L’antica tecnica dell’artigiano che custodisce il fluido della calligrafia giapponese

Disse l’uomo tecnologico: “Possibile che l’unico modo per produrlo debba essere così tremendamente inefficiente, faticoso e nocivo per la salute di quest’uomo?” Disse l’artista ragionevole: “Voglio dire, alla fine è semplicemente il colore nero. Quanta differenza potrà mai esserci se proviene da un processo tanto lungo e complicato?” Ma il calligrafo giapponese, lui non disse nulla. Poiché i meriti e il valore di un buon pezzo di sumi (墨 – bastoncino d’inchiostro) non possono semplicemente essere espressi a parole. Essi devono trovare un’espressione pratica, tramite l’impiego dei gesti ben collaudati. Il piccolo parallelepipedo, spesso ricoperto di pregevoli incisioni a rilievo, strofinato quietamente sulla superficie della concava suzuri (硯 – pietra per la scrittura) senza nessun rumore, nessuna vibrazione. La goccia d’acqua, possibilmente salata, aggiunta alla fine e cupa polvere che ne deriva, presto trasformata in una sostanza del colore del cielo delle ore immediatamente dopo il tramonto e prima dell’alba. Quando ogni figura del paesaggio tende a scomparire, lasciando solamente il grande vuoto adatto per accogliere le inusitate forme del pensiero e dell’immaginazione. Ed è sostanzialmente un’approssimazione verso tale stato di passività interiore o mushin (無心 – assenza di mente) quello che realizza in un minuto di contemplazione il praticante della shodō (書道 – Via della calligrafia) prima di apporre il suo fatidico pennello sulla carta. Per imprimere a sempiterna memoria in un glifo il contenuto e il sentimento di un singolo momento. Poiché scrivere costituisce, per chi è abituato a farlo tramite un sistema d’ideogrammi come quello tipico dell’Asia Orientale, il trasferimento pressoché diretto dei concetti stessi in forma grafica, piuttosto che la matematica trascrizione del suono in caratteri, pronti ad essere pronunciati di nuovo. Risultando in questo senso molto più simile alla pittura di quanto noi occidentali, in linea di principio, potremmo essere indotti a pensare. Il che ha portato ad uno stato di prestigio elevato il singolo e particolare inchiostro che s’impiega in tale tipo di attività, la cui produzione doveva essere inerentemente costituita dalla più semplice sequenza dei gesti. Dopo tutto, esistono infiniti modi per produrre il pigmento di nero, dall’ossido di ferro alle ossa, dal nocciolo dei frutti al corno di cervo. Ma l’unica davvero presa in seria considerazione entro il territorio dell’arcipelago degli Dei, da un periodo che potremmo definire pressoché continuativo per l’intero corso degli ultimi 1.300 anni, è quello originario di un particolare contesto situazionale, esso stesso strettamente interconnesso alla più profonda contemplazione dell’esistenza. Come tecnica proveniente originariamente dalla Cina, secondo la tradizione ad opera di niente meno che l’importantissimo monaco Kūkai/Kobo Daishi, fondatore della scuola Shingon in base alle dottrine religiose del continente. Con una collezione di precise cognizioni in base a cui, aspirando all’Illuminazione, chiunque percorresse un simile sentiero avrebbe dovuto dare il proprio contributo alla diffusione del sacro verbo. Copiando e continuando a riprodurre, finché ne avesse avuto l’opportunità, i sutra con l’insegnamento e le preghiere del Buddha. Quale miglior modo dunque, per produrre la nera sostanza necessaria per farlo, che impiegare le stesse lampade impiegate all’interno dei templi, ricettacoli perennemente colmi di preziosa fuliggine. Pronta ad essere raccolta e veicolata attraverso l’imbocco di un preciso sistema…

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Le inquiete schiere demoniache nascoste tra le pagine carnevalesche del Cinquecento

Poiché non c’è niente di meglio, al termine di una giornata d’avventurose ribalderie o vicende scellerate, che coricarsi supini su di un materasso morbido all’interno di una stanza silenziosa. E adagiando il proprio corpo nella posizione di riposo, chiudere alla mente qualsivoglia tipo di preoccupazione, ansia, problematica impellente. Situazione stranamente analoga, per molti versi rilevanti, a quella di uno stato di concentrazione persistente, aperta ad ogni tipo d’interferenza proveniente da oltre la barriera dei pensieri coscienti. E non c’è in alcun modo da meravigliarsi, a tal proposito, se all’epoca del Medioevo gli studiosi del pensiero fossero naturalmente inclini a immaginare lo zampino del demonio, in certe visioni persistente proiettate sullo schermo di Morfeo, d’immani esseri all’interno del contesto della loro terra, un mondo posto all’incontrario da ogni scorcio d’analisi rilevante. Ma cos’è, in fondo, un demone, se non una creatura trasportata Altrove e in qualche modo via da casa, come una bambina in Kansas che resta coinvolta nel passaggio di un uragano. E in quale modo riesce utile impostare il proprio metodo d’interazione sul terrore e tutto ciò che questo comporta? Non si può combattere ciò che è parte indisputabile del nostro stesso Ego, seguendoci da presso nell’incedere dei giorni e dei gironi dell’esistenza. Lasciandoci soltanto una possibile reazione: fare festa.
Un banchetto, la baldoria, una sfilata di mostruosi esseri, tutti abbigliati con i propri costumi migliori. Quelli che li rendono più simili… A noi. Tra le pagine di uno dei libri più misteriosi pubblicati nel decennio del 1560, ad opera dell’editore e stampatore protestante Richard Breton, che sotto il proprio marchio nelle pagine della stringata introduzione, omette di citare l’effettivo autore delle 120 illustrazioni che ne dominano il contenuto. Attribuendole come da titolo e in maniera fortemente programmatica, ai “Sogni drolatici (divertenti) di Pantagruele” con riferimento a un grande successo letterario di quegli anni, pubblicato dal suo presunto amico recentemente dipartito a Lione, François Rabelais. Il grande scrittore, monaco, medico ed umanista, nonché rinomato autore satirico, alle origini di quell’aggettivo che in francese viene usato per riferirsi a un tipo di umorismo prosaico e diretto, privo di offuscanti gradazioni ed arguti doppi sensi. Così come nella nostra lingua, due dei suoi personaggi sono usati come dei forbiti sinonimi, rispettivamente, delle cose molto grandi (“gargantuesco”) e i banchetti particolarmente abbondanti (“pantagruelico”) Ma in merito a chi fossero, effettivamente, i giganti Gargantua e Patangruel sono piuttosto sicuro che non siano in molti a ricordarlo. Poiché non è oggetto di studio scolastico, nella nostra penisola, la serie di cinque romanzi facenti parte del loro ciclo, che verte sulle molte strane circostanze atte ad imitare, ed in qualche modo riprendere il codice espressivo dei romanzi epici di epoche precedenti. Con lo scopo contingente, da parte dell’autore, di mettere in ridicolo particolari classi sociali e comportamenti tipici della sua Era. In modo abbastanza veemente, guarda caso, da vedere i propri testi proibiti all’Università della Sorbona ed essere escluso, in modo progressivo, da diversi circoli dei cosiddetti sapienti. Il che non sarebbe bastato in ultima analisi a limitare la fama imperitura di Rabelais, almeno a giudicare dalla quantità di opere collaterali prodotte a partire dall’anno della sua morte nel 1553, molte delle quali fatte idealmente discendere, in una qualche maniera, dai presunti appunti o note ritrovate tra gli averi del beneamato scrittore…

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Video appassionante mostra la perizia coreana nel far progredire le ceramiche a sbalzo

In questa sequenza pubblicata sul canale d’approfondimento artistico Process K, l’artista coreano Tag Weondae, dello studio di produzione Woorimdoe, si mostra profondamente concentrato nell’apposizione di uno strato decorativo sulla superficie di un vaso dalle dimensioni alquanto significative. In quella che la didascalia di YouTube definisce come una tecnica affine al concetto di buncheong, apparentemente simile al sistema occidentale dello “sgraffito” un approccio pratico consistente nell’ottenimento di un immagine incidendola direttamente in uno strato monocromatico, in questo caso la vetrinatura stessa dell’oggetto di una simile capacità manuale. Un tratto dopo l’altro, come se fosse la cosa più facile del mondo, l’artista tratteggia le forme riconoscibili di un albero contorto dai molteplici rami, alcuni pescatori, le gru in volo e dei bambini che procedono in groppa ad un bue. Quindi, in un impulso dinamico ma attentamente calibrato, inizia a circondare i suoi disegni con tratti grossolani e nebulosi, apparentemente privi di una logica del tutto evidente. Ma l’immagine, a poco a poco, inizia ad assumere un significato maggiormente profondo…
Ogni opera creativa prodotta nel corso dei secoli tende in modo implicito alla perfezione, ma siamo assolutamente certi, in fin dei conti, che si tratti di un concetto totalmente oggettivo? Se il principio di partenza delle arti, a seconda dei secoli, varia in maniera progressiva e qualche volta imprevedibile, cosí dovrebbe essere anche nel caso dei valori perseguibili attraverso il suo sentiero verso la tangibile presenza generativa. E non è certo la raffinatezza, di suo conto, a dover costituire in modo imprescindibile un sinonimo di tale persistente aspirazione umana. O almeno ciò si evince, in modo alquanto pratico, dal prendere atto delle caratteristiche fondamentali dell’attività ceramica della penisola coreana, un ambito talmente distintivo e interessante, da aver costituito per secoli una delle principali esportazioni di questo paese. Fino ai confini dell’epoca moderna ed oltre, in modo tale da trascendere il mero concetto di una prassi dall’interesse nazionale diventando un punto di riferimento per culture altrettanto attente ai fattori tecnologici delle cose quotidiane, quali potremmo essere inclini a definire quelle del Giappone e della Cina. Ed è perciò diffuso ancora oggi, il commento storiografico basandosi sul quale nulla di più bello ed universalmente apprezzabile in quanto tale sia effettivamente rintracciabile in tale ambito del cosiddetto celadon, dal termine francese usato in qualità di sinonimo del personaggio letterario dell’Astrea, un pastore dal costume ornato di nastri di un colore verde chiaro. Lo stesso caratterizzante, in base al novero dell’esperienza dei collezionisti, il tipico vaso proveniente dal paese di Goryeo, originariamente traslitterato dal viaggiatore Marco Polo mediante l’espressione fonetica di Cauli. Una scelta di termini che ci pone, cronologicamente, nella seconda metà del XII secolo, quando tale forma d’arte fu capace di raggiungere una vetta destinata a rimanere insuperata nei secoli successivi. Con una pletora di meriti talmente lunga e significativa, da indurre lo stato centralizzato del paese all’implementazione di un sistema di meriti e regolamenti, per cui giammai un artista produttore di cheongja (청자) avrebbe potuto avere l’iniziativa d’insegnare la sua arte all’estero, o in alternativa importare termini creativi da tale misterioso ed altrettanto proibito ambiente. Il che diede inizio a quella che potremmo definire come l’arte senza tempo del buncheong…

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Addio, mio dromedario: l’arte delle lampade create con la pelle dei quadrupedi pakistani

Il turista sufficientemente coraggioso da spingersi fino in Asia Meridionale in questo mondo affetto da guerre, instabilità politica, strascichi di pandemie latenti, potrà idealmente giungere ad un certo punto del suo itinerario fino all’antichissima città pakistana di Multan. Sito del tempio di Bahauddin Zakariya, la tomba di Shah Gardez, la moschea di Shahi Eid Gah. Luogo ove nei tempi più remoti, un particolare culto di venerazione dell’astro solare aveva portato alla costruzione del più vasto santuario a Surya, prima tra le cinque divinità astrali nel Panchayatana puja. Luogo d’incontro sincretistico tra discipline culturali e stili di vita differenti, per la prima volta noto alla cultura occidentale per l’assedio e successiva conquista ad opera del grande Iskandar, il conquistatore passato per la Persia che i macedoni chiamavano Alessandro Magno. E sarà in quel fatidico momento, camminando per le strade di un centro storico pieno di siti e personaggi interessanti, che potrà capitargli di scorgere una nota di colore tra le botteghe di artigianato tradizionale: motivi geometrici e floreali, ripetuti geometricamente sopra il novero di un variegato catalogo d’oggetti, con vasi, soprammobili e infiniti recipienti. Ma tra tutti, assai notevoli, risulteranno essere i fungoidi paralumi sollevati dalla superficie degli scaffali, per intrappolare e lasciar filtrare l’intensa luce pomeridiana attraverso lo spessore diafano del proprio involucro semi-trasparente. Come se fossero meduse, o impossibili sculture di carta velina, ciononostante sufficientemente compatte da mantenersi solide durante gli eventuali spostamenti. “Un materiale polimerico probabilmente frutto dell’industria moderna” potrà forse elaborare qualcuno tra i passanti disinformati, ingenuamente tratto in inganno dall’inconcepibile commistione di fascino ed efficienza. Almeno finché non gli riuscirà, nel corso dello stesso giro, di acquisire l’esperienza dei fabbricanti all’opera dinnanzi agli occhi della gente. Poiché nella produzione della cosiddetta lampada Naqashi, applicazione pratica dell’omonima pittura affrescata originariamente tipica della decorazione architettonica di luoghi sacri o privati, si dice siano coinvolte in genere tra figure d’artigiani distinti: il naqash o pittore; il kumhar, costruttore dello stampo tipico costruito con l’argilla; e l’essenziale dabgar, esperto conciatore della pelle di una bestia simbolo di queste terre, situate sul confine del deserto del Cholistan. L’ideale nave dalle gobbe assai riconoscibili, per questo, egualmente utile per la dissipazione del calore e l’immagazzinamento d’acqua utile a garantirne la difficile sopravvivenza. Benché gli animali, in questo come qualsivoglia altro luogo frequentato da civiltà complesse, sono essenzialmente mantenuti ed asserviti allo scopo di fornire pratici vantaggi per l’uomo, continuando ad essere utili anche nel periodo successivo alla propria inevitabile dipartita. Da cui è sistematico, entro le mura dell’originale capitale del sultanato di Langah, l’inizio di un percorso che potrebbe anche portarli ad essere perennemente immortalati sopra il comodino del proprio stesso riconoscente padrone…

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