Quando la giornata si prospetta lunga è meglio alzarsi presto, perché come dice il celebre proverbio in lingua inglese: “L’uccello mattutino prende il verme.” E amico, tu lo vuoi l’anellide, tu desideri il lombrico! O metaforico tesoro che qui sottintende, caso vuole, un posto vuoto dove posteggiare l’automobile in un mar d’immobile metallo, gomma e vetro. Ed è allora quando guidi, tra l’indifferenza generale, fino al luogo in cui avrà a svolgersi la Cerca quotidiana, che qualcosa tenta di distrarti dall’intento generale: come un suono, il sibilo e lo spostamento nero, di quell’aria smossa da un prestante paio d’ali e quindi un’altro, e un’altro ancora. Sono uccelli cittadini, alati urbani che affrontano serenamente gli alterni casi della vita aviaria. Eppur d’un tratto, c’è qualcosa di diverso: poiché il fiume delle piume non si ferma e ne continuano a venire, ancòra e ancòra (e ancòra). Impossibile, da prevedere. In qualche punto del tragitto in macchina, devi aver varcato casualmente uno Stargate texano. Per trovarti casualmente, in mezzo alla venuta stagionale dei grackle birds.
Corvi? Merli? Piccole cornacchie? Nulla di tutto questo: perché come l’abito non basta a fare il monaco, non è il colore delle penne a definire la famiglia tassonomica di un animale. Essendo quei chiassosi volatori, nello specifico, dei rappresentanti atipici del gruppo degli itteridi, sotto-categoria (o per meglio dire, genere) Quiscalus, originario ed esclusivo del cosiddetto Nuovo Mondo. Laddove ciò che sembrano rappresentare, nel cielo nostrano d’Europa, i gruppi di storni, questi passeriformi altamente gregari riescono perfettamente a riprodurlo nell’intero continente americano, ma particolarmente in Messico e Texas, luoghi ove riescono a trovare l’ambiente più gradevole, sia dal punto di vista climatico che delle fonti di cibo. Poiché questi uccelli, chiamati a volte “gracule” in lingua italiana (benché tale termine venga usato di preferenza per gli sturnidae parlanti del sub-continente indiano) appartengono a quel gruppo di volatili che non soltanto si sono perfettamente adattati a condividere gli spazi con il vasto consorzio della società umana; bensì addirittura, a sfruttare i suoi sprechi e disattenzioni a proprio eccezionale e imprescindibile vantaggio; come esemplificato da questo video realizzato presso il parcheggio di un centro commerciale a Houston, Texas, in effetti l’ultimo di un’interminabile serie, in cui oltre un migliaio dei nostri amici calano, come un’orda mongola, sopra le automobili, le teste e soprattutto i cassonetti prodotti da fasce relativamente impreparate della popolazione locale. Poiché sarebbe difficile, in una tale situazione, non evocare immagini appartenenti ad un particolare esempio di cinema di genere, prodotto da un maestro del settore e proprio per questo, diventato ormai da lungo tempo un cult…
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L’intera spedizione fatta passare per la cruna di un ago
Breve flashback verso il cinema degli anni ’90: Arnie androide che scompare nell’acciaio fuso, con appena il tempo d’inforcare un’ultima volta il suo fido paio d’occhiali da sole. Il braccio sollevato verso il cielo, ultima testimonianza della sua presenza, mentre nella fabbrica riecheggia il suo saluto programmatico e per certi versi preoccupante, vista la genesi di tale situazione: “I’ll be back – Tornerò.” Eoni incalcolabili, intere epoche, secoli o persino una generazione o due, sono passati da quel giorno impresso eternamente nella cellulosa. Intere civiltà cadute nella polvere, mentre dalla forgia della storia ne sono comparse di nuove. Della vecchia acciaieria non v’è più traccia, rimpiazzata da un solido zoccolo di roccia calcarea che si estende fino all’orizzonte texano. Totalmente Compatto tranne l’eccezione di un singolo buco, da cui adesso, faticosamente, sbuca un braccio, almeno all’apparenza umano! Subito seguito da una spalla, sopra cui campeggia una maglietta giallo paglierino. E stretto in quella mano, non v’è dubbio alcuno: il paio di Ray-Ban o simili, perfettamente lucidi, perfettamente riflettenti, che al termine di Terminator 2 facevano la fine incandescente del loro stesso proprietario! Si sente allora fuori dall’inquadratura “Grazie, Tom. Sapevo di poter contare su di te.”
Pipistrelli, cavallette, ragni delle tenebre senza riposo. Il campo della telecamera si allarga, ed è allora che s’inizia d’improvviso a intendere e la verità: poiché quell’uomo non è solo, bensì circondato da un gruppo d’amici che almeno stando alla didascalia, sembrerebbero aver deciso di coniare il termine cave cred. Ovvero quella cognizione, estremamente specifica e davvero personale, per cui la speleologia è un fine che spesso s’identifica col viaggio. E che ben prima dell’arrivo, trova la motivazione della sua stessa esistenza. Come potremmo mai spiegare, altrimenti, una scena come questa? L’intero gruppo di sette amici tra cui Bennett Lee autore del canale, sanzionati ufficialmente col permesso della TCMA (Texas Cave Management Association) per visitare autonomamente il territorio della riserva Deep & Punkin, verso le tenebre dei più profondi abissi sottostanti. E che hanno scelto di passare oltre quel valico, non dal punto d’ingresso principale, una voragine larga tre metri che si trova a qualche metro di distanza dal teatro del qui presente video. Bensì nel più piccolo, angusto, scomodo buco tenebroso spalancato verso il solleone nordamericano, dal diametro di circa 80-90 centimetri. Appena sufficiente a far passare un cranio, due spalle e qualche volta un paio di sporgenti natiche umane. Ed è palese che dinnanzi ad una simile sfida (cosa non si farebbe per il cred – un’ottima reputazione) ognuno tenda ad adottare il suo stile: chi s’insinua lentamente, un singolo arto alla volta. E chi invece scende a pié veloce, o addirittura a capofitto, nell’assoluta e potenzialmente immotivata certezza che dall’altro lato, ci sia qualcuno pronto a prenderlo al volo. Ma è il senso dell’ignoto e l’incertezza di cosa possa trovarsi oltre, in ultima analisi, a mettere in moto il nostro sentimento innato di claustrofobia…
L’essenza taurina del Texas riassunta tra le corna di un bue
Nella gerarchia diabolica dei cerchi che ricevono i peccatori del mondo, la lunghezza delle corna può costituire un importante indicatore per lo status di chi ha il compito di amministrare ricompense & punizioni (soprattutto le seconde) tra gli stimati ospiti di tali occulte profondità. Diavoli simili a mufloni, antilopi, orici o stambecchi della Nubia. Qualche cervo, all’occorrenza… Ma c’è un solo tipo di creatura, nell’iconografia che si perpetra lungo i secoli, per Belzebù in persona, Satanasso ovvero il grande dirigente o manager di quest’azienda: l’esemplare maschio del bovino addomesticato, perfetta rappresentazione della massa muscolare, l’imponenza, la presenza di un’inamovibile possenza. Colui che tira innanzi il grande carro degli eventi, indipendentemente dal fatto che il campo sia già stato arato, oppure no (coperchi? Non fatemi ridere, per piacere!) D’altra parte esistono, per vasta cognizione acquisita, diavoli buoni o cattivi, dediti all’una, oppure l’altra strada di quel bivio che costituisce la struttura largamente artificiale del pensiero umano. E non che credo che molti potrebbero conservare alcun tipo di dubbio, su quale sia la strada intrapresa da Poncho Via di della cittadina di Goodwater, Alabama, forma tangibile o vera e propria personificazione di un tale personaggio, per quanto ci è dato di comprendere dalla larghezza del suo ineccepibile “manubrio cranico”: 323.74 centimetri che corrispondono, tanto per usare le metafore ufficiali, a due pianoforti a coda formato baby uno di seguito all’altro, oppure al volto della Statua della Libertà, quella Lady che da sempre viene sopravvalutata nelle proprie dimensioni tangibili, più che altro per la potenza simbolica delle sue forme.
Bovino che con il rivoluzionario messicano Pancho Villa assassinato nel 1923, grande generale e trionfatore di molteplici battaglie contro i Costituzionalisti, ha ben poco da spartire tranne l’assonanza del nome, data l’indole straordinariamente pacifica e bonaria, incapace di nuocere in qualsiasi modo salvo il presentarsi di possibili incidenti, come quando uno dei suoi padroni e allevatori si trovava accanto a lui a pescare, e per il gesto istintivo di scacciare via una mosca, finì per spingerlo col palco impressionante direttamente dentro l’acqua dello stagno. Il che tra l’altro, rientra totalmente nell’analisi etologica del Texas Longhorn, bovino simbolo dell’eponimo stato nonché razza nota per l’indole mansueta che la rese straordinariamente adatta, assieme alla capacità di resistere agli sforzi e la siccità, per percorrere le molte centinaia di miglia, a partire dal 1860, dei grandi traslochi di mandrie dal più vasto e povero degli stati verso il facoltoso settentrione, facendo la fortuna di quell’intera categoria sociale, che oggi siamo soliti riassumere nell’iconica figura americana del cowboy. Ma questa, come si dice, è tutt’altra storia…
L’indissolubile legame che avvicina la tarantola alla rana
Sstrisciando ssilenziosamente, il sserpeggiante predatore sstava per colpire la sua vittima predesstinata. La ranocchia che friniva, sopra un ramo in terra ai margini della radura, inconsapevole di quanto ciò corrispondesse a render nota la sua posizione e conseguentemente, avvicinare la fatale ora della rettiliana fagocitazione. Per un solo istante e quello successivo, quindi, il ripetuto suono: rattle-rattle… rattle, rattle. Di un sonaglio suggestivo, per il modo in cui quel sanguinario si apprestava a pregustare il pasto saltellante, troppo stanco, oppure troppo innamorato per fuggire. Mentre il locale crotalo, pochi centimetri alla volta, allargava la sua bocca fino al diametro appropriato, 3 o 4 cm, non oltre, per farci passare quell’anuro soave. O almeno, questo è quello che sembrava stesse per succedere; poiché nel mentre che il carnefice si raccoglieva su se stesso, con la lingua biforcuta in vista e poco prima di colpire all’indirizzo della piccolina, la creatura sopra il ramo fece un lieve balzo, come richiamata dalla forza gravitazionale di un vicino pianeta, nel chiaro tentativo di portare a casa e in salvo la sua pelle bitorzoluta. “Ah, patetica illusa!” una spira dopo l’altra, sembrò pronunciare l’assassino sanguinario, veloce come un torrente in piena, ben sapendo che nel giro di pochi secondi l’avrebbe avuta, per raccogliere il suo premio delizioso. Se non che, saltando all’improvviso in direzione trasversale, l’esserino sembrò a un tratto scomparire nella sua buchetta. “Sei mia! Sei… Mia?” Sserpentile ssorpresa, ci puoi credere? A quell’ombra che riemerge, trasformata: un mostro? L’incubo con otto zampe? Dell’anfibio a questo punto, non v’è traccia. Mentre innanzi agli occhi spalancati dell’aspirante torturatore, pone lievemente a terra le appendici ricoperte di affusolati peli, coi cheliceri snudati e ripieni di veleno, il dorso in alto e gli occhi fissi senza un briciolo di umanità residua! Orribile, orribile trasformazione… Aphonopelma hentzi, la tarantola marrone del Texas: 12 cm di lunghezza, abbastanza da creare lo sconforto dentro al cuore di chi è coraggioso con i deboli, ma pavido, se gli conviene. Soltanto pochi attimi la serpe esita, prima di tracciare un solco ad U nel sottobosco, per tornare esattamente nella direzione da cui era venuta. Ed è quello l’attimo preciso, il fatale e indiscutibile momento, in cui si ode nuovamente l’insistente gracidìo. Stranamente carico di sottintesi, e un po’ beffardo, molto più di quanto lo sembrasse al primo volgere di questi eventi.
Gastrophryne olivacea è il suo nome, o rospetto bocca-stretta, di un anfibio con l’areale che si estende dalla parte meridionale degli Stati Uniti fino al Messico, il cui stile di vita include una specifica risorsa, non del tutto ignota nel regno animale. Quello di associarsi, in modo semplice e incruento, ad un specie molto più terribile o pericolosa di lui/lei, per beneficiare dell’inerente protezione che deriva dall’essere amico di un mostruoso satanasso invertebrato. Il ragno migalomorfo succitato, il quale apparentemente risulta solito riuscire a tollerare i suoi gracchianti richiami, secondo quanto ampiamente noto alla comunità scientifica fin dal 1936, grazie allo di un naturalista di nome Blair, citato nel 1989 dai suoi colleghi Reginald B. Cocroft e Keith Hambler mentre annotavano lo stesso atteggiamento tra una rana e un ragno peruviano (vedi a seguire). E particolarmente celebre su Internet, grazie all’immagine memetica dall’alta circolazione facebookiana, riportata al termine di questo articolo, che descriveva tale scaltra approfittatrice come “l’animale domestico” del mostruoso ragnone, nell’approssimazione ragionevole della trama di un cartoon. Laddove largamente pronte a rincorrersi tutt’ora, sembrano essere le ipotesi su cosa, effettivamente, leghi assieme le due tipologie di creature…