L’eredità storica dell’uomo che mangiò 18 biciclette, 15 carrelli della spesa e un aereo

Uccidere per sopravvivere, divorare allo scopo di ottenere la prosperità. In quella voragine che si spalanca innanzi alla condanna, quotidiana, di creature, materiali e risorse… Un apparato che comincia col pedissequo sminuzzamento, tra la pluralità di aguzzi denti, sopra il moto serpentino di una lingua ed a seguire giù nella voragine di un tubo, fino a quella sacca ricolma d’acido che è lo stomaco umano. Esiste nulla, a ben pensarci, di più orribile del nutrimento? Cibo per l’anima e soddisfazione dell’anelito, che antepone la necessità dell’individuo all’integrità della sua anima e del mondo. Che ancor più orribile diventa, quando si scelga di applicare un distinguo dalle naturali necessità che condizionano la nostra vita: bulimia, anoressia, apatia ed ogni altra immaginabile tipo di malattia, mentre il corpo deperisce e in breve tempo lo segue la mente, fino alla cessazione di ogni necessaria funzionalità dell’organismo. Per non parlare della pica, condizione assai specifica (e per fortuna, piuttosto rara) il cui nome deriva dal termine latino che significa gazza, un uccello ritenuto all’epoca capace di mangiare qualsiasi cosa. Il cui strano anelito, per l’appunto, viene comunemente ritrovato in chi ha l’inclinazione a fagocitare ogni possibile materiale, indipendentemente dal suo contenuto nutriente oppur nocivo, addirittura velenoso. Tendenza simile a quella di un infante, che spesso conduce a un’esistenza dolorosa e in ultima analisi, una dolorosa dipartita prima del raggiungimento della tarda età. A meno che…
Un sistema digerente d’acciaio, e una ferrea volontà fondata sull’esperienza. Unita al desiderio d’iscrivere il proprio nome a lettere di fuoco nella storia della gastronomia globale. Simili punti di forza sembrerebbero aver guidato le scelte di vita di Michel Lotito alias Monsieur Mangetout (1950-2007) il francese originario di Grenoble che sotto lo sguardo dei suoi amici prima, quindi le telecamere e i rappresentanti del Guinness dei Primati, riuscì a fagocitare l’impossibile a vantaggio di un pubblico ludibrio mai del tutto ipotetico o privo di basi pratiche d’apprezzamento collettivo. Ciò in quanto il suo metodo privo di termini di paragone, praticato per una buona parte dei suoi 57 anni su questa Terra, prevedeva la consumazione a più riprese anche di oggetti particolarmente ingombranti, gradualmente trangugiati con l’ausilio di copiose quantità d’olio minerale, attraverso periodi capaci di durare settimane, mesi o persino anni. Come nel caso maggiormente celebre del Cessna 150, da lui consumato tra il 1978 e il 1980 dopo averlo smontato un pezzo alla volta ed introdotto attraverso la fornace posizionata tra il suo naso ed il mento. Senza riportare, a quanto certificò il suo medico, alcun tipo di conseguenza grave per la sua salute, in forza di uno stomaco capace di resistere agli spigoli aguzzi del metallo e persino metabolizzare stoffa, gomma e altri materiali, grazie a succhi gastrici eccezionalmente corrosivi. Una capacità che l’uomo scelse di mettere a frutto verso l’acquisizione della celebrità, mangiando tra le altre cose nel corso della sua carriera: biciclette, lampadari, letti, carrelli del supermercato, un paio di sci, un computer. Quando vari articoli iniziarono a comparire, in giro per la Francia, sulle presunte conseguenze letali di un’attività tanto sregolata, Lotito chiamò le telecamere, sotto il cui sguardo si affrettò a consumare la sua stessa bara. Alla ricezione della placca commemorativa d’ottone per il riconoscimento di “dieta più bizzarra” da parte del Guinness, la fece a pezzi e fagocitò anche quella. Anticipando in un certo senso, se vogliamo, l’inclinazione a fare qualsiasi cosa pur di mantenere la celebrità, in maniera analoga alle abitudini di tanti odierni frequentatori di Instagram e TikTok. I quali forse non avrebbero potuto cogliere, in assenza di nozioni storiche in materia, la precisa corrente operativa ed il contesto nazionale in cui costui riusciva a muoversi, come prolungamento fino all’epoca contemporanea di un asse originariamente posto in essere da almeno due insigni predecessori. Ed a partire da quell’evento epocale, che sarebbe stato per l’intera Europa la grande rivoluzione di Francia…

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L’energia pneumatica, forza motrice al servizio di gatti e umani

Tra le alte colline circostanti la cittadina di Ukiah, capoluogo della contea di Mendocina, in California, è situato un vigneto. In realtà, come è noto, ce ne sono molti: siamo dopo tutto, in prossimità del principale centro vinicolo degli Stati Uniti. Questo particolare terreno tuttavia, di proprietà dell’ingegnere novantenne Max Schlienger, sta cercando da svariati anni di vendere un qualcosa di potenzialmente assai più importante dei semplici frutti della terra. Una realtà che appare evidente, quando si osserva il groviglio di tubi con svolte a gomito che sorge dal terreno lievemente smosso, per andare a convergere in quella che sembrerebbe essere a tutti gli effetti una condotta ad anello, in PVC e rialzata a circa due metri dal suolo, chiusa in una struttura metallica dalla funzione incerta. Almeno finché, dal punto di vista privilegiato al centro del sito, non si ode un sibilo potente, come lo sbuffo di un antico animale. Che lascia presagire, neanche a dirlo, l’avvicinarsi di qualcosa d’incredibile: sotto ogni punto di vista rilevante, fatta eccezione per alcune mancanze, si tratta indubbiamente di un treno in scala 1/6. Il modellino di un treno futuro, che dovrà funzionare esclusivamente grazie alla forza dell’aria compressa.
Ora per ovvie ragioni, in questo particolare momento storico, sarebbe difficile non tentare di associare istintivamente un simile concetto all’Hyperloop One, il discusso “tubo sotterraneo” dell’imprenditore di origini sudafricane Elon Musk, che entro il prossimo anno dovrebbe iniziare ad offrire viaggi di prova a coraggiosi passeggeri in viaggio tra Los Angeles e San Francisco e ritorno, ad una velocità superiore a quella di un comune aereo di linea. Ma la realtà è che una simile idea ha origini molto più lontane, la cui evoluzione può essere percorsa a ritroso fino alla metà del XVII secolo, quando lo scienziato, politico e giurista tedesco Otto Von Guericke ebbe l’idea, per la prima volta nella storia fino a quel momento, di avvicinare due speciali ciotole metalliche formando una sfera cava, dalla quale poi rimuovere tutta l’aria all’interno tramite una valvola di sua concezione. In questa maniera era stato creato, in maniera del tutto artificiale, il vuoto. E non importa quanto i presenti tentassero di separare i due oggetti con muscoli, leve o paletti, il differenziale atmosferico rispetto all’atmosfera terrestre non permetteva di battere questo sigillo perfetto, a meno di aprire la presa d’aria o spaccare le ciotole letteralmente a metà. Il nome formale dell’esperimento fu Sfera di Magdeburg, e per molti anni nessuno pensò di trovargli un’applicazione nel mondo dei trasporti. Finché agli inizi del XIX secolo, l’inventore scozzese di epoca vittoriana William Murdoch non ebbe l’intuizione di costruire dei lunghi tubi, con un sigillo mobile all’interno. Il quale doveva essere, per l’idonea funzione del macchinario, a sua volta cavo. Così che rimuovendo l’aria da una delle due estremità, la stessa forza che teneva uniti i succitati emisferi tendesse a risucchiarlo fino a destinazione. All’interno di un tale barattolo, quindi, poteva esserci di tutto: documenti, denaro e soprattutto posta, destinata ad una consegna più rapida di quella offerta da un qualsiasi piccione viaggiatore.
Ma lo stesso principio alla base del progetto odierno di Max Schlienger, fin quasi ai più minuti dettagli, possiamo trovarlo nel 1843, quando il celebre imprenditore nel campo dell’ingegneria inglese Isambard Kingdom Brunel visita la ferrovia dimostrativa Dalkey a Dublino. Essa sfruttava il funzionamento di un treno privo di caldaia, dotato però di una struttura metallica in mezzo alle ruote, concepita per occupare un tubo sottostante del tutto simile a quello della posta pneumatica. Tramite la rimozione dell’aria all’interno di quest’ultimo, il veicolo prendeva spontaneamente a muoversi, in forza dello stesso principio dimostrato due secoli prima in Germania. Quest’uomo che fu una grande figura storica nazionale, colpito profondamente dall’ingegnosità dell’idea, acquistò il brevetto e fece costruire un tratto funzionante tra Exeter e Plymouth, della lunghezza di 32 Km. Ma non ci volle molto, perché dovesse scontrarsi con difficoltà fin troppo reali: il sigillo a tenuta stagna presente nella parte superiore del tubo, attraverso cui veniva fatto passare l’aggancio del sigillo al treno, era fatto di cuoio, protetto dall’umidità e la marcescenza grazie ad abbondanti quantità di sego. Un grasso di origine animale che tendeva, inevitabilmente, ad attirare grandi quantità di topi. Questo sogno per un primo veicolo silenzioso, rapido e privo delle cupe emissioni della tipica caldaia, finì quindi in quegli anni, per l’istintiva voracità di uno dei più piccoli, e furbi tra tutti i mammiferi viventi.

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Le prime tre motociclette al mondo

Definita dagli uomini di scienza “La più incredibile invenzione dei tempi moderni.” Può essere guidata per 7 miglia, ad un ritmo maggiore di qualsiasi cavallo lanciato al trotto. O ciclista umano. Anche in salita. Può raggiungere velocità più elevate di quelle a cui chiunque possa osare guidarla. È affidabile, semplice, risolutiva. È la moto, anzi il velocipede a vapore, dell’inventore Sylvester H. Roper di Boston, Massachusetts. Quel maledetto primo giugno del 1896, giorno più rilevante della sua storia, si trattava ormai di un vista assai nota, presso il quartiere di Roxbury con la sua residenza e fino a Harvard Bridge, dove egli era solito recarsi ogni giorno per testarla in collaborazione con un gruppo di ciclisti locali. Si trattava del miglioramento ingegneristico di un progetto costruito per la prima volta tra il 1867 e il 1869 (l’anno esatto resta incerto) a partire da una scuotiossa dei fratelli Hanlon, ovvero uno di quei mezzi a pedali, antecedenti all’invenzione degli pneumatici ad aria, le cui ruote metalliche facevano letteralmente battere i denti sopra qualsiasi strada che non fosse perfettamente uniforme. Ma avveniristica, sotto molti altri punti di vista, quali la particolare configurazione definita della “bicicletta di sicurezza” che per la prima volta permetteva di avere ruote della stessa dimensione, un’altezza tale da poter mettere i piedi a terra e una maggiore stabilità in curva, grazie alla geometria fuori asse della forcella. Esattamente come qualsiasi due-ruote moderna. Fu per lui, molto probabilmente, amore a prima vista. E l’elaborazione fantastica di un idea.
Per Roper, che era un inventore rinomato, con numerosi brevetti nel campo delle armi da fuoco, delle macchine da cucire, dei sistemi antincendio… La recente rivoluzione dell’automobile a vapore (di cui pure, produsse alcuni pregevoli esemplari) non sembrava essere abbastanza. Così elaborò il più piccolo motore della storia, lo piazzò sulla bici e creò la moto. C’è un’annosa diatriba in merito alla questione, che vorrebbe attribuire lo stesso identico merito al fabbro francese Pierre Michaux, operativo nello stesso triennio della seconda metà del XIX secolo, come piuttosto ai tedeschi Gottlieb Daimler e Wilhelm Maybach, che esattamente un anno prima del sopracitato secondo modello del collega americano (1896) misero in pista una motocicletta con motore a combustione interna, ovvero a benzina. Secondo alcuni, in effetti, tutto quello venuto prima avrebbe rappresentato un “binario morto” non più rilevante per l’evoluzione umana dell’intera genìa neanderthaliana. Tutto ciò è opinabile ed ogni modo, non del tutto rilevante. Ipotizziamo, in questa fase, che la Roper sia stata l’antesignana. Nella versione guidata quel fatidico giorno, che il suo costruttore aveva intenzione di vendere in serie nell’ambiente dei ciclisti sportivi, come strumento per mantenere il ritmo durante gli allenamenti, erano stati apportati diversi miglioramenti rispetto al prototipo (di cui qui sopra, potete osservare una riproduzione) quali una riduzione del peso a “soli” 68 Kg, l’inserimento del bollitore all’interno di un cassone per proteggerlo e migliorare l’aerodinamica ed un incremento significativo di prestazioni. Tanto da poter raggiungere, in condizioni ideali, una velocità di 64 Km/h. Come innumerevoli volte prima di allora, dunque, Roper in persona fece diversi giri del tracciato, dimostrando la straordinaria efficienza del suo prodotto. Con una significativa differenza: quella volta, aveva compiuto i 72 anni di età.
La moto sbuffò vistosamente, rilasciando copiose quantità di fumo bianco. Il pilota veterano, grazie all’esperienza acquisita, tagliava le curve ed effettuava pieghe pressoché perfette, limando ulteriori secondi dal suo record sul tempo del tutto inimmaginabile senza l’impiego di un motore. Il controllo dell’accelerazione era determinato dalla rotazione di entrambe le manopole unite in un’unica sbarra, la cui rotazione in senso contrario, invece, avrebbe attivato il singolo freno. Il cui limitato meccanismo a cucchiaio, appoggiato semplicemente sulla ruota posteriore, iniziava a scaldarsi ma teneva ancora. Se non che verso la fine della sessione di prove, gli venne chiesto di dimostrare, ancora una volta, quale fosse il massimo che poteva dare il suo velocipede. Così accelerò e accelerò, fino al completamento di un giro del tracciato di Harvard Bridge in soli due minuti ed 1,4 secondi. Ma a un certo punto, subito dopo una curva, cadde all’improvviso dalla sella e morì. Secondo gli accertamenti effettuati successivamente, la causa era stato il sopraggiungere di un attacco di cuore. L’inventore della moto, così come il Dr. Frankestein in alcuni seguiti del romanzo, era stato ucciso dalla sua più amata creatura. Così, ebbe inizio la storia…

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