Lo strano caso degli alberghi a forma di nave

Sulle scoscese coste dell’assolata Jeongdongjin, nella regione sud-coreana di Gangwon-do, non troppo lontano dalla ridente cittadina di Gangneung, sorge una maestosa ed attraente nave da crociera, all’apparenza del tutto simile agli scafi appartenenti alla classe Sovereign della Royal Caribbean. “Sorge” e non “approda” perché il vascello lungo 165 metri e largo 45 non si trova, a ben guardarlo, sul livello dell’azzurro mare. E neppure all’interno dei confini di quest’ultimo, bensì arroccato apparentemente in bilico sopra la cima di un’alta scogliera, dalla quale i suoi ospiti, se lo desiderano, sono invitati ad osservare il tramonto e l’alba più magnifici del mondo. O almeno questo sembrano pensare, oltre alle brochure pubblicitarie, le molte migliaia di ospiti, provenienti da tutto l’Estremo Oriente e non solo, che decidono di trascorrere qui un soggiorno romantico, una vacanza in famiglia, un soggiorno di rappresentanza per lavoro. Sotto molti punti di vista, il Sun Cruise Resort & Yacht Hotel è un costoso, titanico giocattolo, una fantasia in forma d’edificio, del tipo che saremmo immediatamente portati ad immaginare presso la città di Dubai. Ed è indubbio che risplenda in esso quel filone di superficialità ed inguaribile entusiasmo tipico della cultura post-moderna, che difficilmente si lascia sfuggire le più astruse implicazioni di un’assurda analogia. Ma il significato di una simile creazione architettonica risiede anche nel suo contesto culturale, nella posizione che essa ricopre all’interno della storia di un popolo che, fin dall’epoca del primo regno di Gojoseon, ha saputo infondere nei suoi palazzi e templi un’attenzione per la forma trascendente, intesa come significato filosofico dei singoli elementi costituivi. Il riferimento nella storia dell’arte più prossimo all’immobile e gigantesco natante, tuttavia, forse non si trova affatto in Corea, bensì in Cina: sto parlando del padiglione con la forma di una grossa nave sito a Pechino, in prossimità delle rive di un lago all’interno del terreno del Palazzo d’Estate, residenza estiva degli imperatori della dinastia Qing (1644-1911). Risalente al 1755, il curioso edificio lungo 36 metri è sviluppato su due piani e si trova su una base di solidi blocchi di marmo, al di sopra dei quali fu edificata una struttura in legno dall’aspetto particolarmente elaborato. Ai lati dello “scafo” sono disposte due piccole ruote in pietra, per dare l’idea che si tratti di un vaporetto, mentre all’interno campeggiano enormi specchi, finalizzati ad avvolgere il visitatore tra gli scorci acquatici dell’ambiente circostante. Si dice che la struttura sia una risposta contraria al celebre ammonimento del cancelliere Tang Wei Zheng (580–643) al suo Imperatore, che disse: “L’acqua che sostiene la barca può anche ricoprirla.” Riferendosi all’importanza del sostegno del popolo per un buon governante. Ma la famosa imperatrice vedova Cixi, nel 1893, avrebbe restaurato l’edificio appropriandosi di fondi destinati alla marina nazionale, dimostrando quanto (ancora) fosse solida la presa della sua famiglia sul potere assoluto della Cina, persino dopo le due tragiche guerre dell’oppio contro i maggiori imperi europei. Dov’è, quindi, il nesso principale? Il padiglione marmoreo in questione è circondato, ancora oggi, da quattro grandi teste di drago, dalle quali zampilla l’acqua che viene prelevata direttamente dal lago. Mentre a Jeongdongjin, nell’antichità, i sommi sacerdoti dell’epoca Joseon (1392–1897) allestivano i riti per placare il sommo Dio del mare, nient’altro che il Re Dragone dei quattro mari (lago Qinhai ad est, Mar Cinese occidentale, lago di Baikal a nord, Mar Cinese meridionale) signore di tutto ciò che naviga o si immerge tra le acque della Terra. Costruire perciò un qualsiasi vascello al di fuori della sua portata permette di rendergli onore, senza esporsi nel contempo alle sue fauci dalla rinomata spietatezza verso i marinai umani.
Non c’è nulla, ad ogni modo, nel Sun Cruise che debba riportare direttamente alla mente le alterne casistiche di simili vicende ormai dimenticate. Tutto in esso è luminoso, splendido, volutamente sconnesso dagli aspetti storici della regione. Il visitatore, che può giungere anche dall’apposita stazione nella celebrata ferrovia costiera della regione, viene accolto sull’ampio vialetto dalla presenza scultorea di due gigantesche mani, nient’altro che il portale oltre il quale si estende un curato giardino, disseminato da statue e monumenti di vario tipo. Una volta entrati dalla porta principale, quindi, ci si ritrova in un ambiente lussuoso benché adatto a (quasi) tutte le tasche, con stanze che vanno dal prezzo di 70 dollari giornalieri a quello di 2.000, per le suite residenziali più vaste ed accessoriate. Sul ponte della nave è presente un grande bar con piattaforma girevole, dal quale si può osservare il mare sottostante. L’altezza su cui è sito l’hotel rispetto alla costa assicura che l’unica vista possibile sia di tipo acquatico, incrementando ulteriormente la sensazione di trovarsi in crociera. Completano l’offerta una passerella trasparente di osservazione del panorama ed un secondo edificio-nave più piccolo, sito in riva al mare, con funzioni di yacht club dal quale risulta possibile affittare dei natanti per percorrere le attraenti coste di Gangwon-do. Offerta speciale (segnalata sul sito della location) per chiunque desideri farlo in occasione di proposte di fidanzamento/matrimonio. Proprio a questo, dopo tutto, dovrebbe servire lo splendore della natura…

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Demolizioni delicate: senza polvere sparisce un grattacielo

Hotel Akasaka

Nel quartiere Chiyoda di Tokyo, in prossimità di un triangolo ideale che include gli edifici della Dieta nazionale (l’equivalente del nostro parlamento) la stazione di Nagatachō e lo stesso palazzo dell’Imperatore, la torre svettava maestosa, avveniristica ed ormai, del tutto priva di speranza. Frutto significativo di un periodo d’espansione economica incontrollata, gli anni ’80 della piena bolla economica giapponese, quando i soldi erano pressoché infiniti e chiaramente, i prezzi aumentavano di conseguenza. Soprattutto quelli degli immobili, l’oro preferito degli investitori. Così poteva succedere, improvvisamente, che il prestigioso Kitashirakawa Palace, l’hotel fondato all’interno di una residenza che una cinquantina d’anni prima era stata di Yi Un, principe in esilio di Corea, disponesse di risorse tali, ed un terreno sufficientemente spazioso, da iniziare a trasformarsi in grattacielo. Ma non uno come tutti gli altri, cubico e indefesso: bensì un edificio degno di lasciare il segno, progettato da niente meno che Kenzō Tange, uno dei massimi architetti dell’ultimo secolo trascorso. Il quale, già avviato verso gli ultimi anni della sua lunga carriera (al completamento, ne avrebbe avuti ben 79) appose la sua firma sul progetto di un palazzo certamente insolito, non particolarmente amato dagli amanti della tradizione: 40 piani con una pianta a doppia onda seghettata, con una forma grossomodo a V. Il suo nome: Grand Prince Hotel Akasaka. Edificio costruito rispettando i migliori crismi tecnici dell’epoca, ma che ormai, come capita pressoché ovunque, ci appare inefficiente nel suo isolamento termico, con i soffitti troppo bassi, gli spazi insufficienti per accomodare le infrastrutture tecnologiche e una copertura in alluminio parzialmente rovinata, la cui sostituzione costerebbe cifre niente affatto indifferenti. Ora, se fossimo a New York, Chicago o San Francisco, non è difficile immaginare quello che succederebbe: come per l’Empire State Building, interamente rinnovato più volte, questa vecchia vista cittadina andrebbe preservata, a perenne memento di un’epoca di gloria, ormai trascorsa eppure mai dimenticata. Qualche piccolo sacrificio, da parte dei suoi occupanti quotidiani, sarebbe giustificato con il “fascino” e il “pathos” della sua esistenza. Ma nella terra dell’antico santuario di Ise, il grande tempio shintoista in legno che ogni 20 anni viene fatto a pezzi e poi ricostruito, tra le due alture antistanti nella prefettura di Mie, nulla è fatto per durare più di una, al massimo due generazioni. Iniziò quindi a palesarsi un chiaro sentimento, nella mente degli abitanti del quartiere, dei visitatori di passaggio, dei turisti e delle schiere dei diligenti salaryman con il colletto bianco. Il suo nome: Mono no aware. Il senso [dell’impermanenza] delle cose, fondamento di un’antica strada filosofica dell’Est del mondo. Utile, nel presente caso, a comprendere come quel grosso ingombro cittadino, per quanto riconoscibile e talvolta idealizzato, aveva ormai fatto il suo tempo.
Il che porta a tutta una serie di problemi accessori, tra cui quello principale: come demolire un simile gigante, per di più posto al centro di un quartiere di rappresentanza, circondato da altri palazzi non di molto più piccoli né in alcun modo corazzati? Le moderne tecniche d’implosione, basate sull’uso di esplosivi attentamente calibrati e posti nei punti deboli della struttura, possono ottenere dei risultati davvero encomiabili: tutti hanno visto quella popolare tipologia di video, in cui reliquie dall’imponenza comparabile all’Akasaka tremano d’un tratto, poi iniziano immediatamente a ripiegarsi su se stessi. Una perfetta esecuzione del piano operativo, generalmente, permette di rimuovere qualsiasi colossale monumento all’espansione in verticale, senza compromettere la solidità dei suoi vicini più immediati. Il che non significa, ad ogni modo, che si possa contare su tali metodi in più che una minima percentuale di casi. Perché gli errori, ingegneristici o d’altro tipo, capitano, e prima di procedere con la detonazione occorre chiedere lo sgombero degli edifici circostanti, per lunghe e gravose ore a danno dell’industria. Una strada difficilmente percorribile, in zone topiche come Manhattan o Chiyoda. Ed a questo va anche aggiunto il notevole inquinamento, dovuto alle polveri che si liberano nell’atmosfera. Ma la necessità, da sempre, genera i progressi tecnici del mondo…

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In Zambia, gli elefanti affamati non prenotano MAI l’hotel

Mfuwe Lodge 0

“Vuoi dire che ho dovuto rinunciare al mio tè di metà pomeriggio coi biscotti soltanto a causa di QUESTO?” Un mango…Profumato. Si tratta di un problema endemico di questi luoghi, il che tra l’altro non significa che debba definirsi anche usuale, una roba insomma, che succede a giorni alterni. Per fortuna. Consideriamolo piuttosto, un miracolo della natura più selvaggia, espresso attraverso le sue interazioni con un qualcosa d’immanente che, nonostante ciò che postuliamo filosoficamente da generazioni, ne è una parte inscindibile e fondamentale: l’uomo. Accadde così, verso l’inizio del 2000, che quattro campi per turisti d’Africa del parco nazionale di Luangwa Sud, nello Zambia reso celebre in Europa dalla spedizione del dottor Livingstone (durata:1858-1864) formassero una sola compagnia, perché l’unione fa la forza, tra le belve come nell’economia, e dove non possono arrivare una dozzina di amministratori stranieri e guide locali, un multiplo di quella cifra di persone…Ah, non c’è limite alla fantasia. Così cresceva il numero di questi luoghi consociati e, parallelamente, nasceva il prototipo di un nuovo modo di trovarsi in mezzo al presupposto nulla, con tutti i comfort della civiltà moderna: elettricità, acqua corrente, vasche con l’idromassaggio. Tutto questo è la loggia di Mfuwe, fiore all’occhiello di questa ricca offerta per i visitatori, nello specifico collocata tra le due lagune barbaglianti che fanno da porta d’ingresso al parco. Cinque stelle ed una fama rinomata. La Bushcamp Company, al giorno d’oggi, è una vera istituzione di quel tipo di attività che viene comunemente definita eco-turismo, consistente nel recarsi ad osservare gli animali proprio laddove nascono, crescono ed esplorano le gioie della vita sotto il Sole. E quando hai un sito Internet visitato da ogni parte del mondo, con migliaia di recensioni positive sui portali rilevanti e un canale di YouTube da quasi 10 milioni di visualizzazioni, vuol dire che non soltanto tutti ti conoscono, ma apprezzano lo stile infuso in ciò che fai. Safari, del resto, è una parola Swahili che significa “marciare” e fin troppo spesso l’attività che si associa a questo punto fermo del vivere africano è quella condotta al volante di veicoli, ingombranti e rumorosi, tutt’altro che adeguati per godersi il ritmo ed il silenzio di questi luoghi remoti. Mentre qui, nello Zambia meridionale, vige ancora la regola dei primi naturalisti e colonizzatori, che consisteva semplicemente nell’uscire dalla porta del tuo alloggio, di buona lena, e mettersi le gambe in spalla, fino alla laguna piena di ippopotami, coccodrilli, leoni e iene. Nonché ovviamente lui, il gigante buono per suprema eccellenza, l’individuo con proboscide che (dicono) non si scorderà di te.
Ma così come noi, turisti, camminiamo in giro per il bush, così da parte sua ha da sempre fatto pure l’elefante, alla ricerca di nuove fonti verdeggianti di sostentamento vegetale che tendenzialmente, vista la sua mole e grande fame, non durerebbero altrimenti molto a lungo. Piante come l’albero del mango selvatico (Cordyla africana) che si dice si trovasse, fin dall’origine, alla fondazione della loggia di Mfuwe, alla maniera degli arbusti sacri di città o castelli della fantasy contemporanea. Ora, non è detto che l’importanza di questo luogo, per una particolare famiglia di pachidermi locali, fosse già evidente all’epoca dell’edificazione. Può darsi che allora, la vecchia matriarca Wonky Tusk (zanna sbilenca) non avesse ancora avuto l’occasione di sperimentare un tale gusto sopraffino, oppure che semplicemente, temporaneamente impegnata con i suoi seguaci in qualche remota peregrinazione, non si fosse premurata di mandare un telegramma al capo dei cantieri. Fatto sta che all’improvviso, da un tramonto all’alba metaforica del nuovo Tempo, attorno a tale regalìa fruttata fossero sorte una certa quantità di barriere, di quel tipo che i piccoli bipedi tendono a definire “muro”. Mentre gli elefanti, se pure le notano, ci fanno poco caso. Stolidamente vanno per la propria strada, passandoci accanto, o se magari ne hanno voglia e modo, persino attraverso.

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