tutto mancanti mentre risulta perfettamente immutato l’intero corredo di arredi interni, scolpito direttamente nella pietra capace d’attraversare immutata i millenni della nostra lunga vicenda umana. La stessa collina usata come protezione esterna per gli edifici si presenta come artificiale, data la sua costituzione in parte significativa della materia prima nota come midden o in altri luoghi geografici sambaqui, un agglomerato di rifiuti organici, conchiglie sbriciolate e calcare, accumulatosi nel tempo in funzione della lunga permanenza dell’indefinita civiltà progenitrice. Il cui destino finale, nonostante tutto, continua a rimanere per lo più ignoto…

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La sanguinosa eterna guerra che concima l’isola di Sumba

Ci sono isole presso cui, una volta sbarcato, il turista si aspetta di essere guarnito da una ghirlanda di fiori, prima che i presunti indigeni (talvolta, stipendiati per essere tali) lo accompagnino al lauto pasto d’accoglienza previsto dal suo programma di viaggio. E poi c’è Sumba nell’Indonesia occidentale, melange di etnie di tipo melanesiano e austronesiano, dove appena fuori dal villaggio turistico, le antiche tribù si scontrano con metodi e armi tradizionali, sia durante che al di fuori del periodo annuale previsto per la grande Battaglia, come facevano ben prima che qui giungesse la Compagnia delle Indie Orientali. Ha una fama unica al mondo questo luogo, in effetti, per lungo tempo posto a margine delle mappe fatta eccezione per l’esportazione di legno di sandalo e riuscito a trasformarsi, in modo particolare a partire dagli anni ’80 e ’90, in una delle capitali mondiali dell’escursionismo avventuroso, inteso sia come inoltrarsi verso l’entroterra di una terra brulla, selvaggia e piena d’insetti, che venire direttamente a contatto con una cultura fortemente rappresentativa nonché per certi versi, capace di dimostrarsi altrettanto brutale. In occasioni come quella dell’importantissima festa annuale della Pasola (letteralmente “Lancia” dal termine di derivazione sanscrita sula) culminante nella discesa in campo, tra febbraio e marzo, di una significativa percentuale di tutti gli uomini abili al combattimento per il rituale che dovrebbe, idealmente, favorire la riuscita di un difficile raccolto. Ed è proprio come frutto della loro giostra spietata, compiuta da svariate centinaia di partecipanti in groppa ad altrettanti esemplari della razza di cavalli locale, il kuda-Sumbawa, che idealmente il sangue umano dovrebbe scorrere copioso sopra l’erba della sacra terra. Inducendo essa, o il grande spirito che la supervisiona, ad assistere gli agricoltori e respingere locuste, parassiti ed altri artropodi invasori.
Detto ciò naturalmente, al giorno d’oggi la questione è stata almeno parzialmente rivisitata, sostituendo le lance in questione con dei semplici bastoni senza punta, mentre il potenziale sacrificio dei baldi giovani colpiti ogni anno ha trovato la sostituzione di galline, polli e maiali ritualmente fatti transitare a miglior vita, poco prima dei banchetti che accompagnano, ogni anno, le celebrazioni. Eppure sarebbe totalmente ingenuo pensare, come avviene per altre particolari discipline appartenenti alla categoria dei blood sports, che l’impegno, lo sforzo e la sofferenza implicate da un simile evento siano in qualsivoglia modo meno autentiche di quanto sembrano, anche vista la presenza reiterata ed essenziale dei servizi di pronto soccorso, assieme alle forze che possano ristabilire l’ordine, nel caso niente affatto inaudito di una o l’altra parte che si lasci prendere la mano, iniziando a fare un po’ troppo sul serio.
Venendo quindi allo svolgimento propriamente detto della faccenda, ogni anno la Pasola ha inizio, o per lo meno dovrebbe averlo, alla specifica comparsa sulle coste dei vermi oceanici cosiddetti nyale, in effetti dei rappresentanti della specie del Pacifico Palola viridis, strettamente interconnessi alla vicenda leggendaria posta idealmente all’origine di un simile conflitto. Benché l’impiego del condizionale possa dirsi oggi necessario, vista l’attenzione comprensibile all’aspetto del turismo contemporaneo, capace di trovare grande beneficio nell’osservazione di un calendario esatto e prevedibile, durante quella che è per l’isola probabilmente la stagione maggiormente redditizia. Benché sussistano, in chiara evidenza, elementi assai più rispettosi della tradizione…

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