Rovine scozzesi: che storia nasconde il castello perduto di Dunalastair?

Sotto lo sguardo ronzante di un anacronistico drone, l’edificio privo di un tetto non sembra possedere alcun modo per continuare a nascondere i propri segreti. Gli alti pinnacoli delle torri protesi verso il cielo, come dita di un gigante ucciso da nobili eroi, mentre finestre vuote scrutano le acque di un lago silente, orbite nel suo massiccio teschio scarnificato. Le ombre degli ontani si allungano a coprire il vecchio viale, che lo costeggia su entrambi i lati, verso una porta in legno massiccio dalle figure geometriche misteriose.
Ogni qualvolta si manca d’utilizzare un qualcosa per un tempo abbastanza lungo, il processo naturale dell’entropia tende a prendere il sopravvento. Così i tarli disgregano il legno vitale delle abitazioni, come le rivolte o i moti popolari, pongono fine al ciclo delle antiche dinastie. Quella inglese degli Stuart, tanto per fare un esempio, tollerante vero il Cattolicesimo e destinata per questo a incontrare i dissensi dei propri sostenitori più o meno nobili, o almeno la maggior parte di essi, fino alla storica deposizione del monarca Giacomo II avvenuta nel 1688 con un atto del Parlamento, che avrebbe condotto entro un singolo anno alla fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, sotto il saggio governo (o almeno, questa era l’idea) di Guglielmo III d’Orange, già Statolder delle Province Unite nei Paesi Bassi. Il che difficilmente, anche visto tragico fato del precedente re decapitato Carlo I durante gli anni di fuoco del “castigatore” Oliver Cromwell, difficilmente avrebbe potuto prescindere da un prudente atto di fuga. Seguirono i lunghi anni d’esilio in Francia e ad Avignone, sotto l’egida di Luigi Le Roi Soleil, fino al tentativo di rientro in patria del 1745, organizzato con l’assistenza della fazione cosiddetta dei Giacobiti che per ovvie ragioni storiche e religiose, trovava il suo zoccolo maggiormente solido tra le Highlands scozzesi, oltre i prati verdeggianti delle Highlands, i clan bellicosi e le loro entusiastiche grida. Così che figurava, all’alba della prima importante battaglia di quel conflitto (combattuta il 21 settembre di quel fatidico anno nella località di Prestonpans) il personaggio di un comandante secondario particolarmente eclettico, noto come Alexander Robertson di Struan, tredicesimo capo del clan Donnachaidh. Colui che per lunghi anni, il sovrano stesso aveva definito “L’unico membro realmente civile di questa corte in esilio” in funzione della sua rinomata attività poetica, di cui purtroppo nulla è sopravvissuto fino all’epoca moderna. Ormai settantacinquenne, all’epoca di un così drammatico conflitto, eppure abbastanza energico da guidare una feroce carica contro il treno dei rifornimenti del comandante Whig nemico John Cope, sottraendogli importanti simboli come la catena d’oro, il mantello in pelle di lupo e tutto il suo brandy, subito riportati presso il castello natìo sopra l’ancestrale promontorio di Dunalastair. Ora gli scozzesi erano soliti affermare, in merito alla propria terra d’origine, che essa dovesse necessariamente costituire il Paradiso, così che lasciarla per qualsivoglia ragione fosse un passo equivalente a “discendere sulla Terra”. Il che del resto, non fece molto per aumentare la pietà e ragionevolezza di un così anziano signore, subito pronto a mandare in esilio la sorella che aveva governato in sua vece per tanti anni, prima di riprendere il controllo dell’Eremo sul cosiddetto Monte Alexander, originale seggio del suo potere. Così che da quel giorno, egli sarebbe passato alla storia come il Tiranno di Struan. Eppur molte cose, da quell’epoca da noi lontana, dovevano ancora andare incontro a un processo di doloroso cambiamento…

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Un rinnovato quadro storico per le isole artificiali più antiche di Stonehenge

La situazione iniziò ad assumere contorni vagamente definiti verso i primi del ‘900: quando l’adozione dei nuovi approcci agricoli e le relative tecnologie di controllo e alterazione del paesaggio portò le genti di Scozia e d’Irlanda a prosciugare il basso fondale di alcuni dei loro laghi nascosti tra il verde di boschi millenari, trovandosi al cospetto dell’innegabile passaggio dei loro antenati. Pezzi di legno chiaramente fabbricati da mani umane, probabilmente facenti parte di un qualche tipo di struttura abitativa, e pezzi di ceramica fabbricati con metodi risalenti (almeno) all’Età del Ferro. Ma soprattutto un accumulo intenzionale di pietre, accuratamente accatastate l’una all’altra, tale da costituire quello che in origine, doveva essere un vero e proprio isolotto posizionato ad emergere tra i flutti, con uno scopo e una funzione difficile da definire. Poco a poco, quindi, gli studiosi iniziarono a compilare un catalogo, delle aree riemerse, quelle sottoposte ad iniziative d’archeologia subacquea e le altre piccole isole, da sempre chiaramente visibili per la popolazione, che tanto lungamente erano state date per scontate ed a cui veniva tradizionalmente attribuito il termine d’associazione incerta crannog (dall’antico termine irlandese crann, con il significato letterale di “piccolo albero”). Ma fu soltanto con l’invenzione, nell’immediato secondo dopoguerra, ad opera del chimico statunitense Willard Frank Libby, della topica datazione al carbonio 14, che un qualche tipo d’effettiva classificazione poté venire messa in atto per gli oltre 500 siti che gradualmente, stavano continuando ad allungare le liste dei patrimoni culturali preistorici della Gran Bretagna. Il sistema mediante il quale, attraverso la misurazione della quantità d’isotopo radioattivo contenuto in materiali d’origine organica, risultava finalmente possibile desumere l’epoca esatta della dipartita dell’essere, animale o vegetale, di cui aveva costituito originariamente la proprietà. E della seconda tipologia, in quei particolari recessi, era offerta la possibilità di trovarne parecchi, data la particolare composizione chimica e il contenuto d’ossigeno dei loch nella parte settentrionale dell’arcipelago inglese, tali da garantire una capacità di preservare attrezzi e materiale da costruzione in legno assolutamente superiore alla media, garantendo l’apertura di una valida finestra verso l’intento e lo stile di vita degli antichi popoli di tali terre. Così che, entro una decade, la definizione storica della faccenda raggiunse quello che venne considerato per lungo termine l’ultimo chiarimento: i crannog avevano tutti un’età massima di 2500 anni circa, risalendo a un’epoca in cui la pletora delle antiche culture proto-celtiche disgiunte in territorio pan-britannico iniziavano ad assumere un carattere e un’identità culturale comune. Questo, almeno, finché un evento imprevisto non distrusse completamente ogni cognizione precedentemente data per buona: quando i ricercatori all’opera presso l’isolotto artificiale del lago Olabhat di Eilean Dhomhnaill, presso l’isola delle Ebridi Esterne di North Uist non ripescarono quello che poteva soltanto essere, innegabilmente, un recipiente di terracotta risalente all’epoca del Neolitico, ovvero al minimo, 5.000 anni prima dell’attuale data. Una bizzarra, improbabile anomalia? La cosiddetta eccezione che conferma la regola? Ciò venne faticosamente affermato, senza mai veramente crederci, per svariati anni. Ma la situazione sembrerebbe aver assunto, grazie a uno studio pubblicato lo scorso giugno, toni e tinte di un tutt’altro tipo…

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Il robot creato per far rimbalzare pietre piatte sulla superficie di un lago

Le stagioni passano ma le vecchie abitudini sono dure a morire. Per un martello, qualsiasi cosa è un chiodo. E qualora l’attrezzo dovesse mancare, sarà la natura ad accorrere in aiuto, con l’alternativa valida di oggetto globulare ed oblungo, talvolta ruvido al tatto (ma non sempre). Il sasso in grado di delimitare un sentiero, ovvero la strada anche detta Via, che conduce all’ultima realizzazione di un pregevole obiettivo: dimostrare il proprio predominio sulla fisica dei corpi in movimento, intesi come cosa piatta che rimbalza, in qualità sua massima prerogativa, lungo la superficie lievemente increspata di un corso/specchio d’acqua, per molteplici e inarrestabili volte. Ma generalmente non più di dieci. Intere generazioni di fanciulli dediti al cosiddetto rimbalzello, sia in termini d’anni trascorsi dalla loro nascita che per l’età mentale soggettivamente percepita, hanno tentato di superare quel fatidico numero, accedendo alla fama del proprio limitato consorzio generazionale. Finché il globalismo dei moderni sistemi comunicativi, unito al senso della competizione contemporanea che ogni cosa pervade, non hanno aperto come una chiave la porta del perfezionamento, dimostrando che una persona sinceramente impegnata poteva ottenere molto, molto più di così. E che dire, dunque, di un ESSERE ARTIFICIALE?
“Creatore, qual’è il mio scopo?” Risuona metaforicamente la voce priva d’intonazione di una macchina, soltanto vagamente antropomorfa (beh, più che altro una scatola con testa ed arti) costruita al fine di essere trasportata presso il lago Cavanaugh nello stato settentrionale di Washington da niente meno che Mark Rober, l’eclettico ex-ingegnere della NASA famoso online, tra le molte altre cose, per aver partecipato alla progettazione del Rover Curiosity che oggi si trova su Marte, prima di passare al costume di Halloween con la coppia di iPad che proietta il “buco” attraverso la sagoma riconoscibile di zombies, fantasmi o altre creature da incubo temporaneamente resuscitate su questa Terra. Lui che si trovava qui impegnato, con il nutrito pubblico dei suoi giovani nipoti e mi sentirei anche d’ipotizzare, vista la quantità di gente, anche qualche amichetto di scuola, nel dimostrare in maniera pratica alcuni metodi del processo creativo al centro della sua carriera, particolarmente verso l’ottenimento di una configurazione finale finalizzata all’ottenimento di un record numericamente importante. Grazie a Skippa, l’essere mostrato in apertura, in realtà frutto dell’adattamento di una macchina per l’allenamento nel baseball, con il braccio alterare per non lanciare più il tipico pegno sferoidale di un tale sport, bensì un oggetto piatto riconducibile, sostanzialmente, al discobolo di Mirone: cerchietti d’argilla essiccati al sole. Per lo meno, in questa fase preliminare dell’intrigante progetto, finalizzato a dimostrare le vette sportive raggiungibili da un dispositivo creato artificialmente, quando le condizioni d’impiego risultino perfettamente prevedibili ed uguali per ciascun singolo tentativo. Una qualcosa di perfettamente riconducibile anche alla pratica umana di un simile campo d’interesse, quando si considera come nel solo ed unico campionato mondiale di stone skipping o skimming (come viene alternativamente chiamato nel mondo anglosassone) tenuto ogni anno a settembre presso l’isola scozzese di Easdale, uno degli aspetti chiave sia l’impiego di pietruzze quasi perfettamente identiche, tutte provenienti dallo stesso materiale dell’ardesia un tempo estratta da quel territorio, prima che il modificarsi del paesaggio portasse le antiche miniere a ritrovarsi completamente allagate. Poco male, considerata la nuova attività-simbolo di queste persone…

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Ricerca dimostra l’insospettata perizia canora delle foche

Nelle viscere del centro di ricerca, entro la vasca piena delle acque lasciate entrare dall’Oceano appena fuori queste mura, qualcosa sembra muoversi in maniera erratico. Quando a un tratto, la testa sbuca in riva alla piscina: è una lontra! No, deve trattarsi del famoso… Cane d’acqua! Con le pinne al posto delle zampe anteriori, e una grande coda da sirena. Il grigio essere anche detto “maiale di mare dal naso uncinato” (letteralmente in latino: Halichoerus grypus) che con agile sussulto, sale su all’asciutto, prima di mettersi a fissare qualcuno oppure… Qualcosa? Con suono penetrante, d’un tratto, qualche altoparlante inizia a emettere la melodia riconoscibile della famosa ninnananna inglese “Twinkle Twinkle Little Star”. La foca sembra pensarci solamente per un attimo. Quindi in modo soltanto lievemente stonato, inizia attentamente ad abbaiarne le salienti note…
Nostro quasi-gemello dalla fronte aerodinamica, le sopracciglia sporgenti e il naso sovradimensionato, l’uomo di Neanderthal trovò modo di esprimere tutta la propria intelligenza e capacità tecnica durante il periodo Paleolitico Medio. Finché un giorno, senza neppure l’accenno di un preavviso, cessò di esistere improvvisamente, lasciando il mito di un’alternativa razza umana che poteva ancora esistere in parallelo, se soltanto l’intera faccenda si fosse risolta in modo differente. Questo poiché niente è più importante, nella formazione di una civiltà capace di oltrepassare le generazioni, dell’apprendimento di un sistema realmente efficace per comunicare i propri bisogni, sentimenti e direttive ai propri simili, verso la definizione di un qualche tipo d’obiettivo comune. E questo è vero per gli ominidi, almeno quanto gli animali, dove il grado di sofisticazione del comparto di vocalizzazione costituisce un importante tratto distintivo nella valutazione dei rispettivi percorsi evolutivi pregressi. Vedi per esempio il caso delle scimmie più simili a noi, scimpanzé, gorilla ed altri primati, che pur possedendo pollice opponibile, massa cerebrale, strutture familiari complesse, non sono capaci d’elaborare neanche l’accenno di un suono articolato, laddove un semplice pappagallo, per non parlare del fantasmagorico uccello lira (Menuridae/Menura) possono agevolmente rivaleggiare l’ampia gamma di suoni prodotti da un umano del mondo moderno.
Eppure, quante e quali cognizioni possiamo realmente trarre sull’origine del linguaggio a partire da un qualsivoglia tipo d’uccello, creatura molto più simile ai dinosauri che hanno anticipato la nostra esistenza su questa Terra, piuttosto che a noialtri pur sempre bipedi, benché privi di piume, becco e coda per tenersi in equilibrio sopra i rami? Ben poche comparativamente parlando, potrebbero rispondere a pieno titolo Amanda L. Stansbury e Vincent M. Janik, ricercatori dell’Università di St. Andrews in Scozia, al termine di un lungo anno trascorso ad approfondire le capacità vocali del loro animale preferito, dimostrando qualcosa che già in molti sospettavamo: il fatto che i mammiferi marini, fatta eccezione per gli adattamenti dovuti al loro specifico ambiente d’appartenenza, sono tra le creature più simili a noi su questo pianeta. E che tra tutti loro, particolarmente i pinnipedi (foche, leoni marini, trichechi…) sono quelli dotati di una laringe dalle proporzioni familiari, labbra, lingua e addirittura la coppia di plichi vibranti nelle profondità della gola che noi siamo soliti chiamare “corde vocali”, particolarmente utili a produrre effetti sonori abbastanza simili e riconoscibili, sia fuori che dentro le profondità marine. Grazie alle particolari forme controllabili dell’onda sonora, definite in gergo tecnico “formanti”. Che permettono di creare suoni adatti, letteralmente, a una vasta serie d’occasioni…

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