Un artiglio porto dal minuto formichiere per cambiare il triste fato della tigre tasmaniana

Nei diari scritti all’epoca dal celebre studioso della cultura aborigena George Fletcher Moore, tra i primi coloni d’Australia, è possibile leggere in corrispondenza del giorno 22 settembre 1831 presso la valle del fiume Avon: “E poi vedemmo un magnifico animale; ma, mentre scappava nel cavo di un albero, non fu possibile accertare se si trattasse di uno scoiattolo, una donnola o un gatto…” E il giorno successivo, nel suo racconto di una grande spedizione naturalistica sotto il comando dell’esploratore Robert Dale: “Ne abbiamo inseguito un altro esemplare fino alla sua tana, dove l’abbiamo catturato. Dalla lunghezza della lingua pensiamo possa trattarsi di un formichiere. Ha strisce bianche e nere sulla schiena; misura circa 12 pollici (30 cm)”. Ma difficilmente osservando il suo rudimentale disegno, incluso ai margini della narrazione, avrebbe potuto rendere l’idea, per chi non lo conosceva direttamente, dell’aspetto strano e strabiliante di quello che cinque anni dopo avrebbe ricevuto l’appellativo scientifico di Myrmecobius fasciatus, sebbene non mangi affatto formiche bensì termiti e tutti siano oggi soliti chiamarlo più semplicemente numbat, dal suo nome aborigeno e per una possibile analogia con il ben diverso marsupiale wombat (Vombatidae) con cui risulta d’altra parte imparentato soltanto molto alla lontana. Laddove la sua specifica collocazione all’interno della famiglia dei dasiuridi o “topi marsupiali” lo colloca nel grande albero della vita, quasi paradossalmente, come creatura vivente più vicino ad una delle più rinomate e compiante vittime dei multipli progressi d’estinzione dell’Olocene: il povero tilacino, T. cynocephalus o tigre tasmaniana. Dal che un’idea, senz’altro avveniristica, pubblicata in questi giorni dall’Università dell’Australia Occidentale grazie al laboratorio Aiden della Scuola Baylor di Medicina (BCM) capace di sfidare l’immaginazione letteraria di un romanzo sulla falsariga del celebre Jurassic Park. In senso pratico e assolutamente letterale: creare geneticamente dal nulla un essere scomparso dal pianeta Terra. Grazie al DNA imperfetto ricostruito da un esemplare preservato nel museo di Victoria, completato e perfezionato da una fonte certamente imprevista. Ed è qui che entra in gioco il piccolo formichiere incontrato da Moore, due secoli dopo anch’esso a rischio d’estinzione con appena 1.000 esemplari allo stato brado e tutti concentrati in una parte minima del suo antico areale. Perché grazie alla nuova mappa creata del suo genoma, con strumenti moderni, efficienti e precisi, si giunti alla sorprendente conclusione di un codice effettivamente identico a quello del suo defunto cugino per un buon 95% del totale. Ovvero abbastanza da poter dare in pasto ai tecnici delle sofisticate tecnologie CRISPR, basate sulle manipolazione batterica, capaci di modificare ed instradare il normale sviluppo genetico di una creatura. Il che ci porta all’incombente possibilità futura, analoga a quanto sta per accadere nell’ibridazione e conseguente ritorno del mammut con l’elefante asiatico, a una possibilità superiore allo zero di poter riuscire a “de-estinguere” un essere che avevamo dato per perduto ormai all’umanità. Qualcosa di al tempo stesso esaltante e ecologicamente utile, per il ruolo un tempo avuto dal più grande ed importante tra i carnivori dell’intero continente d’Oceania…

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Anatre che sembrano George Washington: il film

Noi, Popolo degli Stati Uniti, allo Scopo di realizzare una più perfetta Unione, stabilire la Giustizia, garantire la Tranquillità interna, provvedere per la difesa comune, promuovere il Benessere generale ed assicurare le Benedizioni della Libertà a noi stessi ed alla nostra Posterità, promulghiamo qui il diritto d’ognuno ad acconciarsi la capigliatura come più lo aggrada. Con parrucca o senza, lunghi, corti e spettinati, affinché persino la calvizie sia un diritto inalienabile, come ultimo destino dell’Uomo. Eppure forse non è un caso, se attraverso la galleria dei primi presidenti di questo grande paese, i ritrattisti del periodo avessero potuto sbizzarrirsi, nel rappresentare l’ampia fronte e quelle chiome splendide e fluenti, alte, folte, inclini a suddividersi come il Mar Rosso innanzi a un’aria imprescindibile di nobiltà. Quando si considera come fu il primo, in ordine di tempo e forse pure d’importanza, a promuovere un modello degno di essere d’esempio alla posterità. Giorgio il generale, il solo ed unico Re Giorgio, come avevano iniziato a definirlo verso il termine della sua guerra, dopo le molte tribolazioni necessarie a soverchiare l’inflessibile potenza dell’Esercito Inglese. E chi non ricorda di aver visto con i propri stessi occhi, ed un onirico realismo, quel momento in cui egli scese dal suo podio di granito indistruttibile, restituendo l’autorità assoluta al popolo ed ai suoi ideali, come altri condottieri con lo scettro del potere assoluto, all’altro lato dell’Atlantico, non avrebbero saputo fare allo stesso modo. Eppur fu proprio quel gesto, più di qualsiasi altro, a cementare e rendere indelebile la sua corona. Un ornamento fatto di capelli: quanti, e per quanto tempo dissero che fosse stata una parrucca. Ma la verità dei fatti era all’opposto. Ed ecco, gente, la mia prova.
Un’anatra ciuffata nella formale definizione genetica della sua razza, creata in tempi non del tutto chiari nella storia dell’allevamento aviario, sarebbe un tipico esponente della specie anatide chiamata Anas platyrhynchos, se non fosse per l’eponima caratteristica sulla cima della propria testa dalle candide piume: talvolta fluente, certe altre tondo e denso come un afro giamaicano, eppure nella maggior parte delle circostanze pieno e morbido come la neve, raccolto sulle tempie e rovesciato in direzione dell’altissima nuca. Di un uccello che in natura non sarebbe mai potuto esistere, per la sua esistenza garantita dalla mutazione di un particolare gene, relativo alla forma del cranio e il contenuto stesso nell’intercapedine tra quest’ultimo e la massa cogitativa all’interno. E se tutto ciò dovesse sembrarvi pericoloso, vi garantisco di non essere troppo distanti dalla verità: poiché per avere un’anatra che sembri, veramente, il primo presidente degli Stati Uniti d’America, è necessario porre in secondo piano un’ampia serie di considerazioni etiche, ormai del tutto date per scontate da una prassi che risale almeno al 17° secolo. Ma potrebbe anche essere molto più antica di così. Prima dell’analisi statistica, prima del metodo scientifico, a chi sarebbe mai potuto venire in mente, d’altra parte, di contare il numero di uova in grado di raggiungere il momento della schiusa, a discapito di tutti quegli embrioni di pulcino destinati, tristemente, a perire durante la formazione della loro stessa e maggiormente imprescindibile essenza. Sto parlando, al fine d’essere più chiari, di una di quelle particolari varietà di animali domestici apprezzate in tutto il mondo (come avviene a gatti, cani…) la cui storia personale è fatta di problemi fisici fatti passare convenientemente in secondo piano. Quelli derivanti da una formazione impropria o in qualche modo incompleta della calotta ossea cerebrale, per non parlare della massa grassa che può derivare da una simile eredità genetica. Sufficiente a compromettere le funzionalità motorie di base. Detto questo occorre realizzare come dall’accoppiamento tra due anatre di cui una vanta quel ciuffo (raramente, usarne due è una scelta responsabile) è stimato che in media il 25% risulteranno omozigote nell’allele pertinente, morendo ancor prima di riuscire a vedere a luce. Il 25% avranno un’eredità piumata del tutto “normale”. Ed il restante 50%, eterozigote ovvero dotate di un gene parzialmente mutato, presenteranno un esempio variabilmente apprezzabile della particolare cresta così apprezzata. Un piccolo prezzo da pagare… Un piccolo prezzo?

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Amore di una mongolfiera: trovato marito per la materna balena dei cieli

Ogni città ha il suo simbolo, un punto di riferimento dall’alto grado di visibilità internazionale custodito nella memoria collettiva geografica, capace di costituire un formidabile pretesto per coloro che desiderano viaggiare per conoscere, scoprire e approfondirne il paese. Per alcuni luoghi si tratta di antichi monumenti, per altre di moderni grattacieli, mentre luoghi come Dubai possiedono una letterale cornucopia di meraviglie futuribili e del tutto prive di un contesto. La capitale australiana Canberra, luogo stranamente poco conosciuto da chi abita fuori dalle sue immediate vicinanze, vanta dal suo centenario del 2013 una grande tartaruga fluttuante piena d’aria calda, dal volto sereno e l’indole pacifica, ornata da cinque seni penduli per lato, dall’aspetto stranamente e sorprendentemente umano. Creatura surreale e che potremmo definire assolutamente aliena, se non fosse per l’evidente senso d’empatia e cordialità che riesce ad emanare, come avviene del resto per molte delle opere della sua creatrice, l’artista originaria della Sierra Leone Patricia Piccinini, famosa per la grande quantità di statue iperrealistiche vagamente riconducibili al mito letterario dell’isola del Dr. Moreau. “La scienza è andata troppo oltre?” Recitava un famoso banner pubblicitario dell’inizio degli anni 2010 chiaramente mirato a shockare i navigatori del web, con la figura sottilmente inquietante di quella che avremmo potuto definire come una vera e propria donna-cane sdraiata a terra, totalmente glabra e di colore rosa chiaro, dalle grandi orecchie, il naso largo ed un’espressione simile alla preoccupazione materna. La cui nudità, in effetti, trovava ampia giustificazione nei tre cuccioli/bambini intenti a prendere il suo latte, nella versione surreale di un vero e proprio quadretto di famiglia meta-umana. Nient’altro che un’appropriazione indebita, in effetti, e totalmente senza alcun permesso dell’autrice, di una delle sue opere di maggior impatto visivo e facente parte della sua mostra del 2003 “We Are Family” con un messaggio ed un significato simili, all’origine, alla svolazzante mongolfiera Skywhale.
O forse sarebbe più appropriato, al giorno d’oggi, parlarne al plurale? Da quando a febbraio di quest’anno, completando un lungo percorso di autorizzazioni cittadine, preparazione tecnica e lavorazione attentamente coordinata, la notevole creatura si è guadagnata anche un suo partner a tutti gli effetti, definito dall’artista in modo alquanto semplice come Skywhalepapa, benché notevoli distinguo vadano attribuiti rispetto all’antecedente creazione ed il tipo di messaggio veicolato nel suo complesso. Posizionato in modo prettamente verticale e insolito per una simile tipologia d’aeromobile, comportando ulteriori complicazioni dal punto di vista ingegneristico, la notevole figura vanta infatti un paio di braccia dall’aspetto muscoloso, sotto le quali ospita una serie di piccoli della sua specie aerea ben protetti da qualsiasi tipo di minaccia e intenti ad osservare attentamente il panorama. Figli suoi, della pettoruta controparte o altri membri di quel branco immaginifico e volante, non è in effetti specificato e la stessa artista si preoccupa d’evidenziarne la qualifica indefinita, perché le due opere non vengano considerate una rappresentazione del concetto di famiglia in quanto tale, bensì quello di un’istinto protettivo verso le nuove generazioni, che risulti essere del tutto universale per qualsiasi gruppo di animali a noi noti. In tale qualifica, Skywhale e il suo consorte s’inseriscono in una poetica comunicativa che è al centro stesso della missione d’artista di Patricia Piccinini, preoccupata non soltanto da questioni relative all’evoluzione delle specie ed il transumanismo, ma anche e soprattutto dal portare l’attenzione del suo pubblico a quel senso d’empatia che è una delle regole fondamentali di ogni tipo d’interrelazione con altri esseri viventi, non importa quanto strani, diversi o inumani nei loro comportamenti e storie personali pregresse. Una visione che potremmo definire estremamente utile, in questo mondo in cui il profitto immediato domina sopra il bisogno di tenere vivo e florido il grande albero dell’Esistenza…

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Nuova indagine arricchisce la famiglia della puzzola capace di fare la verticale

Una visione in grado di colpire certamente il visitatore occasionale di un tale ambiente: piccoli uomini vestiti in bianco e nero, piccoli uomini che camminano oscillando nella foresta, girati rigorosamente verso l’altra parte. Individui dalla folta parrucca spettinata, le braccia aperte a salutare il sole (o la luna) una sorta di piccola coda triangolare. O almeno tale descrizione rappresenta l’impressione temporanea che se ne può trarre, finché non ci si avvicina eccessivamente per indagare la creatura molto evidentemente aliena, trovandosi di fronte ad una bizzarra trasformazione. Mentre questa si sposta minacciosamente in posizione quadrupede, trasformando e rivelando l’effettiva entità morfologica della questione: la parte davanti e quella dietro momentaneamente confuse, poiché puntano entrambe nella stessa direzione, che poi sarebbe la stessa di colui che ha scelto di frugare abusivamente all’interno di un simile ambiente. Soltanto momentaneamente perplesso, giusto il tempo di comprendere la situazione di pericolo! Poiché quella che si trova molto evidentemente innanzi, a partire da quel momento tremulo e ringhiante, si rivela all’improvviso per ciò che è davvero: una delle più piccole, ma cionondimeno inferocite, puzzole del continente americano. E se è vero che nella botte piccola c’è il vino buono, è ancor più rilevante tale aspetto nel caso dell’intero genere Spilogale (dal latino “donnola a pois”) le cui celebri ghiandole perianali, direzionabili come fossero bocche da fuoco dell’epoca Rinascimentale, possono lasciare scaturire una miscela di tioli (o mercaptani) molto meno diluita rispetto a quella della più comune moffetta striata, riservando alla sua vittima un fetore del tutto sconosciuto alla flebile mente umana. Ma se davvero simili creature possono costituire un simile terrore per ogni essere dotato del senso dell’olfatto, perché camuffare temporaneamente il proprio aspetto? La risposta, come spesso capita, è nel funzionamento non sempre razionale dei processi istintivi messi in opera dalla natura.
Chiunque abbia avuto incontri ravvicinati di un comparabile tipo conosce, del resto, il tipico atteggiamento del Mephitidae soggetto a fonti di minaccia esterno, con le zampe davanti ben piantate a terra e la coda sollevata verso il cielo, come una sorta di stendardo da guerra all’indirizzo dell’arrogante rivale. Quello che perciò deve essere accaduto nei trascorsi di questo particolare gruppo di specie poco più imponenti di un grosso scoiattolo (35-45 cm) è che attraverso l’inarrestabile processo di selezione, proprio gli esemplari capaci di apparire più grandi riuscissero ad ottenere i risultati maggiormente validi a salvarsi la vita. Portando i piccoli carnivori ad alzarsi progressivamente più in alto, e in alto ancora. Smentita dunque l’iniziale ipotesi che tale posa potesse servire a proiettare il fluido per l’autodifesa contro i bersagli distanti, vista la maniera in cui la posizione con tutte e quattro le zampe a terra risulti comunque preferita durante l’attivazione del meccanismo, la personalità delle cosiddette puzzole a pois ha iniziato ad assumere confini più chiari, da quella di acrobati circensi soltanto successivamente passati allo stato brado, a ragionevoli esecutori di una metodologia comprovata. L’aposematismo, dopo tutto, non è un’opinione… Aprendo la via ad un altro possibile significativo margine d’errore. Nonostante stiamo nei fatti parlando di un genere suddiviso tradizionalmente in quattro specie distinte, l’ultima delle quali classificata nel 1902, un gruppo di scienziati appartenenti all’Università di Chicago, l’Istituto dello Smithsonian e vari centri di conservazione biologica hanno lanciato alla fine dello scorso luglio un’avventurosa ipotesi: che la suddivisione precedentemente data per buona non potesse aver tenuto conto degli approfonditi dati genetici da loro raccolti, dopo il lungo periodo trascorso a raccogliere ed analizzare esemplari provenienti da tutto il paese, fino alla pubblicazione del rilevante studio sulla rivista Molecular Phylogenetics and Evolution. Tale da aumentare a ben sette, il numero complessivo delle specie individualmente distinte, motivando in maniera ancor più significativa l’adozione urgente di nuove misure di conservazione naturale. Questo perché, neanche a dirlo, la stragrande maggioranza di queste creature rientra a pieno titolo nei parametri del rischio d’estinzione incipiente…

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