Le due armi più importanti della storia d’Inghilterra

Kevin Hicks

Vivere il respiro dell’antico è un gesto innato, perché tutto quello ciò che siamo, abbiamo e visitiamo nel corso della nostra stessa vita, non è altro che l’espressione di un’eredità investita, la risultanza del trapasso di chi c’era prima. Eppure, persino con un tale approccio alla questione, non è facile comprendere i diversi stati d’animo, il senso logico e la provenienza di quell’ampio ventaglio di genti che costruirono, popolarono e colonizzarono le terre di un paese, almeno senza mettersi, metaforicamente o ancor meglio nei fatti, all’interno delle loro scarpe ed abiti, soprabiti o armature. Kevin Hicks, l’ex soldato veterano e poliziotto inglese fondatore dell’associazione culturale The History Squad, si presenta come un vero specialista in questo. Come certamente appare allo spettatore, nel guardarlo, mentre è all’opera nell’utilizzo estremamente abile di quello strumento semplice e letale, che si costituisce unicamente di un lungo listello di legno di tasso ricavato dall’esterno della pianta, affinché la parte esterna della stessa avesse modo di esprimere tutta la sua innata flessibilità, mentre quella interna, la resistenza. Coadiuvato da un filo di lino, usato per…Sarebbe davvero attraente, adesso esattamente come allora, attribuire la responsabilità delle maggior svolte storiche del Regno (che tale era e poi così è rimasto) al forte braccio dei pochi ed alle loro armi leggendarie: Gáe Bolg, la lancia del mitico eroe d’Irlanda Cú Chulainn, ricavata dalla costola di un mostro marino. O Excalibur, strale d’acciaio meteoritico misticamente risorto dalle acque di un lago. Per non parlare della spada Durendal del paladino bretone Roland, forgiata dal fabbro Waylander a partire dai denti e dai capelli degli stessi santi della cristianità. Con fiero ciglio, ed alto petto, il corpo esposto per colpire pericolosamente il pieno volto del nemico! Ma che può fare dopo tutto, persino il più forte dei guerrieri, per proteggersi da un singolo contadino che scagli ne suo cuore un dardo di metallo, da egli gettato in mezzo al pieno flusso degli eventi? Nulla, tranne perire. Lasciando il passo all’incedere dell’implacabile modernità.
24 ottobre del 1415, nella regione del Nord-Passo di Calais. Il nuovo sovrano d’Inghilterra, salito sul trono all’età di 26 anni, decide che è giunto il momento d’imporre la parola fine sul terribile conflitto sanguinoso, più volte interrotto e poi ripreso, che find dall’epoca di Edoardo III (1312-1377) stava sconvolgendo le terre al confine con la Francia. La nome di quel re, Enrico V. La sua impresa più famosa, una vittoria militare che avrebbe permesso ai suoi uomini di controllare a lungo termine quell’intera regione peninsulare con affaccio sulla manica, per un tempo che si sarebbe esteso fino al 1558, ben dopo la fine dell’interminabile guerra dei cent’anni. Stiamo parlando di Azincourt, la sua battaglia, e soprattutto per inferenza, di quello stesso strumento per uccidere che Mr. Hicks stava impiegando, con classe e spirito divulgativo d’eccezione, impiegava per colpire dritto nel bersaglio posto nel cortile del castello di Bolsover. A quei tempi, in effetti, non era semplicemente possibile pensare che un esercito, per quanto dotato di abili ufficiali, potesse marciare in terra straniera senza la presenza del proprio fiero condottiero per volere divino, in cui veniva proiettata nella sua interezza la responsabilità politica, militare ed allegorica del regno. E fu così che Enrico, affidato il compito di governare al fratello Giovanni, Duca di Beford, era partito con 1500 vascelli per la Normandia, scegliendo di approdare in quel punto storico di tutte le invasioni dell’Europa continentale, presente, passata e futura, ovvero le coste nei dintorni di Le Havre. Verso la fine dell’estate, con i suoi circa 15.000 uomini aveva assediato e conquistato Harfleur, e per evitare un disastro logistico stava già iniziando a dirigersi verso il porto francese di Calais, da cui imbarcarsi per fare ritorno in Inghilterra. Se non che fu allora che dinnanzi a lui, nel bel mezzo del terreno fangoso della campagna di Piccardia presso la località di Azincourt, incontrò una grande armata al comando di Carlo I d’Albret, luogotenente diretto del corrente re dei Valois, Carlo VI. La cui unica missione era sbarrargli la strada, con tutta l’autorità offerta da 50.000 armigeri pesantemente armati, inclusi circa 4.000 temutissimi balestrieri genovesi, nonché lo stesso stendardo reale della mitica Oriflamme, un drappo che si diceva intriso del sangue di San Dionigi e sotto la cui egida, l’armata di Francia non aveva mai perso un confronto in campo aperto. Così la sua campagna apparve, d’un tratto, in bilico sul ciglio del disastro…

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Carri armati agili come Leopardi da 60 tonnellate

Leopard Trench

Bernd, il pilota, d’un tratto sembrò scuotersi nel suo sedile sagomato: “Comandante, c’è una buca più avanti.” Momentaneamente perplesso, Webber alzò gli occhi dalla mappa topografica dell’esercitazione. Alla velocità lanciata di 65 Km/h, non c’era davvero molto tempo per pensare strategicamente, prima che gli ostacoli del territorio raggiungessero la parte anteriore dei loro cingoli determinando la riuscita con encomio oppure il fallimento più totale. “Argh, zum teifel!” Fece Erich, l’artigliere: “Finiremo nuovamente rimorchiati!” Fu a quel punto che Webber iniziò ad elaborare da un luogo recondito della propria mente il concetto per lui nuovo, che non soltanto si trovava chiuso in una scatola pesante come una locomotiva, ed analogamente soggetta a leggi della fisica persistenti ed impietose, dalla cui performance tecnologica dipendevano tutti i suoi futuri propositi di carriera, ma che a determinare il suo destino sarebbero stati un gruppo di ragazzi scapestrati, poco meno che ventenni, la cui massima affinità col compimento di un’operazione militare complessa derivava dagli interminabili pomeriggi trascorsi a far la guerra con tastiera e mouse. “Devo, devo, devooo…Freeeenareeeee?” diciannove secondi, diciotto. Dallo schermo ad alto contrasto disposto accanto alla sua posizione, Webber lanciò un rapido sguardo dietro al carro armato. Tra la polvere sollevata in una nube vorticante, si scorgevano i tipici cespugli scarni della campagna circostante Wiesbaden, dove quest’anno il comando aveva deciso di inscenare i grandi giochi di guerra congiunta assieme al reggimento della base americana. Naturalmente, l’esercito alleato non poteva schierare i suoi carri principali da battaglia in pieno territorio tedesco: era ancora fresca nella memoria la comunicazione studiatamente priva d’inflessioni, risalente all’aprile del 2013, tramite cui tutto il personale del gruppo operativo veniva informato che l’ultimo MBT statunitense lasciava finalmente l’Europa, chiudendo anche formalmente un vecchio capitolo di storia che in qualche maniera continuava ininterrotto fin dall’epoca della “liberazione” di Berlino. Quindici secondi, l’aspetto diseguale del suolo iniziava a farsi sentire, trasmettendo vibrazioni da un lato all’altro del veicolo. “Che tipo di buca?” Pronunciò, scandendo molto bene le parole, Meinhard, l’addetto alla carica delle munizioni. Analogamente alla situazione tecnica del già citato M1 Abrams, nel principale mezzo d’assalto dell’esercito tedesco era prevista la presenza di un quarto membro dell’equipaggio, con la mansione principale di spostare le munizioni dal compartimento stagno deputato fino all’apertura superiore del caricatore automatico di bordo, permettendo, se non altro, di tenere il materiale esplosivo attentamente separato e distante dai vulnerabili esseri umani incaricati di portare tale fino a destinazione, ovvero ben incastrato in mezzo alle spesse piastre dell’armatura nemica. Naturalmente, tale spazio nel corso dell’esercitazione era del tutto vuoto. Altrettanto naturalmente, Meinhard non aveva niente da fare, e quindi metteva bocca praticamente su tutto. “Silenzio!” Gridò Webber, appoggiandosi la mano destra sul berretto da ufficiale: “Erich, sei il solito idiota pessimista. Adesso per piacere volta la torretta di esattamente 180 gradi. Si, bravo, così. Bernd, rallenta, devo capire cosa abbiamo davanti. Meinhard, taci.” Era chiaro che voltare le telecamere, a quel punto, avrebbe richiesto un tempo troppo lungo. In un solo fluido movimento, Webber fece forza sulle gambe per alzarsi in piedi nello stretto spazio della cabina, con il risultato di trovarsi a premere direttamente contro il portello superiore. Obbedientemente, servomeccanismi del costo di diverse migliaia di Euro scattarono in posizione, e quella pesante cosa si aprì.
Ventitre secondi all’impatto. Il vento soffiava ferocemente. Ridotta la velocità del 25%, come da procedura concordata dai membri dell’equipaggio in caso di ordine non definito (Vedi quel bernese… Qualche cosa, l’ha imparata) il carro armato aveva adesso dinnanzi a se un ventaglio di svariate possibilità. Poteva fermarsi, tornare indietro, poteva addirittura accelerare. L’esperienza insegnava a quel particolare comandante di ben ventiquattro anni e un lungo corso teorico alle spalle, ad esempio, che il carro Leopard 2 aveva una particolare capacità innata di scavalcare gli ostacoli, grazie alla sua massa superiore spinta innanzi dal potente motore diesel MTU MB 873, quattro tempi, 47,6 litri, 12 cilindri e 1.500 cavalli di potenza. Se fosse stato un’auto sportiva, lanciata al massimo regime consentito dal suo rapporto peso-potenza, all’incontro con una trincea il suo fido veicolo si sarebbe solamente frantumato. Ma un carro armato ha molte frecce al suo arco…

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L’arma più micidiale mai concepita

SLAM Missile

Nell’antichità tutti i metodi per uccidere erano, come si usa dire, bianchi. Con punta di lancia, con taglio di lama, con testa di ascia, si tentava di uccidere il proprio nemico. Ed era una cosa orribile, senz’altro, esattamente come adesso. Eppure c’era un senso latente d’eleganza, dovuto all’inerente responsabilità necessaria per un gesto che non era facile da compiere, soprattutto in mezzo al caos di un capo di battaglia. E ciascuna delle armi utilizzate, a suo modo, era magnifica. Leggiadra ed affilata, saettante come il capo di un serpente, con aculei come spine di una rosa. Tentare di trafiggere qualcuno scagliando via la propria spada, ai tempi del Codice dei Cavalieri, sarebbe stato un gesto non soltanto privo di senso, ma disonorevole ed irrispettoso, verso i molti secoli di sapienza artigiana che essa racchiudeva, per non parlare della potenziale eredità del proprio genitore in armi, che con questo oggetto trasferiva lo status della propria intera classe sociale. Erano costoro, guerrieri per vocazione, ma mai veri professionisti della morte. Poi col proseguire delle epoche, l’invenzione della polvere da sparo non fece che rinforzare la questione: perché l’archibugio, il moschetto, e infine, il fucile con la canna rigata, non entravano mai in contatto con la carne del morituro, limitandosi a proiettare al suo indirizzo schegge di metallo acuminate, ciascuna concepita per un singolo, sgradevole utilizzo. Poi gettata via, nella discarica dei proiettili sparati. Presto nacque un vero e proprio culto, che ha tutt’ora fin troppi proseliti proseliti, mirato a venerare l’arma da fuoco come massimo traguardo superato dall’umanità, uno strumento totalmente demoniaco e dunque, senza alcun dubbio, infuso di quella scintilla sacrale di divinità. Armi che donano la morte, la producono, la smerciano, persino. E che per farlo, necessariamente, devono incorporarla al loro interno, in qualche forma o definizione.
Ma venne infine un giorno in cui qualcuno giunse a chiedersi: “Sarebbe possibile costruire uno strumento, presente o futuro, che al suo interno racchiuda la Mietitrice in persona?” Al punto che il solo vederlo potesse porre fine all’esistenza di qualcuno, come pure l’udirlo, il nominarlo, o addirittura la sua mera concezione sopra i tavoli progettuali, bastasse a mettere in pericolo l’intera dormiente umanità… Era il primo gennaio 1957 quando una commissione formata dalle Forze Aeree Statunitensi e l’Ente per l’Energia Atomica scelse d’interrogare il laboratorio Lawrence di Berkeley sulla questione, ottenendo la risposta che Si, teoricamente, la potenza dell’atomo poteva essere usata per far volare un missile intercontinentale. Anche se sarebbe stato, naturalmente, molto rischioso. Ciò perché un nocciolo a fusione, per sua stessa implicita natura, era un ricettacolo di pericolose particelle alfa e beta, lanciate in ogni direzione e in grado di distruggere facilmente l’organismo umano. E proprio per questo, una simile creazione necessitava di uno spesso scudo protettivo, simile a quelli usati per i reattori commerciali, o in misura minore, montati tra il motore e l’area calpestabile dei sottomarini a propulsione radioattiva. Ma come avresti mai potuto tu, inteso come progettista o ingegnere aerospaziale, incorporare un tale pesante meccanismo su di un arma fatta per attraversare i continenti, ad una velocità diverse volte superiore a quella del suono? La risposta fu veramente semplice: è completamente inutile preoccuparsene. All’epoca tutti sapevano, fin troppo bene, che cosa avrebbe comportato premere quel tasto rosso dell’Apocalisse. Ed a quel punto, che differenza avrebbero mai fatto qualche centinaio di sievert in più nell’atmosfera totalmente ionizzata… Un piccolo prezzo da pagare, in cambio della capacità irrinunciabile di Realizzare Cose Straordinarie. Perché un dispositivo dotato di carburante a resa tanto elevata, avrebbe potuto volare letteralmente per settimane, giungendo a compiere il giro della Terra per ben tre volte. Inoltre, sarebbe stato lungo 25 metri, e avrebbe potuto incorporare un sistema di guida radar basato sull’elevazione del territorio sottostante, estremamente avanzato per l’epoca, che i progettisti americani avevano definito TERCOM (Terrain Contour Matching).  Tali caratteristiche gli avrebbero permesso, una volta in volo, di percorrere un complesso itinerario predefinito a bassa quota per schivare i radar, sopra le principali città ed installazioni militari dell’URSS, rilasciando per un certo numero di volte degli ordigni da fino a un megatone di potenza. Ne erano state proposte fino a una ventina. Continuando a spargere nel frattempo i suoi veleni, e causando danni incalcolabili per il continuo superamento della barriera del suono ad appena qualche centinaio di metri dal suolo. E alquanto incredibilmente, non finiva certamente qui.

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L’allegro popolo dei coltelli a farfalla

Balisong

Parte la musica, entrano gli attori. Un eterogeneo gruppo di giovani, adulti, alti e bassi, più o meno sedentari, sportivi e fisicamente agili. O pesanti. Costoro non schioccano le dita, ma mulinano attrezzi dall’aspetto acuminato. È comunque una ragionevole approssimazione delle più famose canzoni del musical West Side Story, in cui l’arte esecutiva e lieve incontra un senso di pesante minaccia, dovuto alla tematica di fondo, si, ma anche e soprattutto alla natura degli attrezzi di scena: una delle più onnipresenti armi nella storia dell’uomo, facile da nascondere, ancor di più da estrarre, rapida e letale nel suo trasformarsi in un secondo da semplice attrezzo per sbucciare mele, a un artiglio di assoluto e deleterio annientamento. Eppure, appare chiaro, qui non c’è alcun intento di far l’una o l’altra cosa: si tratta, dal nostro punto di vista, di un vero e proprio video di scoperta. Entusiasticamente realizzato da Cuyler McCoy, uno dei partecipanti alla community del sito Reddit dedicata al balisong, forse il più famoso oggetto collegato alla storia recente delle Filippine. Mettendo assieme le registrazioni fornite da molti dei suoi stimati ed abili colleghi. Straordinariamente svelti di mano…Si, nel fare quale cosa? Ecco, il filo della tagliente questione è che questa classe di coltelli, fin dall’incerta epoca della sua prima messa a punto, presenta la caratteristica di una progettazione semplice, nonché geniale: ovvero un’impugnatura suddivisa in due segmenti paralleli, che ruotando attorno a un perno centrale (il tang) può richiudersi sulla lama stessa e incorporarla in uno spazio vuoto al centro, proteggendola dagli urti, e incidentalmente pure sguardi, accidentali. Entrambi doti che per un paese occupato dagli occidentali fino alla fine della seconda guerra mondiale nel ruolo di colonia, prima della Nuova Spagna e quindi degli Stati Uniti, risultavano estremamente utili agli agricoltori, allevatori e perché no, aspiranti rivoluzionari, spesso veterani della breve guerra del 1898.
Ma passata l’epoca del suo utilizzo, come inevitabilmente avviene, il coltello restò. Subendo una vertiginosa migrazione di significato ed utilizzo primario. Fu proprio quel particolare meccanismo di chiusura ed apertura, inventato secondo una teoria locale dall’artigiano della provincia di Batangas sull’isola di Luzon, Perfecto De Leon, attorno al 1900, a renderlo interessante per l’esecuzione di tutta una ricca serie di figure acrobatiche e gesti di destrezza, concettualmente non dissimili da quelli di un moderno yo-yo; il balisong, in effetti, ha origine come attrezzo di lavoro laboriosamente preparato all’uso con due mani, con la finalità di usarlo per tagliare con il suo singolo filo. Ma mediante l’acquisizione di un particolare tipo di pratica, poteva altrettanto facilmente essere aperto in un solo fluido movimento, come un coltello a serramanico, diventando un’arma potenzialmente letale. Soprattutto quando ne venivano realizzate delle versioni a doppio taglio, come dei veri e propri pugnali. Non per niente, il coltello prese a costituire ben presto, all’interno del ricco repertorio delle arti marziali filippine, tra cui l’Eskrima, l’Arnis e il Kali, un vero e proprio caposaldo del guerriero, insegnato assieme all’impiego per l’offesa di un vasto repertorio di altri attrezzi dall’impiego originariamente pacifico, quali bastoni da passeggio, bolos (coltellacci simili a machete) penne o le chiavi di casa. Con una versatilità niente affatto dissimile dall’arte del kobudō di Okinawa, anch’essa frutto di un paese occupato da una classe dirigente percepita come straniera (in quel caso, i samurai) e altrettanto incline a reinterpretare il senso di oggetti che nessuno si sarebbe mai sognato di requisire, perché in massima parte utili alla vita quotidiana e al lavoro, nonché parte inscindibile della cultura dei locali. O almeno, questa era l’immagine che andava faticosamente preservata…

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