Il macedone che riformò il concetto di strategia in guerra

La storia ricorda i nomi dei grandi, anche se talvolta l’opinione pubblica commette errori nell’attribuire i meriti alle persone. Prima che venisse lui, le cose venivano fatte in un determinato modo. E dopo, tutto continuò in maniera perfettamente uguale, per ancora diversi secoli di conflitti e fino alla nascita di un ulteriore tipo di legioni. Tranne per il fatto che l’esercito che aveva creato, senza ombra di dubbio, era diventato il più forte e incontrastato dell’intero mondo conosciuto. Ed anche una significativa parte di quello ancora da scoprire. Biondo, bello, acculturato, saggio, forte, un eterno vincitore: c’era niente che Alessandro non potesse riuscire a fare? Una cosa, sopra ogni altra: creare dal nulla una simile armata. Per la semplice ragione che a farlo, ci aveva già pensato suo padre.
Oh, ovviamente lui c’era, in quel giorno del 338 a.C a Cheronea, quando un regno ancora considerato semi-barbarico avrebbe scardinato ogni sicurezza delle maggiori pòleis dell’antica Grecia, grazie al suo impiego inaspettato di un diverso tipo di soldati, professionisti dediti all’addestramento come gli spartani, ma anche portatori di un qualcosa di talmente furbo e anti-convenzionale, che lo stesso re Leonida di Sparta alle Termopili 142 anni prima non avrebbe esitato a definirli dei codardi. E proprio da questa rigidità d’intenti, in ultima analisi, sarebbe derivata l’incapacità dei suoi eredi di soverchiare gli eserciti di Atene e di Tebe. Generali veterani, convinti sostenitori degli antichi metodi guerrieri… Mentre il suo futuro pari o addirittura superiore, nuovo prototipo del semi-dio guerriero con il destino di salvare l’Occidente, a quell’epoca aveva appena 18 anni. Eppure già comandava lo schieramento della fanteria pesante, che in qualsiasi altra armata avrebbe sostenuto il ruolo più importante dell’intera battaglia. Ovunque tranne che in Macedonia, dove la tradizione voleva che il re galoppasse piuttosto alla testa degli Hetairoi, una formidabile unità di cavalleria costituita dai baroni e gli altri nobili delle montagne, l’unica della sua epoca che fosse in grado di irrompere attraverso le fila dei nemici, come tanto spesso abbiamo visto accadere nei film. Armato di xiston, leggera lancia in legno di corniolo con la punta a entrambe le estremità, e la makhaira da un solo filo, corta spada simile a una mannaia, Filippo si trovava al vertice del triangolo formato dai sui compagni (questo il significato della parola hetairoi) da dove avrebbe condotto dando l’esempio, permettendo all’intera unità di seguirlo spontaneamente in battaglia, senza dover ricorrere alla parola. E quel giorno fatidico seguìto al fallimento diplomatico del progetto della Lega di Corinto, che avrebbe un giorno unificato tutte le pòleis sotto l’egemonia del regno di Macedonia, ce ne sarebbe stato certamente bisogno. All’altra estremità della pianura antistante alla maggiore acropoli della Beozia, infatti, ciò che trovava posto non era una falange oplitica come tutte le altre, bensì lo stesso gruppo di soldati imbattibili che aveva ispirato e mostrato la via a Filippo 30 anni prima, dopo essere stato preso da loro in ostaggio durante la guerra contro gli Illiri: il battaglione sacro tebano, composto unicamente da 500 coppie di guerrieri resi affiatati da stretti legami d’amicizia o vero e proprio amore. Oltre a questo corpo d’elite seguito dai restanti 11.000 uomini di Tebe, lo schieramento alleato poteva contare sui 9.000 di Atene ed altri 9.000 appartenenti alle pòleis minori di Ebea, Corinto, Leuca, Megara e Corcira. 5.000 mercenari coprivano i fianchi dello schieramento.  Al confronto, l’esercito macedone poteva contare su 32.000 effettivi, con una lieve inferiorità numerica di circa 3.000 elementi. Ma niente che il comando di un esperto generale non avesse già ampiamente colmato nella storia dell’uomo.

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L’alto corno celtico da guerra

John Kenny

Niente cementa lo spirito di corpo di un’armata quanto la lunga ombra di un’insegna: stemmi, vessilli, pregni e forti emblemi sopra un palo. Per questo, quando nell’Era Classica, al suono di tamburi e trombe battagliere, i popoli marciavano oltre i propri confini deputati, c’era sempre almeno un attendente, prossimo al supremo generale, che non portava lancia, spada o mazza ed altre cose similmente contundenti. Ma un qualcosa di ben più terribile e meraviglioso, un utile segno di riconoscimento. Lo strumento psicologico del comandante. Che fosse ben visibile dagli alleati e dai nemici al tempo stesso, affinché i primi ne fossero rincuorati, ed i secondi, quanto meno, intimoriti. Il che dava una seconda dimensione ad ogni tipo di battaglia o di tremendo scontro tra diverse civiltà. Quasi come se sopra la mischia dei soldati, fra tanti fendenti e sangue arroventato, ci fosse una guerra tra figure mitiche di belve o di animali, che si agitavano, girando vorticosamente e si scontravano finché alla fine, senza colpo ferire, l’una prevalesse sopra l’altra, ormai priva del suo portatore, mani umane ed insignificanti. Ogni trionfo era passeggero. Col proseguir dei secoli, alla fine, tutto è destinato a scomparire. Così cadeva nella polvere, dimenticato infine, ogni prezioso simbolo, non importa quanto sacro ed involato sopra i mille campi di battaglia.
Considera l’Europa della tarda Età del Ferro, diciamo intorno al 250 a.C. E pensa a tutti quei popoli, distanti e variegati, che si facevano la guerra tra di loro. Tra cui l’unione politica era impossibile, vista l’ottica del vivere tribale. Eppure ancor distante all’orizzonte, decisamente ben lontana, era la venuta di legioni e centurioni, poi acquedotti, templi di mattoni. Allora, già le genti coltivavano le arti e la filosofia, e si riconoscevano in un corpus di gestualità, usanze e costumi che oggi definiamo con un solo termine, benché si estendesse dalle propaggini occidentali della Spagna fino alla Romania, e su in alto, nelle odierne Inghilterra, Scozia e Irlanda: erano costoro i Celti, molti popoli distinti eppure, con molto in comune tra di loro. Il culto rituale della natura, associato ad un particolare pantheon di divinità. L’abilità in campo metallurgico, nella costruzione di gioielli, armi ed altri manufatti. Nonché un certo modo, primitivo ed entusiastico, di far la guerra, quando necessaria. Il che di certo non gli fu d’aiuto, quando giunse presso il settentrione l’ultimo nemico, Roma invicta, la sua disciplina e tutto quello che portava insieme a se. È facile da ammirare: l’aquila romana, in metallo dorato, con il drappo rosso e il numero della legione. Quanto spesso viene trascurato, invece, il gran cinghiale-mostro simbolo dei celti. Che sulla prima, aveva un gran vantaggio: sapeva emettere un potente verso.

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