L’ambiente, la cultura, i materiali disponibili e le tradizioni più che secolari costituiscono la congiuntura tramite cui popolazioni definiscono le modalità manuali per esprimere il proprio senso della convenienza e necessità operativa. In questo particolare senso, l’artigianato è non soltanto un mezzo di espressione primaria, ma talvolta l’effettiva manifestazione di uno stile di vita, l’energica modalità di dare forma e in qualche modo superare le asperità del vivere quotidiano, derivanti dallo stesso primordiale istinto di sopravvivenza umano. Logica secondo cui, tra tutte le creazioni della gente indivisa, forse la più singolarmente imprescindibile ed universale resta quella di un’abitazione ideale, somma realizzazione al culmine di plurimi tentativi pregressi di miglioramento ed ottimizzazione dei approcci possibili approcci tecnologici a propria disposizione. Approcci come quello, fondamentale per l’etnia tribale dei Dorze, della tessitura ed intreccio su una scala distintamente variabile, dal singolo oggetto ed accessorio per l’abbigliamento, fino all’equivalente in Africa Orientale di un grattacielo. Fino a 12 svettanti metri, nel momento in cui viene completata, la tradizionale dimora della keeththa o kaara sta in effetti alla più tipica capanna delle highlands etiopi come una magione dal designer di larga fama ad una semplice villetta a schiera di una vasta periferia urbana. Eppure non soltanto la sua costruzione è parte del corpus culturale alla base e fondamento della cultura collettiva dei locali, ma essa è percepita come parte di un’eredità facente parte del patrimonio collettivo, anche quando molti tendono oggigiorno a preferirgli una più conveniente dimora costruita in terra battuta e con il tetto di lamiera costruita secondo metodi d’importazione europea. Soluzione… Relativamente valida, ma che difficilmente sopravvive per gli oltre 80-90 anni di strutture come queste, garantendo inoltre un ricircolo dell’aria da piccoli fori nella parte superiore, tali da impedire l’ingresso di quantità eccessive di mosche, zanzare ed altri insetti molesti. E questo senza neanche entrare nel merito di come una casa di siffatta natura possa costituire un piacere per gli occhi di chiunque ami l’armonia esteriore nel suo legittimo contesto d’appartenenza, garantendo un’obliqua e trasversale fonte di guadagno grazie al mercato contemporaneo del turismo.
Basta in effetti giungere a destinazione nella cosiddetta Dorze Town, situata all’altitudine di circa 3.000 metri sopra la città di Arba Minch, negli immediati dintorni del lago Margherita, per essere trasportati all’interno di un mondo fuori dal tempo, che potrebbe appartenere ad epoche distanti nell’itinerario indefesso di chi è sempre stato in grado di ottenere tutto il necessario dal suo legittimo ambiente di provenienza. Dove osservare i tessitori al lavoro, con il tradizionale telaio manuale di un’antica tribù guerriera, le cui stoffe variopinte furono per lungo tempo alla base di commerci particolarmente redditizi, così come quelli praticati dall’attuale e fuori contesto negozio di souvenir. Costruito di suo conto, come tanti altri edifici del posto, secondo un preciso ed assolutamente imprescindibile piano regolatore…
tribù
L’arduo viaggio di ritorno delle insegne totemiche intagliate dalle tribù canadesi
Nel 1790 il colono del Nuovo Mondo John Bartlett, sbarcando presso il villaggio di Daidans sull’isola di Landara, vide qualcosa che l’avrebbe lasciato profondamente colpito. Una serie di case dei nativi costruite in legno di fronte alla spiaggia, ciascuna della quale presentava un ingresso ricavato da un ponderoso tronco di cedro rosso, intagliato per rappresentare il volto distorto di una persona. Invitando gli abitanti ed eventuali ospiti a fare il proprio ingresso tra le fauci di simili creature o ponderose entità sovrannaturali. Perché sembrava del tutto impossibile, in quell’epoca appesantita dai pregiudizi, che “popoli selvaggi” potessero essere in grado di costruire opere ed architettoniche tanto complesse, senza aver ancora ricevuto nessun tipo di aiuto da parte dell’uomo bianco. Una situazione, d’altra parte, molto presto destinata a cambiare, all’apertura dei commerci con le Prime Nazioni o popoli indigenti dell’attuale territorio canadese, i quali avrebbero acquistato con notevole trasporto ogni attrezzo metallico per la cesellatura del legno, atto a sostituire quelli precedentemente posseduti e costituiti in pietra, osso e affilatissimi denti di castoro. Così che entro l’inizio del XIX secolo, l’antica arte della costruzione di pali totemici, eretti da queste genti con un’ampia varietà di scopi non soltanto, né primariamente di natura religiosa, fiorì più che mai in precedenza, portando alla creazione seriale di eccezionali meraviglie artistiche capaci di mostrare una vena creativa “Paragonabile a quella dei nostri Turner e Gaugin, Van Gogh, e Cézanne.” Benché il testo rilevante del 1950 dell’etnografo Marius Barbeau, intitolato per l’appunto Totem Poles, non mancasse di notare all’interno dello stesso capitolo come si trattasse di “Un’arte ormai legata ad un passato che è scomparso da tempo, mentre l’energia culturale delle antiche tribù sta scomparendo da questa e tutte le altre regioni del mondo.” Un’affermazione ironica, tutto sommato, se si considerano i fatti storici intercorsi tra i due momenti: le dure e repressive leggi, tra cui la più famosa resta quella contro i potlach (celebrazioni collettive spesso culminanti con l’erezione di un totem) del 1867, sottoscritte entusiasticamente da parte del Parlamento Canadese con la ferma intenzione di accelerare “l’integrazione” e generosa “conversione etica” delle genti native, così da farne membri produttivi e pienamente sottomessi ai crismi della cosiddetta società contemporanea. Una vera e propria aberrazione in tal senso, forse tra le malefatte peggiori commesse durante la colonizzazione dell’America settentrionale, che avrebbe portato all’eccesso surreale delle scuole aborigene residenziali, luoghi presso cui venivano introdotte e segregate dai loro cari le nuove generazioni dei cosiddetti indiani per imporgli un’educazione cristiana e l’assoluta proibizione di dare continuità alle proprie tradizioni ancestrali. Con i trascurabili effetti collaterali di subire occasionali molestie di natura pedofila e/o perire in massa a seguito d’epidemie di tifo e vaiolo importate dalla buona, vecchia Europa. Mentre di pari passo, nei terreni di caccia, cimiteri, luoghi sacri e villaggi dei loro genitori, qualcosa di altrettanto iniquo stava portando all’innegabile furto del più prezioso avere di queste genti: gli alti pali totemici ricavati da un singolo tronco di cedro nel corso degli ultimi due secoli, nell’idea dichiarata di preservare e proteggere la loro storia “inspiegabilmente” avviata all’auto-annientamento. Così che la gente nativa di quei luoghi aveva modo di vedere con i propri stessi occhi increduli la loro storia abbattuta a colpi d’ascia, e trasportata via senza troppe cerimonie lungo il corso dei fiumi fino alle imponenti città portuali dei propri aguzzini. Sotto ogni punto di vista, l’insulto finale…
Oh grande Cahokia, metropoli precolombiana sulle sponde del Mississippi!
Un popolo di abili costruttori, sulle sponde del fiume che costituisce la fonte della loro ricchezza. Un’intensa attività agricola, in una terra maggiormente fertile di quanto si potrebbe essere indotti a pensare. Un governo centralizzato, sotto l’egida di un sovrano dal potere pressoché assoluto. Un complesso culto dei morti, inclusivo di sacrifici e sepolture di massa all’interno di tombe dalla forma piramidale. La più grande delle quali, situata sulla piazza principale dell’insediamento, presenta una pianta quadrata più estesa di quella della grande piramide di Cheope, maggiore di tutto l’Egitto. Già perché non siamo nella terra dei Faraoni, e a dire il vero neanche presso uno dei grandi imperi monumentali dell’adiacente area mesoamericana, bensì a una distanza relativamente contenuta dal territorio dei Grandi Laghi, dove quelli che furono chiamati “indiani” incontrarono i coloni provenienti dall’Europa organizzati in una confederazione di tribù nota come Illiniwek, da cui avrebbe preso il nome l’attuale stato dell’Illinois. La cui popolazione, attorno al XV e XVI secolo, risultava ben distribuita nelle terre dell’intera regione, tranne per quanto riguardava un’area che sarebbe stata chiamata dagli archeologi il “quadrante abbandonato”, grosso modo corrispondente alla città di St. Louis. Un punto dall’alto valore logistico a dire il vero, vista la vicinanza alle sponde del possente Mississippi e nel contempo, vaste pianure caratterizzate da un clima mite ed accogliente. Pianure notoriamente caratterizzate, guarda caso, da massicce collinette dalla forma trapezoidale, a intervalli equidistanti dalla sospetta regolarità geometrica e un’origine geologicamente difficile o impossibile da definire. Perché qualcuno si degnasse di notarle e interrogarsi sulla loro natura, dopo il sistematico sterminio e ghettizzazione dei popoli nativi conseguente dall’insediamento dei portatori di malattie letali quali l’influenza ed il raffreddore, sarebbe stato necessario aspettare quindi fino al 1811, occasione in cui l’avvocato ed archeologo amatoriale Henry Brackenridge scrisse un resoconto dettagliato ed alcune ipotesi sull’argomento. Di quella che avrebbe potuto costituire già sulla base dei dati da lui raccolti, una probabile città di 30.000/40.000 abitanti dell’estensione di almeno 4.000 acri risalente ad un periodo attorno all’anno 1.000 d.C, facendone effettivamente non soltanto il più popoloso centro cittadino dell’epoca al di sopra del Rio Negro (superato soltanto in seguito dall’iper-densa capitale azteca di Tenochtitlán) ma un esempio di aggregazione abitativa pari o superiore alle città di Londra e Parigi nella stessa epoca in cui raggiunse l’apice della sua influenza. Con una significativa, importantissima differenza: il fatto di appartenere sotto ogni punto di vista all’Età tecnologica della Pietra, nonché un popolo che aveva perfezionato attraverso i secoli lo strumento della trasmissione orale. Al punto di non aver lasciato alcun tipo di testimonianza scritta relativa alla propria cultura, i propri meccanismi sociali, le proprie aspirazioni. Tanto che del misterioso sito non avremmo mai potuto conoscere neanche il nome, motivando l’adozione da parte di Brackenridge e successori dell’appellativo per lo più arbitrario di Cahokia, dal nome della singola tribù maggiormente prossima a questi luoghi nell’epoca del primo contatto con la confederazione degli Illiniwek. Quando ormai l’omonimo centro era disabitato da generazioni, a fronte di un rapido abbandono situato cronologicamente attorno all’anno 1350, per ragioni che restano tutt’ora largamente indeterminate. Non che tale evento pregresso sarebbe dispiaciuto in alcuna misura ai detentori del presunto destino manifesto, fermamente intenzionati a trarre il massimo beneficio da una “terra incontaminata” fatta eccezione per i fori delle tende di tribù nomadiche, nell’opinione delle moltitudini del tutto incapaci di costituire alcun tipo di duratura civiltà materiale…
L’enorme serpe cosmica dei primi costruttori di geoglifi americani
Serpe, serpe delle mie brame, puoi dirmi qual è il destino del reame? Ove soggiace l’implacabile speme? Sotto il pietrame ed ogni traccia di legname, ove potemmo sacrificare il bestiame… A ridosso del possente fiume. Così chinandosi, la testa parallela al suolo, gli occhi spalancati ed ogni aspetto della propria postura configurata in quell’atteggiamento che taluni erano soliti chiamare “stupore e tremori” gli anziani e i capi del villaggio si approcciarono al sito sacro non troppo distante dalla valle del Mississippi. Dove l’antica stella era caduta, lasciando tracce chiare della sua imponenza, tali da rialzare i bordi di un cratere ma anche dare forma a un altopiano centrale. Il luogo ideale, tra tutti, per raffigurare l’immagine suprema di un’oscura divinità. Non un geco e neanche una tartaruga, i due rettili impiegati come talismani dalle madri, rispettivamente dedicati a un figlio maschio ed una figlia femmina, bensì quell’essere spiraleggiante ai primissimi confini della Creazione. Che divorando per la prima volta l’uovo cosmico, diede la possibilità alle genti della Terra di tentare l’estensione della propria fortuna. Le genti della cultura di Fort Ancient avevano del resto una profonda capacità d’osservazione del paesaggio, le creature e lo scenario sempre ripetuto dell’irraggiungibile volta celeste. Tale da notare, ogni volta in cui se ne presentava l’opportunità, l’occorrenza di fenomeni imprevisti come il timido bagliore di una supernova o l’arco disegnato dal passaggio di una cometa. Entrambi eventi verificatosi a soli 16 anni di distanza a partire dal 1070 d.C, quando secondo molti studiosi potrebbe essersi verificato l’importante evento capace di dare i natali ad uno dei luoghi maggiormente memorabili dello stato dell’Ohio e potenzialmente gli interi Stati Uniti.
Situato al giorno d’oggi non lontano dal lago di Rice nella contea di Peterborough in corrispondenza di un antico astrobleme (luogo d’impatto meteoritico) il Grande Tumulo del Serpente si presenta come una sostanziale opera in rilievo di terra e pietra della lunghezza di 411 metri, raffigurante una creatura longilinea e priva di zampe dalla coda attorcigliata in un’ipnotica spirale. E la sua testa nell’opposta estremità, con le fauci totalmente spalancate, intenta nelle prime battute della laboriosa fagocitazione di un’imponente oggetto ellittico, probabilmente il guscio aviario di un futuro e sfortunato pulcino. Creazione compatibile con la reputazione di questa cultura sofisticata, capace di creare opere di terracotta complesse ed operare la lavorazione del rame, ma soprattutto costruire un’ampia e diversificata quantità di monumenti funebri, spesso costituiti da edifici in pietra ricoperti di terra che a sua volta dovrà sorreggere un ulteriore edificio, a distanza di generazioni ricoperto da altra terra e così via a seguire. In una sorta di celebrazione ricorsiva dei propri preziosissimi antenati, benché la finalità ed aspetto del tumulo in questione sembrerebbe aver posseduto un significato e funzionalità nettamente distinte…