Il più grande inganno perpetrato ai danni dello scarabeo stercorario

Mia madre diceva sempre: “Le antilopi vanno e vengono, come gli ammassi di vapore acqueo nel cielo di primavera. Ma chi trova una sfera di sterco, trova un tesoro.” Rotola, rotola, rotola. Spingi, spingi, tira. Le dure fatiche di un giorno di lavoro, infine ricompensate, quando si riesce a raggiungere la piccola buca nel terreno. Le stelle mi avevano guidato. L’irta pendenza mi aveva ostacolato, fino all’operoso consorte impegnato a rinnovare l’appartamento semi-sepolto. Ed ora, con un intenso sospiro di soddisfazione, ho aperto le aguzze tenaglie mandibolari, per dare inizio al nostro pasto che è anche il preludio della deposizione, con tanto amore e così tante uova da dare. Eppure, ecco l’estremo senso di sorpresa e di delusione: “Mio caro, questa palla è difettosa. Continuo a tentare d’aprirla, ma tutto quello che ottengo è un suono che potrei riassumere con l’ottima onomatopea descrittiva, TONK!” “Mia cara, direi che sembra più che altro un DONK!” Risponde lui, sebbene simili argute disquisizioni, in ultima analisi, falliscano totalmente nel suggerire una via risolutiva alla sconveniente faccenda. É colpa di quella dannata pianta; le nostre antenne erano state sviate dal suggestivo aroma. I nostri occhi, offuscati da quel marrone invitante. La trappola, frutto di tanti millenni d’evoluzione, si era serrata sulle nostre benevole aspettative. Ed ora cos’altro avremmo potuto fare, se non trasferirci, contando su un futuro migliore?
Molti sono i modi in cui poteva presentarsi, in linea di principio, il seme della pianta erbacea Ceratocaryum argenteum, una delle rappresentanti del genere Restionaceae facenti parte della tipica macchia fiorita sudafricana, che i primi coloni europei della zona avevano imparato a definire fynbos, dall’espressione anglofona fine bushes (bei cespugli). Poteva essere lungo, poteva essere bianco, piccolo, alato per sfruttare l’energia del vento. Ma caso vuole che esso, causa le ottime ragioni della natura, finisse per presentarsi con un aspetto ragionevolmente indistinguibile dalle feci sferoidali dell’antilope Damaliscus pygargus, comunemente detta damalisco dalla fronte bianca. Una somiglianza largamente ignorata dal mondo scientifico finché nel 2016 il Prof. Jeremy Midgley del Dipartimento di Biologia dell’Università di Città del Capo, nel tentativo di comprendere per quale ragione tale pianta affidasse il proprio materiale genetico a una capsula tanto strana, nonché la più grande della sua intera famiglia vegetale, pensò bene di riprendere le interazioni di alcuni esemplari del grazioso topo a strisce locale Rhadbomys pumilio, aspettandosi di vederlo consumare con enfasi la strana ghianda, o nocciola che dir si voglia. Se non che l’astuto roditore, una volta preso atto della durezza e la natura maleodorante di tale improbabile frutto della terra, sceglieva comprensibilmente d’abbandonarlo andando in cerca di un pasto migliore. E fu così che l’attento scienziato, osservando e contando attentamente gli elementi visibili nei suoi video, notò come alcuni dei semi sembrassero iniziare a muoversi all’improvviso, scappando fino ai margini dell’inquadratura. Non per strane anomalie gravitazionali, bensì l’intervento, entusiastico e testardo, di una particolare specie di scarabeo…

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Chi osserva la solenne marcia dell’enorme granchio tasmaniano

Nell’autunno del 1878, il direttore del Museo Victoria di Carlton, in Australia, commissionò al naturalista John James Wild una serie di tavole illustrate per il suo Prodromus, una pubblicazione mirante ad illustrare, tra le altre, alcune delle più riconoscibili specie dei dintorni marittimi nazionali. Tra le pagine più memorabili tutt’ora esposte al pubblico nella struttura, figura quella raffigurante il granchio decapode dal carapace rosso, con la chela sinistra visibilmente più grande e parzialmente nera, il dorso bitorzoluto e le affusolate zampe rivolte per metà in avanti, l’altra metà indietro. Già perché Pseudocarcinus gigas, il granchio gigante o reale diffuso nella zona meridionale fatta oggetto del catalogo, come la maggior parte dei crostacei chelati in grado di abitare ad una simile profondità non ha limitazioni deambulatorie di sorta, camminando in ogni direzione contrariamente a quanto fatto dai suoi simili delle spiagge sabbiose della maggior parte del mondo. Simili o per meglio dire, versioni miniaturizzate, viste le cifre riportate in calce all’illustrazione: una larghezza di fino a 46 cm per 17 Kg di peso degli esemplari maschi in grado di farne, in base al criterio utilizzato, almeno il secondo granchio più imponente al mondo. E questo nonostante l’imponenza del suo rivale Macrocheira kaempferi o granchio-ragno del Giappone tenda ad esprimersi soprattutto nella lunghezza delle zampe, con un carapace che non supera generalmente gli “appena” 30-36 cm complessivi. Il che basta a dare l’essenziale idea di un vero e proprio carro armato degli abissi, cui l’evoluzione ha permesso di crescere fino al raggiungimento di una massa, ed un grado di corazzatura, tali da non permettere la sussistenza di alcun tipo di predatore abituale. Fatta eccezione, s’intende, per l’uomo.
Così ecco presentarsi al pubblico, attraverso le occasionali testimonianze quasi mai di prima mano, questa creatura chiaramente carismatica, che sarebbe lecito aspettarsi comparire su poster, magliette e souvenir locali. Eppure il ruolo principale del granchio gigante, più che altro, si trova espresso nell’esportazione gastronomica verso i redditizi mercati dell’Estremo Oriente, causa l’occasionale cattura mediante trappole specifiche (quelle convenzionali sono semplicemente troppo piccole per contenerlo) da parte di una fiorente industria centrata soprattutto negli stati di Victoria e Nuovo Galles del Sud. E studi scientifici, nel vasto repertorio reperibile su Internet, incentrati più che altro sulla sostenibilità di una simile fonte di guadagno attraverso le prossime decadi, in mancanza della quale molti degli investimenti compiuti in merito dovranno forzatamente essere ridimensionati. Un timore che possiamo definire in linea di principio remoto, quando si considera l’evidente capacità di proliferazione di questi animali, la cui femmina depone tra lo 0,5 e i due milioni di uova, ad ogni episodio di accoppiamento possibile soltanto una volta ogni due anni di media, poco dopo il compiersi della muta esoscheletrica che la rende temporaneamente vulnerabile all’accoppiamento. Evento a cui fa seguito la deposizione da parte della femmina, considerevolmente più piccola e dotata di chele della stessa dimensione, del lungo filare simile a una collana di perle, assicurato mediante l’impiego di una secrezione adesiva sulla sabbia del fondale, finalizzata a trattenerle e mimetizzarle al tempo stesso. Un gesto che le costa, molto spesso, l’attacco da parte di una notevole quantità di parassiti.
Ma è al momento della schiusa che le cose iniziano ad essere influenzate più pesantemente dalla fortuna, con i piccoli fluttuanti che si uniscono al grande flusso planktonico delle correnti marine, ottenendo tutte le qualifiche di un apprezzato snack biologico per qualsivoglia pesce si trovasse a passare di lì. Un destino particolarmente inevitabile, per tutte quelle creature che praticano la strategia riproduttiva “r” (classificazione MacArthur/E. O. Wilson) basata sulla produzione di una grande quantità di piccoli sacrificabili, piuttosto che pochi e destinati ad essere protetti fino al raggiungimento dell’età adulta. La cui stessa natura passiva permette, essenzialmente, di diffondere la specie oltre la singola montagna marina di appartenenza, senza che alcun granchio debba intraprendere pericolose, nonché dispendiose migrazioni deambulatorie…

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L’incomprimibile armatura del diabolico signore degli scarabei

“Così era tutto assolutamente vero” Pensò l’entità corazzata Nr. 4789, mentre volgeva la sua testa verso la fonte di luce fuori dal barattolo, all’indirizzo dell’enorme predatore dalla giacca color coloniale. “Nella guerra quotidiana per la sopravvivenza, restare immobili non è più abbastanza.” Infatti il suo nemico, avendo appoggiato sopra un tavolo l’indistruttibile prigione di vetro, aveva preso in mano uno strumento acuminato, della dimensione e spessore approssimativi di un ago. Ma grande a sufficienza da riuscire a penetrare l’entità, facendone un trofeo da esporre nella sua camera mortuaria trasparente. Il crudele aguzzino, tuttavia, aveva uno svantaggio di fondo: continuava a mancare, nel novero della sua percezione sensoriale della verità, la cognizione su chi fosse vivo e chi morto, in realtà. Il coperchio del barattolo venne a quel punto sollevato, stringendo l’entità tra il pollice e l’indice, per appoggiarla quindi sopra quella che sembrava essere a tutti gli effetti una bacheca in sughero, pronta a diventare la sua tomba. Egli restò immobile in maniera pressoché totale, tuttavia, sapendo quello che stava per succedere. Il titano calò lo spillone sul suo dorso, con un suono sordo simile a quello di una lingua di camaleonte che colpisce il vetro antiproiettile. Ma l’inclemente punta di quell’arma, all’improvviso, si piegò. Troppo forte l’armatura! Di un soldato tenebroso preparato a tutto, pur di far ritorno nei confini sabbiosi della sua nazione. L’entità corazzata Nr. 4789 scrutò i precisi confini della stanza, mentre l’entomologo, sparito per qualche minuto, era andato a prendere una punta più rigida, possibilmente attaccata a un trapano elettrico a motore. “Questa gente non sa proprio quando è il momento di arrendersi.” Mormorò tra se e se, mentre prendeva una decisione totalmente priva di precedenti tra le schiere della sua genìa: riprendere a spostarsi non dopo ore, bensì appena una manciata di secondi. Per cominciare soavemente a zampettare, verso l’unica via possibile di scampo di una porta lievemente socchiusa. Oltre cui fin troppo bene sapeva, scorrere l’asfalto distruttivo delle circostanze. Tra gli alti lampioni stradali, ove cui il singolo passaggio di un veicolo avrebbe potuto distruggere in un attimo, insetti meno resistenti e forti di lui…
Lo scarabeo corazzato infernale o Nosoderma diabolicum è una creatura diffusa nel territorio sud-occidentale degli Stati Uniti, con una predilezione particolare per i vasti deserti della California, che sembrerebbe aver imboccato un sentiero assai specifico nel labirinto dell’evoluzione. In qualità di scarabeo che ha perso nei secoli l’abilità di volare, analogamente a quanto avvenuto per alcune altre importanti famiglie dell’ordine dei coleotteri, la natura l’ha dotato in cambio di una versione alternativa delle elitre, gli scudi sollevabili normalmente utili a proteggere le ali, capaci di assorbire senza conseguenze letali una pressione stimabile attorno ai 150 newton, grosso modo stimabile sulle 39.000 volte il suo peso corporeo. Essenzialmente equivalente al caso di un essere di dimensioni umane, dimostratosi in grado di resistere alla massa torreggiante di un macigno da 3,5 milioni di Kg. Il che risultava essere del resto già noto, non potendo perciò costituire l’argomento principale del nuovo studio pubblicato dallo studente Jesus Rivera assieme al suo professore di scienza & ingegneria dei materiali dell’Università della California, David Kisailus, finalizzato piuttosto al necessario approfondimento del perché, e come, una simile casistica spropositata riesca effettivamente a verificarsi. Il che una volta messo per iscritto, approcciandosi per la prima volta a un argomento lungamente tralasciato dalle scienze ingegneristica ed entomologica al tempo stesso per una probabile attribuzione reciproca di competenze, sembrerebbe aver colpito in modo piuttosto diretto la fantasia del pubblico all’inizio dell’attuale settimana. Regalando un attimo di meritata celebrità, e spalancando l’opercolo della sapienza collettiva, nei confronti di questo essere a sei zampe che più che altro, possedeva il chiaro desiderio di essere lasciato in pace…

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Escursionista dello Utah sfugge agli artigli della madre-puma inferocita

Recarsi a passeggiare nella natura è un hobby capace di regalare notevoli soddisfazioni videografiche e ciò riesce ad essere vero, nello stesso modo, anche quando ci si ritrova a proprio malgrado nel mezzo di un documentario del National Geographic. Intitolato nel caso specifico, per suprema sfortuna del nostro protagonista umano, “Come comportarsi quando il secondo felino più grande del Nuovo Mondo inizia ad inseguirti con la probabile intenzione di aggredirti” continuando quindi ad arretrare, investendo la massima attenzione, per un periodo approssimativo di 5 minuti. Non tantissimi, in termini generali eppure decisamente abbastanza, mentre ci si trova a ricercare una possibile via di fuga da quello che potremmo definire, per analogia col nome comune delle Americhe, il (Re) Leone di Montagna (Puma concolor). O per meglio dire la regina, volendo approfondire in maniera più specifica le esatte circostanze dell’ultimo, incredibile video virale proveniente dalle pagine incorporee di Instagram.
Creazione chiaramente accidentale di Kyle Burgess (alias Kunkyle e recentemente diventato celebre col nome di cougar guy) amante delle lunghe passeggiate tra i territori selvaggi e affascinanti del Wasatch Range, i monti situati al confine tra Utah e Idaho ed almeno a partire da oggi, un probabile portatore di pistola nel corso delle sue esplorazioni tra gli alberi e le siepi piene di pericoli non visti. È lui stesso a maledire, d’altra parte, la mancanza di un’arma da fuoco in uno dei momenti salienti del sopracitato incontro, in cui l’animale sempre più nervoso continua a pedinarlo a pochi metri di distanza, effettuando ripetuti accenni d’aggressione mediante balzo in avanti e con le zampe sollevate, mimando il gesto utilizzato normalmente da questi carnivori da 53-100 Kg per ghermire la preda, prima di morderla fatalmente all’altezza del collo. Un destino già toccato, nella cronistoria registrata a partire dal secolo scorso, ad un totale di 27 persone nei 125 attacchi registrati dalle cronache statunitensi e canadesi. Per un totale di casistiche relativamente basso, rispetto per esempio a quello degli orsi o delle vespe, proprio per la bassa probabilità d’incontrare questi schivi e almeno normalmente, cauti felini. Benché l’importanza della statistica, per sua inerente natura, decada nel momento in cui è tuo stesso destino trovarsi in quella condizione, quel preciso momento, l’effettivo rischio potenzialmente letale delle circostanze.
La scena già diventata celebre su scala internazionale si svolge, dunque, verso l’inizio della scorsa settimana e lungo il sentiero dalla forma ad anello del Rock Canyon, in prossimità dell’area metropolitana di Provo-Orem, non troppo lontano dalle propaggini meridionali di Salt Lake City. In quella cosiddetta “interfaccia uomo-natura” diventata progressivamente celebre, nelle ultime decadi, come ambiente abitativo dalla conclamata bellezza ma anche il teatro ideale di una serie d’incontri alquanto problematici. Di cui questa non è che l’ultima, potenzialmente drammatica dimostrazione digitale. Un episodio particolarmente arduo da dimenticare, perché come dice una famosa osservazione dei dintorni nord-americani: “Se hai visto di recente un cervo, il puma non può essere troppo lontano.” Ed sarebbe assai difficile, a questo punto, volgere gli occhi altrove nei confronti del rischio ringhiante in arrivo…

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