La verità sepolta dei dinosauri piumati

Sono un paleontologo semplice: ogni mattina, mi sveglio per il richiamo di un dinosauro domestico, che vive assieme a una manciata di femmine in un recinto che contiene le sue uova. Mentre faccio colazione, osservo dalla finestra i dinosauri che si dirigono verso il centro della città, per andare a mangiare nelle piazze e i vicoli tra i ristoranti frequentati dai turisti. Qualche volta, tra le loro forme grigio-bluastre se ne scorgono alcune bianche, che emettono delle forti grida ogni qualvolta dispiegano le grandi ali, planando con decisione in direzione del loro obiettivo. Minuscoli dinosauri, nel frattempo, vengono sul davanzale della mia casa, nella speranza di avere le briciole del mio toast. Prendete, piccini. Sono anche un paleontologo… Altruista. Che se pure non dovesse sapere niente sul lungamente discusso evento di estinzione del Cretaceo-Paleocene, per lo meno avrebbe cognizione di un qualcosa che l’uomo della strada tende fin troppo spesso a trascurare: il gigantesco meteorite caduto nel golfo nel Messico/la catastrofica eruzione nell’Himalaya/la regressione marina delle placche continentali (tre delle possibili cause proposte dagli studiosi) che potrebbero essersi verificate all’incirca 66 milioni di anni fa, avrebbero costituito episodi dalla portata indubbiamente devastante. Epocali devastazioni capaci di sterminare, al loro verificarsi, milioni e milioni di esemplari appartenenti a un intero clade della vita biologica sulla Terra. Ma non importa quanto terribile possa essere stato il disastro: al suo concludersi, semplicemente, non potevano essere morti TUTTI. Il che da un certo punto di vista, è sinonimo dell’affermare che non si erano estinti AFFATTO. Non è forse questa, in fondo, la prima regola dell’ecologia? Ciò che non perisce, si adatta. Quindi prospera e in breve tempo, ripristina la propria popolazione. Forse meno celebre nell’immaginario collettivo dell’epoca dei particolari dinosauri clonati per il cinema di Steven Spielberg, ma comunque popolare sulle pagine dei libri per bambini, è la variegata congrega dei mammiferi del periodo Triassico (252-201 milioni di anni fa) spesso versioni sovradimensionate, bizzarre o in qualche maniera formidabili degli animali che abbiamo ora: ippopotami di terra, bradipi giganteschi, predatori simili a leopardi con il cranio di coccodrillo. Di sicuro le creature che possiamo ammirare oggi all’interno dei documentari e negli zoo assomigliano relativamente poco a simili esseri. Eppure, nonostante l’inevitabile riduzione della loro popolazione complessiva che deve essersi necessariamente verificata per la stessa ragione dei dinosauri, nessuno mai parla della loro “estinzione”. “Il mammifero, forma di vita superiore, riuscì a prosperare e vincere la gara evolutiva” affermano i libri di testo scolastici, come se si trattasse di un dogma di religione. “Quindi, all’incirca 7,4 milioni di anni fa, dalle scimmie iniziarono a palesarsi i nostri più remoti antenati, tendenti all’umanità.” Questa ideale graduatoria, una separazione tra creature da un manifesto destino, ed altre inerentemente condannate a perire, viene oggi rigettata dalla comunità scientifica, come superata e poco realistica rispetto ai fatti. Ma un conto è ciò che sappiamo. Tutt’altra storia, quella che raccontiamo.
Per ogni persona che non scelga di fare il paleontologo, c’è un momento dell’infanzia o la prima adolescenza in cui s’interesserà di loro. Un tempo, sarebbe stato iniziato dalla lettura di un libro pieno d’illustrazioni, magari ricevuto in dono da uno zio o un nonno acculturato. Per chi ha vissuto a pieno gli anni ’90, potrebbe essersi trattato del già citato film spielbergiano, vero momento di svolta nel campo del cinema d’intrattenimento a base di effetti speciali. Per gli esponenti della cosiddetta generazione X, magari, potrebbe trattarsi dei Pokémon, o videogiochi online, come il sempre popolare Ark. Si tratta in ogni caso di un periodo notevolmente formativo per l’immaginazione, durante il quale acquisiranno l’immagine di queste monumentali creature, scagliose come lucertole o coccodrilli, che deambulando pesantemente lasciavano udire ruggiti simili a quelli di un leone, prima di lanciarsi all’inseguimento di erbivori cornuti, vagamente simili a surreali autotreni. E questa è stata, per lungo tempo, una delle possibili versioni della storia. Ma fu il primo a metterla in dubbio, addirittura, niente meno che Thomas Henry Huxley, il biologo noto come “il bulldog di Darwin” per la tenacia con cui difese, nella seconda metà del XIX secolo, le teorie del grande naturalista inglese. Il quale disse, dinnanzi a un ambiente inizialmente scettico, che molto probabilmente gli uccelli non soltanto discendevano dai dinosauri. Ma da un punto di vista puramente tecnico, si sarebbe potuto ancora definirli come appartenenti a quella particolare macro-categoria. Allo stesso modo in cui noi ci chiamiamo mammiferi, pur avendo ben poco a che fare con i castoridi o i docodonti, da cui la nostra classe di creature discende in maniera pressoché diretta. Con il trascorrere delle generazioni, inevitabilmente, continuavano ad accumularsi le prove.

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Il mostro che solleva la proboscide del dubbio

Non tutto ciò che è antico risulta essere anche prezioso, soprattutto quando ci si orienta sulla base di periodi geologici risalenti a molti milioni di anni fa. Avete mai provato a sollevare una piccola roccia in un campo e provare ad immaginare da quanti anni una tale cosa abbia occupato spazio sul pianeta Terra? O in altri termini, abbia graziato il mondo con la sua esistenza? Tutto ha una storia, persino ciò che non sembrerebbe averne un briciolo secondo la convenzione predeterminata. Persino il carburante che brucia nelle nostre stufe o centrali elettriche, l’oscuro, sporco, combustibile carbone. Una ricchezza in determinati territori, che gli permise nei secoli di diventare un polo economico della moderna società delle risorse. Depositario di una fondamentale seppur trascurata verità: che in corrispondenza di ogni singolo giacimento sperduto in mezzo a una radura, sulle propaggini di un deserto o una regione infertile e priva di vita, esisteva un tempo una foresta rigogliosa, popolata di creature che la nostra mente fatica duramente ad immaginare. Come avveniva per gli uomini nei romanzi di Robert E. Howard, che parlavano di grandi civiltà antecedenti a una catastrofe che causò il rimescolamento dei continenti (e la scomparsa di Atlantide) ci sono luoghi che un tempo avevano un volto del tutto differente. Spazi geografici come l’acquitrino di Mazon Creek, lagerstätte sedimentario non troppo distante da Chicago, nell’Illinois, dove fino a un paio di generazioni a questa parte lavoravano alacremente le ruspe, e adesso si recano invece schiere di aspiranti paleontologi, armati di pala e piccone, alla ricerca di un particolare tipo di pietre con qualche cosa di nuovo da raccontare. Delle concrezioni risalenti al Pennsylvaniano (318-299 milioni di anni fà) ovvero agglomerati di materiale geologico nati attorno ad un nucleo più resistente, che ad uno sguardo esperto mostrano l’immagine chiaramente stampata di piante ed animali risalenti a quel tempo mostruosamente distante. Tra cui una, sopratutto, ha saputo colpire la fantasia dei paleontologi offrendo la ragione di una disputa pluri-decennale che giusto questa settimana, si è arricchita di un capitolo nuovo: il Tullimonstrum gregarium, più amichevolmente definito mostro di Tully. O mostriciattolo, viste le dimensioni di appena una trentina di centimetri. Ma quanta stranezza, in un tale compatto ed immortalato contenitore!
Se voi poteste entrare, proprio adesso, in una macchina del tempo, e ripercorrere il sentiero delle ere fino a quando un tale luogo si trovava ad appena 10 gradi dall’equatore, per effetto del fenomeno della deriva delle masse continentali, non fatichereste probabilmente ad individuarne qualcuno. La quantità e varietà di fossili ritrovati, benché non ve ne siano più che uno ogni cento concrezioni di Mazon, hanno infatti permesso di comprendere che questo animale, all’epoca, era tutt’altro che raro, da cui il nome scientifico, per l’appunto, di gregarium, ovvero comune. La bestiolina si avvicinerebbe alle vostre caviglie, incuriosita per l’improvviso movimento, tastandole col suo principale organo sensoriale: una lunga proboscide articolata, dotata di un’arto prensile all’estremità, con fino a 16 piccoli denti acuminati  non troppo dissimili, per lo meno concettualmente, da quelli presenti sulla lingua del mostro di Alien. Oggi l’opinione più diffusa tra gli scienziati è che tale parte anatomica non fosse in effetti la bocca dell’animale, probabilmente sita in una collocazione simile a quella dei cefalopodi a cui vagamente rassomiglia, bensì un fondamentale strumento usato per procurarsi il cibo. Ma le stranezze, come potete facilmente desumere dall’illustrazione soprastante di Sean McMahon tratta dall’articolo dell’Università di Yale sull’argomento,  non finiscono certo qui. La creatura aveva un corpo tozzo e allungato come un dirigibile, con due pinne simili a quelle di una seppia ed un paio di occhi situati su lunghi peduncoli, non dissimili da quelli di un granchio del cocco. È probabile che la distanza dal corpo in cui questi erano posizionati avesse lo scopo di permettergli di scorgere meglio cosa stesse afferrando con la proboscide dentata, mentre setacciava il fondale alla ricerca dei piccoli esseri di cui si nutriva, simili a gamberi, crostacei o microrganismi di vario tipo. Ma qui stiamo entrando nel regno della più pura speculazione. Ciò che qualunque fossile di questo tipo può meramente costituire, in effetti, è soltanto una semplice foto, molto spesso incompleta, di qualcosa che da un lunghissimo tempo non è più fra noi. Ogni tipo di speculazione, a partire da una simile presa di coscienza, è campo fertile per le nostre più assurde idee…

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