È stato affermato, da generazione di filosofi, studiosi e scienziati, che i Tre Esseri Pellucidi (ovvero semi-trasparenti) della somma Trinità taoista siano del tutto privi di forma, e quindi impossibili da identificare. Ma nessun tabù, attraverso la storia della Cina, è mai stato emanato in merito alla creazione di un loro ritratto. Yuanshi, l’Immortale di Giada; Lingbao, l’Universalmente Onorato tra tutte le divinità e i tesori; Daode, Somma Purezza, personificazione trascendente del più saggio tra gli umani (Laozi): secondo la reiterata opinione degli antichi popoli, tre distinti uomini di mezza età, di cui soltanto il terzo sufficientemente anziano da possedere quel segno di suprema sapienza, una lunga barba bianca appuntita nello stile di Gandalf o mago Merlino. Ma nel corso delle generazioni, a seconda delle necessità delle alterne dinastie, essi hanno acquisito molti altri aspetti: quelli di guerrieri, imperatori celesti, condottieri dei popoli e sommi amministratori. O per Song Peilun, il visionario possessore di un ampio appezzamento di terra nella verdeggiante valle di Yelang, nella regione meridionale cinese di Guizhou, gigantesche teste di pietra, con lo sguardo fisso verso l’orizzonte. Che cosa staranno scrutando, i loro occhi granitici, sostenuti da vertiginose cataste di blocchi tenuti assieme dal solido cemento? E che dire degli altri infiniti Dei e Spiriti eretti per fargli compagnia…. Sarebbe in effetti scusato, il visitatore esterno di questi luoghi, se dovesse credere momentaneamente di essere stato trasportato in un altro regno o paese, tra i ponderosi resti di un’antica civiltà costruttrice di monumenti di tipo religioso, vedi i Maya, gli Incas o il popolo degli Khmer. Ma non c’è niente di realmente antico, negli straordinari bastioni ornati da statue di questo castello, costruito dalle maestranze locali sotto la guida, non sempre così stringente, di questo personaggio decisamente fuori dal comune. Eppure nessuno potrebbe affermare che manchi di quella preziosa scintilla, un remoto grado di autenticità.
Si racconta che l’origine dell’idea sia venuta, a costui, durante un viaggio negli Stati Uniti effettuato in giovinezza, durante il quale ebbe l’occasione di vedere coi propri occhi la statua incompleta di Cavallo Pazzo nel Sud Dakota, il progetto iniziato negli anni ’40 dallo scultore Korczak Ziolkowski per emulare i quattro volti presidenziali del celebre e non troppo distante Monte Rushmore. Un monumento tanto affascinante, ai suoi occhi, da portarlo a chiedersi se non fosse possibile onorare in maniera simile le antiche etnie del suo distante paese. E in particolare il popolo spesso bistrattato dei Tujia, dal quale aveva sempre ritenuto discendere se stesso e il resto della sua famiglia, originaria della Cina centro-meridionale. Fu così che, esattamente al culmine di una lunga carriera di docente universitario e designer, decise di andare in pensione, abbandonando per sempre quella vita urbana che aveva sempre trovato scomoda e inadatta a lui, per andare a vivere tra le montagne come fatto dai suoi antenati e mitici ispiratori: quegli eremiti taoisti totalmente slegati dal concetto di razionalità, che danzando sulla cima dei picchi montani, elaboravano a giorni alterni le più supreme ed eterne verità. E tutto questo, attraverso il tramite di una dottrina, o per meglio dire una religione, ormai relegata in molti luoghi ai libri di storia e le antologie folkloristiche compilate dagli studiosi: il culto del Nuoismo, spesso associato all’esorcismo degli spiriti malvagi che infestano questo mondo. Secondo cui, all’origine di ogni umano su questo pianeta, esistevano due capostipiti, Nuogong e Nuopo (Lord e lady Nuoh) prima che incolpati ingiustamente dall’Imperatore del Cosmo di una immaginaria trasgressione, venissero decapitati, sacrificandosi per permettere alla loro discendenza di sopravvivere e prosperare. Discendenza tra cui figuravano i già citati Tre Esseri, ma anche gli dei patroni del Cielo (Fuxi, il primo cacciatore ed addomesticatore di animali) della Terra (Nuwa, la donna serpente della creazione) e dell’umanità (Shennong, inventore della medicina) per non parlare delle cinque Direzioni Cardinali, associate ad altrettanti colori, e il Dio che Risiede sul Trono, ovvero di volta in volta, la somma figura politica del territorio cinese. E costoro figurano tutti, in una forma o nell’altra, tra gli altri bastioni di questo tentacolare edificio, il misterioso castello nella valle di Song Peilun…
costruzioni
Il modo più rapido per trasformarsi nell’omino della Lego
Mentre ogni settimana le notti si allungano, e il tepore autunnale inizia a dissiparsi trascinato via dai venti della nuova stagione, i giorni di ottobre avanzano rapidamente verso il giorno cardine di una particolare serie di credenze. Che sia Halloween, Ognissanti, oppure il Dia de los Muertos, non importa quanto il brivido che ha origine da profondo del cuore, per estendersi fino alla punta delle dita dei piedi umani. Quando il significato dell’attesa cambia, e persino gli alberi sembrano assumere toni più cupi. Perché tutto è possibile, se si erode il sottile velo tra credenza e realtà. Incubo. Trasformazione. Metamorfosi. Un ritorno al senso di stupore e meraviglia che per sua stessa implicita definizione, trae l’origine dal mondo a volte misterioso dei bambini diventati ormai qualcosa di totalmente diverso. Il caso è raro e anche per questo, mai documentato: ci si sveglia un giorno con un senso di mal di testa, per l’emersione del bottone di montaggio del blocco “cappello”. Quindi s’ingrossano le braccia, mani, gambe, tendendo ad assumere un aspetto insolitamente squadrato. Le spalle si sollevano. Le ginocchia spariscono. Le mani si trasformano in crudeli pinze semi-circolari, in grado di ruotare a 360 gradi. Gli occhi, due puntini neri, accompagnati dall’unico altro tratto somatico di una bocca stilizzata che sorride in un rictus eterno e decisamente inquietante. La quale non si muove, non può muoversi, mentre dall’improbabile creatura si provenire uno strascicato richiamo: “Montaag-gio, montaag-gio!”
E il tutto non sarebbe poi così impressionante, se misurasse appena 4 cm, nell’espressione di un qualcosa che conosciamo fin troppo bene. L’elemento nato come fattore “umano” per le costruzioni più famose della storia danese comparso per la prima volta nel 1975, chiarendo finalmente la dimensione immaginaria dei blocchi modulari per le costruzioni creati da Ole Kirk Christiansen più di 30 anni prima di quella di data, All’epoca, non prevedendo certo di diventare un giorno il personaggio a sostegno di interi franchise d’intrattenimento, inclusi film e videogames, l’omino della Lego era qualcosa di molto più semplice ed impersonale. Una mera sagoma, senza neppure i lineamenti sommari sopra descritti, né braccia e gambe articolate o di nessun tipo. Poiché il cardine del sistema era il mondo delle cose, e perciò sembrava controproducente ridurre il numero di blocchi principali per produrre un qualcosa che comunque, non avrebbe avuto la capacità d’interfacciarsi più di tanto con il resto. Finché il figlio dello stesso Christiansen, Godtfred, non comprese qualcosa di straordinariamente fondamentale e forse all’epoca, meno palese che ai giorni nostri: l’assoluta identità tra gioco ed immedesimazione, ovvero l’importanza di fornire un’ancora ai piccoli, e non tanto piccoli utilizzatori del suo prodotto, prolungando l’esperienza di gioco ben al di là del semplice assemblaggio del contenuto della loro fervida fantasia. Fu un processo per lo più graduale, passando dai set degli anni ’50 dedicati alle categorie operose della società moderna, quali poliziotti, pompieri, addetti alle ferrovie, ad alternative più caratteristiche e fantasiose, quali reinterpretazioni pseudo-storiche del Medioevo dei galeoni dei pirati caraibici all’epoca delle grandi esplorazioni. E fu proprio allora, inevitabilmente, che l’omino iniziò ad arricchirsi di alcuni segni specifici di riconoscimento, quali bende sull’occhio, cappelli stravaganti, uncini e gambe di legno. Eppure senza mai perdere la sua inquietante ed innaturale conformità: tutti alti uguali, la pelle gialla come un Simpson, la posa rigida e impostata. Per tornare all’analogia da calendario, un po’ come gli scheletri del folklore messicano, in grado di superare ed in qualche modo costruire l’antitesi del concetto stesso d’identità. È incredibile quanto si possa cambiare, sfruttando semplicemente l’effetto di un costume ritagliato ed incollato a partire da qualche anonimo foglio di cartone!
Artista dei Lego ripercorre la storia dei carri armati
Questa è per i ribelli, i fuorilegge, i guerrieri al di fuori degli schemi. Per chi è disposto a tutto, tranne seguire l’ordine prestabilito. Voi che vedete una scatola di costruzioni e piuttosto che cercare le istruzioni, iniziate a chiedervi “Che cosa può fare lei per me?” Come pretende il vero spirito dell’ingegneria… Si armeggia coi mattoncini per molti motivi. Chi ama quella sensazione tattile e cerca soltanto la sfida di assemblare il set, come si trattasse di un comune puzzle bidimensionale. E chi invece non si accontenta davvero, finché non ha esaurito il combustibile nel serbatoio (tank) della creatività. C’è stato un tempo lontano, prima del fortunato sodalizio con il brand multi-generazionale di Star Wars, in cui la compagnia svedese di costruzioni non solo per bambini aveva giurato di fare il possibile per: “…Non essere associata a stili di gioco che glorificano i conflitti o lo spargimento di sangue di alcun tipo, pur riconoscendo la capacità dei bambini di distinguere il gioco dalla realtà.” E in effetti, avete mai visto un jet militare, un elicottero, un carro armato fatto di Lego? Certo che si. È semplicemente impossibile stemperare la metafora del conflitto dall’animo umano, non importa quanto si è giovani e innocenti. Si potrebbe persino affermare… Il contrario. A meno che si stia effettivamente parlando dell’operato del nostro Sariel, celebre esperto polacco che ha associato la sua produzione a una particolare serie di costruzioni cosiddette “per giovani adulti”. Le Lego Technic note per l’ampia selezione di ingranaggi, cremagliere, motorini elettrici e funzionalità avanzate. Come i telecomandi. Difficile, a quel punto, allontanare la propria mente dal proposito di costruire una riproduzione in scala dei propri veicoli preferiti. E caso vuole che a lui, più di ogni altra cosa, piacessero i carri armati.
La visione di questo Mark V che avanza maestoso sul parquet del salotto, superando ostacoli come libri, assi inclinati e fortificazioni occupate dall’agguerrito criceto di casa evoca immagini di un importante momento tecnologico, in cui venne raggiunto probabilmente l’apice della filosofia di sviluppo inglese alla base della nave di terra (la Landship) il veicolo che avrebbe annichilito l’importanza primaria delle trincee nella prima guerra mondiale. Era un’esigenza profonda nata dal senso stesso del conflitto bellico che stava tenendo bloccato il mondo, e che nell’idea dei suoi principali promotori tra cui lo stesso Winston Churchill, all’epoca maggiore al comando degli Ussari di Sua Maestà, doveva cancellare quello spazio invalicabile che era la terra di nessuno, le centinaia o migliaia di metri, che separavano una lunga buca dall’altra, dove vigeva soltanto la regola orribile della mitragliatrice. Fu quindi determinato in terra d’Albione, con largo anticipo sull’offensiva di Somme lungamente progettata da inglesi e francesi contro il dilagante impero tedesco, che tutto quello che serviva era un grosso apparato corazzato semovente che fosse in grado di abbattere il filo spinato, assorbire il volume di fuoco delle armi leggere ed offrire copertura di prima scelta alla fondamentale, benché vulnerabile fanteria. Nonché ovviamente, rispondere al fuoco. La prima epoca del progetto fu portata a compimento grazie all’opera, principalmente, di un comitato guidato dai tenenti Walter Wilson e William Tritton operante nel corso dell’estate del 1915, per cui venne coniato il nome in codice di tank. Fu dopo tutto, la loro prima creazione dal nome di Little Willie, una sorta di contenitore, o per meglio dire una scatola perfettamente squadrata in grado di spostarsi alla vertiginosa velocità di 2 Km orari (escluso il peso dell’armatura, che non fu mai montata). Ben presto ci si rese conto, tuttavia, come un simile approccio al design sarebbe stato del tutto incapace, una volta raggiunta la trincea nemica, di uscirne nuovamente fuori e continuare la propria importante funzione strategica sul campo di battaglia. Prima della fine di quell’anno, dunque, il design originario fu sostituito da una scocca vistosamente romboidale, con i cingoli che risalendo sulla parte frontale gli avrebbero permesso di fare presa in molte impossibili situazioni. Il suo nome era Mother e in effetti, di lì a poco avrebbe dato i natali ad un’ampia serie varianti, di “marchi” numerati dall’uno al dieci, destinati a diventare una vista comune sui campi di battaglia di ciò che restava della terribile grande guerra. Ma nessuno immaginava, realmente, dove si sarebbe arrivati di lì ad appena 25 anni, dopo la duratura, ma instabile e insoddisfacente pace che era stata imposta dai vincitori con il trattato di Versailles.
Luci ed ombre della torre a forma di pennello in Corea
Sai cos’è bello? Quando una gigantesca compagnia, fondata su una pletora d’interessi appartenenti ai più diversi settori del commercio e della finanza investe il suo denaro, per una volta, nell’interesse del bene collettivo, al fine di costruire qualcosa che resterà in eterno all’interno del patrimonio di popolo e una città. Un qualcosa che occasionalmente avviene, attraverso il sistema occidentale, con la finalità di trovarsi dinnanzi ad un fisco più benevolo e comprensivo, soprattutto negli Stati Uniti, dove il sistema delle donazioni costituisce un caposaldo della buona amministrazione per qualsiasi multinazionale e relativo manager che si rispetti. Non che scenari simili siano del tutto inauditi anche in Europa, Russia o le altre propaggini più prossime della grande Asia. Ma se si osserva il modulo comportamentale in merito alla questione del mondo degli affari dell’Estremo Oriente, e il tipo di effetti che esso tende ad avere sul paesaggio urbano, appare occasionalmente palese come lì possa sussistere un meccanismo dei presupposti in qualche maniera diverso: le Petronas e la Bank of China Tower, il Jin Mao Building, la Kingkey Tower di Shenzen, il Tobu Skytree di Tokyo… Tutti grattacieli che rappresentano i loro ingombranti proprietari arrivando a portarne direttamente il nome. E rappresentandone direttamente la visione, qualche volta futuribile, altre perfettamente integrata con l’attuale sistema costituito del mercato globale. In questo, la nuovissima Lotte World di Seoul non fa certo eccezione: nata su una riva del fiume Han dopo oltre dieci anni di tentativi nell’acquisire i permessi ed il via libera necessari, ed ultimata dopo altri sei di lavoro febbrile e qualche volta, persino incauto, questa svettante aggiunta ad uno skyline per il resto non particolarmente elevato (sia chiaro: relativamente parlando) costituisce molto evidentemente il fiore all’occhiello dei committenti che devono aver approvato il progetto, non senza qualche inevitabile esitazione, la fantastica visione dell’architetto di New York Kohn Pedersen Fox (Studio KPF) che nei suoi sogni aveva pensato a questo titano di 555 metri che omaggiasse la cultura coreana, con un doppio richiamo alle antiche ceramiche della penisola e l’arte sempre attuale della calligrafia. Le prime in funzione della sua copertura in acciaio bianco laccato, con aggiunte di filigrana dorata e un “beccuccio” superiore dalla forma a lanterna, dove in realtà si trova uno dei ponti d’osservazione più impressionanti del continente. E la seconda per la forma generale dell’edificio, rastremato ed un po’ curvilineo, simile alle setole del tipico pennello appuntito impiegato anche in Cina e Giappone, al fine di praticare un’arte che pare andare di pari passo con il concetto grafico degli ideogrammi di stampo continentale; benché a dire il vero, in epoca più recente, i coreani l’abbiano applicata anche al loro caratteristico alfabeto, lo hangŭl.
La Lotte World Tower esiste, dunque, in maniera preponderante, e a partire dalla recente notte del 3 aprile ha anche aperto al pubblico, a séguito di uno spettacolo di fuochi d’artificio che non avrebbe in alcun modo fatto invidia al celebre show di capodanno di Manhattan, nel cuore della tentacolare New York. Una visione che allude alla nuova e sempre più potente Corea del Sud, che nonostante la crisi politica e le minacce del suo vicino sembra profondamente intenzionata a cavalcare l’onda del suo boom finanziario verso il futuro, costruendo una quantità spropositata di nuove strutture, meraviglie ed interi quartieri circostanti la capitale da oltre 10 milioni di abitanti. Come i sobborghi di Ilsan, Uiyeongbu-si, Anyang-si o Songdo IBD, edificato nei dintorni dell’aeroporto internazionale. Con una proliferazione di spazi abitativi e dedicati agli uffici che pare trascendere le effettive esigenze di un popolo che, come tutti gli altri appartenenti all’OECD dei paesi più sviluppati al mondo, non sta esattamente attraversando una crescita demografica priva di precedenti. C’era davvero bisogno, dunque, di questa ennesima meraviglia dell’architettura, dell’ingegneria e della tecnica? La vera risposta a questa domanda, inevitabilmente, diventa: dipende dai punti di vista. Il grattacielo a forma di pennello evidenzia certamente la fortuna del conglomerato Lotte, una delle principali chaebol che influenzano il fato del paese (grossomodo equivalenti alle zaibatsu giapponesi) ed è un piacere per gli occhi degli abitanti locali, o almeno così si dice, per il “contrasto artificiale che crea stagliandosi contro i picchi del Bukhansan e le altre montagne create dalla natura.” Può dirsi orgoglioso, inoltre, di aver già attirato un particolare tipo d’indesiderabile turismo internazionale…