Motociclista dello specchio lungo sei migliaia di chilometri

Salar de Uyuni

Hai visto cose che noi umani non potremmo neanche immaginare. Rettili giganti che percorrono le giungle primordiali. Masse continentali suddivise, dalla forza tettonica del magma, in dozzine d’arcipelaghi sperduti nell’Oceano. Ciascuno patria di un insetto, di un uccello e di una rana, risultanze di un diverso ramo dell’evoluzione. Le hai viste tutte, queste cose, e molte ancora. Possiedi più storie, assai probabilmente, di quante sono le tue stesse nubi vorticanti, nell’azzurro vuoto dell’immensità. Ma non ti eri ancora visto in volto, ricreato da uno scherzo della luce, prima che noi mettessimo gli specchi tra i crateri del tuo vecchio e rustico satellite, la Luna. Apollo 11, 14 e 15: ciascuna delle tre missioni americane del ’69, trasportava gli strumenti di un esperimento ancora in corso, finalizzato alla misurazione dello spazio fra di te,  pianeta, e la tua candida consorte astrale, priva di atmosfera eppure con quel fascino antiquato, quel certo non-so-che di uno spettrale savoir-faire. È molto semplice: si prende un laser, lo si punta verso il cielo in quei diversi punti attentamente definiti, si misura il tempo di ritorno dai tre astrali catarifrangenti. Eppure, soltanto un essere pensante come l’uomo, avrebbe mai potuto concepire tale cosa. Perché tu, mondo senza eguali tranne i tuoi riflessi, tu di superfici lucide già ne avevi. Numerose. Oltre ogni limite dell’immaginazione. Frutto, senza il minimo timore di sbagliarsi, sempre di quell’ultimo elemento, l’acqua trasparente che può piegare i raggi della luce stessa, per farli tornare indietro differenti. Arricchiti di un’immagine evidente. Specchio: la superficie di una piccola pozzanghera. Specchio: un lago intero, durante una giornata senza vento. Specchio delle mie brame: la pianura salina di Salar de Uyuna in Bolivia, 10.582 Km² (la maggiore in assoluto) ricoperta delle rimanenze solide di rare precipitazioni stagionali, presto evaporate. Sale, minerali, resti delle acque eternamente riciclate. Che comunque, nel breve periodo delle piogge lì si trovano, a giacere indisturbati. Acqua sopra il sale, sopra il tutto. Cos’è, in fondo, un’attrezzo riflettente fatto con le mani degli umani? Se non una superficie estremamente levigata, monocromatica, ricoperta da un manto di cristallo, il vetro…
È una scena rara. Rara, soprattutto, da dimenticare. Quando l’astro del giorno si trova esattamente allo zenith, in una giornata di tarda primavera, e un sottile velo d’acqua veste una simile regione, tanto bianca e povera di asperità, si materializza, d’improvviso, un magico portale. L’ottimo paradigma visuale, il doppio delle cose soprastanti. Una pista su cui correre, con due veloci ruote, in mezzo al nulla di una duplice realtà. Il cielo sotto e sopra, il vento tutto attorno, uno spettrale doppelgänger di se stessi nel terreno, capovolto, che sorride, che saluta e che rimbalza d’entusiasmo sul sellino.
Tutto in proporzione, e soprattutto, tutto quanto in ordine, rigidamente cronologico. Milioni d’anni fa, come la Luna grazie ai tre atterraggi dell’Apollo, il pianeta Terra ricevette il proprio catarifrangente. Funziona molto bene. Ad oggi, per calibrare l’altimetro dei nostri satelliti in orbita geostazionaria, piuttosto che puntarli contro il mare sconfinato, si usa proprio la pianura di Salar de Uyuna, fino a tre volte più riflettente. E quasi altrettanto grande; chissà chi ce l’ha messo, questo specchio, e poi perché. Chissà da dove, quel colui ci osserva, e misura la distanza grazie all’uso di un potente puntatore a raggi gamma….

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L’entusiasmo del flautista viaggiatore

Erik the Flutmaker

Sullo sfondo di un tappeto fiorito, con cappello azzurro e piuma nera di tacchino, l’artigiano stravagante tenta di abbagliarci con la sua eloquenza. È una scena che parrebbe quasi degna di una televendita televisiva sul finire del mattino, se non fosse per il ricco contenuto musicale, la varietà e il senso delle merci messe in mostra e una piccola, benché marcata, componente Rinascimentale. Con The Spiel (la tiritera), titolo anteposto al video, l’eccezionale fabbricante di strumenti musicali noto come Erik “the Flutemaker” qui si riferisce ad un suo lungo e articolato discorso, usato per la prima volta durante una di quelle fiere, tipicamente statunitensi, in cui intere comunità s’industriano nel riprodurre gli usi e costumi dell’Europa del XV-XVI secolo. Naturalmente, i risultati possono variare, poiché il mondo del commercio, come l’industria del divertimento, mal si associa alla ricostruzione storica e a quel senso della misura che è invece alla base di ogni cosa, l’ineffabile buon gusto. Ma persino tra cagnolini agghindati con coperte araldiche da palafreni, centurioni, cavalieri, zucchero filato variopinto e banchetti ricoperti d’ogni tipo di oggetto stravagante, si possono talvolta ritrovare dei veri e splendidi tesori. Purché sia abbia l’occhio, e/o l’orecchio musicale, per cercarli.
Del resto, questo venditore viene da lontano. O per meglio dire, pur essendo assolutamente americano nei suoi metodi e nei manierismi (pare quasi Billy Mays!) Può tuttavia vantare l’esperienza effettuata, di un circuita attorno al mondo. Qualcosa di simile, nella sostanza, alle grandi avventure dei mercanti di quei tempi ormai lontani, che imbarcati su vasti velieri o altri vascelli, alla ricerca di fortune leggendarie, tornavano cambiati. E con le stive ben colmate di ben due patrimoni contrapposti: quello tangibile ed i meriti dell’esperienza, la cultura in quanto tale. Erik produce strumenti a fiato da oltre 44 anni, trascorsi in viaggio tra il Messico, il Guatemala, l’Argentina, il Brasile, le Hawaii, il Costa Rica e le Fiji, fino alla scoperta di una soluzione nuova, rapida e geniale, al problema di trovare i materiali giusti. Ovvero, coltivarli direttamente nella sua assolata Florida, usando l’adattabile varietà, importata dalla Cina meridionale, del Bambusa Multiplex, una di quelle piante (tecnicamente erbacee) che furono il fondamento cartaceo di tante culture letterarie dell’Estremo Oriente.

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Ora di punta nella città che non si annoia mai

Rush Hour

È un gran problema! E che insofferenza, quale impaccio, una tremenda scocciatura. Che disagevole disturbo, dover lentamente premere sull’acceleratore, poi sul freno e ancora e ancora, quando si hanno settecento fastidiose macchine, tetramente ferme, tra la propria posizione e il sospirato punto dell’arrivo. Casa-lavoro-casa-lav-FRENA! Ahi! Sarebbe un’epica Odissea, se non dovesse ormai ripetersi, in certi periodi, praticamente tutti e cinque i giorni della settimana. Ma se tutti si chiedono: “C’è una vera soluzione?” Questo non significa sia giunto l’attimo di stendersi e crucciarsi, occupando il proprio scarso tempo libro. Che più che a librarsi, serve a leggere, perché la conoscenza marca il punto fermo di liberazione. Finché la fantasia, finalmente, frutta un modo per chi ha fretta di finire la filiera. Parlavano, gli storici, di un antico modo di portare a compimento la missione: avere più fiducia nelle cose. Lanciare una moneta, sette volte sette, certi che cadrà di taglio. Può succedere, anche se è raro. Come in un sogno, dozzine di automobili si approcciano all’incrocio. Nessuno frena eppure, stranamente, tutto si risolve per il meglio.
La scena qui presente l’ha creata il giovane regista argentino Fernando Livschitz, con il suo ultimo cortometraggio RUSH HOUR, un’allegra alternanza di possibili disastri scampati, sfioramenti da cardiopalma e biciclette sregolate. È il trionfo dell’efficienza sulla logica, dell’allegoria sul candido realismo. Documenta, senza realmente dimostrarlo, come tutto sia possibile quando, strano a dirsi, collettivamente necessario. Il fatto è questo. La città moderna: un sistema. Che prevede l’ordine, per funzionare, ma non per questo lo richiede. Ai tempi dei Patriarchi biblici col pastorale, quando un esodo veniva attentamente predisposto, ciascun cammello, carro e casa mobile si guadagnava un ruolo. Primo-della-fila, poi secondo e così via. Non c’era altra direttiva, che lasciare i lidi inospitali del deserto egiziano, per giungere a remota destinazione. Persino il Mar sottile, Rosso come il sangue dei gravosi sacrifici effettuati, altro non era che un semaforo, per una sola volta, verde, finalmente. Quella giusta, quella santa e conduttrice di salvezza. Poi vennero i filosofi di un’Era Classica, perduta. E con essi quella rigida astrazione che dichiara: “Ciascuna società si fonda sulla collaborazione” postulando che “La convivenza è giusta e naturale, perché nasce dal bisogno di sostegno e protezione”. Era così, nell’età dell’Urbe senza Tempo, che si gestiva il traffico. Con automatica solerzia. Con scudiscio e con fiumane di sesterzi. Gli opulenti patrizi sui cavalli prima dei plebei appiedati e soltanto dopo, trascinando le catene, e le anfore di vino e le preziose cornucopie e le carriole cariche di ottimi mattoni e le aspettative disilluse di giornata e l’infelice senso dei minuti, loro. Gli schiavi, un’altra volta. A cupo beneficio della società.
L’individualismo, l’automobilismo. Oramai elevàti, al di sopra dell’originario atto di fede verso l’equilibrio dei fondamentali presupposti, i cultori della psicanalisi (altrimenti detti: i “moderni”) inseguono perennemente il proprio ego. Per le brusche discese, oltre le curve e gomito e dentro affollatissime rotonde, dove ogni guidatore si sente l’unico padrone del suo Fato. Ciascun GPS o cellulare con navigatore, ugualmente certo che l’ora di arrivo sia imminente. E se avessero ragione…Tutti quanti?

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La pesca miracolosa dei piranha

Piranha Girl

È chiaramente molto furba la ragazza sudamericana, dotata di un singolo trancio di carne un po’ malmessa, che riesca a trarne un tale ricco e portentoso nutrimento. E abboccano i bocconi, l’uno dopo l’altro, neanche lei gli avesse offerto del prosciutto prelibato. Non uno, né due pesci, ma un’intera bacinella quasi straripante, così trasformata nella pentola di un’esultante festa di paese. Vociano i bambini: dopo quella mattinata, sarà ricca la padella di un gustoso pomeriggio di..Fritture? Era forse la sagra del piranha, lungo il corso del Rio delle Amazzoni o dell’Orinoco? Chi può dirlo. Possiamo soltanto assistere al rastrellamento, basiti. Certamente, non piccati. Giacché l’immagine di questo pesce prognato e vagamente rosseggiante, lungi dall’essere tenuta in alta considerazione dagli animalisti, evoca le persuasioni di una terribile voracità. Tutti temono e detestano quel demone minuto, forse anche maggiormente che lo squalo, o il barracuda. Esiste una vecchia tradizione brasiliana, ormai desueta, secondo la quale per ciascuna mandria di bestiame andava sempre designato un capo particolarmente debole, vecchio e sacrificabile, detto il “Boi de piranha”. Al momento di attraversare un corso d’acqua, dunque, si sarebbe uccisa la povera bestia, per poi gettarla tra gli affioramenti d’alghe, come un richiamo irresistibile da sgranocchiare. Ben sperando che la sua carne tenera bastasse, anche quella volta, per saziare le furie sommerse con le pinne e i denti acuminati. Solo così, si diceva, ci si sarebbe garantiti un passaggio sicuro per il resto degli armenti o i propri familiari. A tal punto si temeva il concetto di un tale pesce invisibile e sempre in agguato, che esso era diventato come un dio del fiume, da placare con offerte o preghiere degne della sua famelica maestà.
Il piranha comune, appartenente al genere dei Pygocentrus, misura tra i 15 e i 25 cm. Quelli catturati dalla ragazza, visto l’evidente quanto riconoscibile ventre rosso, erano assai probabilmente della specie P. Nattereri, diffusa praticamente in tutto il Sudamerica. Questi pesci sono noti per la maniera caratteristica in cui fanno la guardia alle proprie uova, assicurate saldamente ai fusti delle piante acquatiche in affioramento. Il maschio e la femmina pattugliano i dintorni in coppia, tenendosi strettamente a contatto, con le schiene rivolte verso l’esterno. In questo modo nessun predatore  in cerca di uno spuntino potrà sfuggire ai loro attenti sguardi. Chissà quante amabili famigliole saranno andate distrutte, per un piccolo piacere transitorio!

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